Il petrolio fuoriuscito dalla piattaforma Deepwater Horizon continua ad avere un forte impatto sugli ecosistemi colpiti. Anche le persone si ammalano per l’esposizione agli agenti chimici. Scarso il sostegno da parte di una nazione che sembra aver dimenticato la catastrofe. Intanto la Bp gioca al ribasso.
Qualenergia - Il più grande disastro petrolifero della storia rischia di diventare l’ennesima catastrofe ambientale dimenticata. Questo temono le popolazioni locali e le associazioni che operano nella zona del Golfo del Messico e che, a un anno dall’incidente della Deepwater Horizon, si sentono bloccati nel tempo, lontani da una ripresa. “L’olio è ancora qui – dice Dan Favre, del Gulf Restoration Network, gruppo di New Orleans che dal 1994 si occupa di proteggere e riequilibrare le risorse naturali del Golfo – La settimana scorsa sono stato a visitare delle paludi ed era chiaramente visibile. Il petrolio della BP continua a inquinare il fragile ecosistema delle paludi, si riversa sulle spiagge in forma di sfere e pellicole di catrame e ce n’è ancora una significativa quantità in mare aperto”.
Gli ecosistemi sono in sofferenza e le immagini di pozze di fango nero e animali ricoperti di olio sono ancora frequenti. E intanto l’economia della pesca e del turismo è immobile. Il recente documentario Stories from the Gulf, realizzato dal Natural Resource Defence Council, raccoglie decine di storie di persone del luogo, mostra i danni sull’ecosistema e sull’economia e non lascia dubbi sul fatto che le ripercussioni siano ancora visibili.
“Sulle spiagge del Golfo arrivano ancora tartarughe marine e delfini morti – riprende Dan Favre – I dentici che vengono pescati hanno lesioni e infezioni, molto probabilmente causate dal petrolio. Nelle delicate paludi della Louisiana il petrolio sta accelerando l’emergenza dell’erosione costiera che ogni 45 minuti vede scomparire una porzione, della grandezza di un campo di calcio, di un ecosistema che funziona da naturale protezione per le tempeste. E anche la specie nota come uomo continua a soffrire. La gente si ammala per via dell’esposizione agli agenti chimici e non sta ricevendo cure né supporto”.
Oceana, la più grande organizzazione internazionale che si occupa di fare pressioni sui governi per la protezione degli oceani, sta monitorando la situazione in attesa di poter valutare con precisione il danno. Ma ci vorranno anni prima che si possano comprendere gli effetti sul ciclo di vita degli animali della zona. “Siamo soprattutto preoccupati per quelle specie che hanno un lungo ciclo di vita e che arrivano lentamente all’età riproduttiva – spiega Jackie Savitz, biologo marino e responsabile campagne per Oceana – Animali di questo tipo sono meno capaci di riprendersi da elementi di disturbo ecologico. E poi ci sono specie già a rischio, la cui popolazione è comunque sottoposta a stress e potrebbe aver ricevuto il colpo finale”.
Alcune specie destano più preoccupazione di altre a causa di abitudini che le espongono maggiormente al rischio di contatto col petrolio. “Quando c’è stata la perdita, l’anno scorso, le tartarughe marine sono state esposte al petrolio in ogni fase. Queste, infatti, quando salgono in superficie per respirare vengono in contatto con quella zuppa tossica che abbiamo creato e possono inalare gli inquinanti e il petrolio può finire nel loro sistema digestivo e causare bolle d’aria che rendono loro impossibile immergersi per cercare il cibo. E quando depongono le uova sulla spiaggia, se queste si coprono d’olio non riescono a schiudersi e, nel caso in cui ce la facciano, i piccoli devono essere abbastanza fortunati da arrivare all’acqua senza incontrare petrolio sulla propria strada”.
Altra specie a rischio è il tonno pinna azzurra che si riproduce in primavera nel Golfo del Messico e in pochissimi altri luoghi nel mondo. L’esplosione della Deepwater l’anno scorso è avvenuta proprio durante la stagione riproduttiva e non è ancora possibile prevedere che effetti abbia avuto sui livelli della popolazione, già stremata dalla pesca intensiva.
Con l’Early recovery agreement, sottoscritto il 21 aprile, la Bp si è impegnata a stanziare un miliardo di dollari per una prima fase di progetti per il ripristino ambientale. I beneficiari di questo primo stanziamento saranno gli stati dell’Alabama, Louisiana, Mississippi, Texas e Florida oltre che il dipartimento dell’interno e la Noaa (National Oceanic and Atmospheric Administration). Intanto proseguirà la valutazione complessiva del danno a conclusione della quale, secondo l’accordo, le parti interessate dovranno prendere in considerazione qualsiasi beneficio ottenuto attraverso i progetti di ripristino “precoce”. Resta l’obbligo, per la BP, della compensazione per l’intera entità del danno.
“Il governo sta cercando di valutare a quanto corrispondano in dollari le risorse danneggiate. Ma non è ancora arrivato a un numero definitivo – riprende Savitz – La BP sta cercando di mantenere quel numero il più basso possibile. Per questo si sono accordati per prendere un miliardo di dollari dal fondo di risarcimento che avevano già stanziato l’anno scorso per avviare il ripristino “precoce”. Ma quei soldi erano già stati messi in conto e avrebbero dovuto essere utilizzati per risarcire i cittadini, mentre la mia impressione è che quella gente non vedrà i soldi molto presto. Inoltre ogni soldo che la Bp oggi spende nel ripristino “precoce” potrebbe finire per farle risparmiare soldi sul lungo periodo”.
E tuttavia il punto, secondo Oceana, è prevenire ulteriori rischi. Per questo il gruppo sta concentrando la propria attenzione sulla nuove autorizzazioni e sta facendo pressioni perché il Governo blocchi i nuovi permessi nel Golfo e in generale tutte le esplorazioni ed estrazioni offshore. “Quando è avvenuta la fuoriuscita – conclude Jackie Savitz – il Governo si è trovato in una situazione senza vincitori. Quando io mi trovo in una situazione del genere penso che sto perdendo e che devo fare in modo che non succeda di nuovo. Quello che è veramente importante, al di là di come abbiano gestito l’emergenza, è che una cosa del genere non avvenga più (petizione on line di Oceana). E invece stanno facendo l’errore di permettere che avvenga ancora” (QualEnergia.it, È bastato un anno per dimenticare il disastro della BP).
Il 20 aprile, in occasione dell’anniversario dell’esplosione della Deepwater, Lisa Jackson, amministratore dell’Epa (Environmental Protection Agency) e presidente della task force per il recupero del Golfo, ha visitato i progetti di ripristino avviati sulla costa della Louisiana e del Mississippi e ha dichiarato che l’impegno dell’Epa è di lavorare per ricostruire la regione e ricominciare a immaginare un futuro migliore per le comunità del Golfo. Futuro che tuttavia al momento sembra ancora incerto.
“Il petrolio è ancora qui e ci siamo anche noi – riprende Dan Favre, del Gulf Restoration Network – Il Golfo ha ancora bisogno di supporto ma la nazione ha messo da parte il problema. È incredibile che, a distanza di un anno, il Governo debba ancora approvare una qualsiasi legge che possa aiutare a ripristinare o proteggere il Golfo. Il Congresso deve assicurare che il denaro ricavato dalla tassazione della BP e delle altre sia realmente utilizzato nel recupero del Golfo. Inoltre dovrebbe approvare una legge che istituisca il Regional Citizens Advisory Council (un organo regionale di consulenza dei cittadini) per dare alle popolazioni colpite la possibilità di verificare che i piani di risposta al disastro proteggano realmente la nostra costa”.
di Maurita Cardone
Qualenergia - Il più grande disastro petrolifero della storia rischia di diventare l’ennesima catastrofe ambientale dimenticata. Questo temono le popolazioni locali e le associazioni che operano nella zona del Golfo del Messico e che, a un anno dall’incidente della Deepwater Horizon, si sentono bloccati nel tempo, lontani da una ripresa. “L’olio è ancora qui – dice Dan Favre, del Gulf Restoration Network, gruppo di New Orleans che dal 1994 si occupa di proteggere e riequilibrare le risorse naturali del Golfo – La settimana scorsa sono stato a visitare delle paludi ed era chiaramente visibile. Il petrolio della BP continua a inquinare il fragile ecosistema delle paludi, si riversa sulle spiagge in forma di sfere e pellicole di catrame e ce n’è ancora una significativa quantità in mare aperto”.
Gli ecosistemi sono in sofferenza e le immagini di pozze di fango nero e animali ricoperti di olio sono ancora frequenti. E intanto l’economia della pesca e del turismo è immobile. Il recente documentario Stories from the Gulf, realizzato dal Natural Resource Defence Council, raccoglie decine di storie di persone del luogo, mostra i danni sull’ecosistema e sull’economia e non lascia dubbi sul fatto che le ripercussioni siano ancora visibili.
“Sulle spiagge del Golfo arrivano ancora tartarughe marine e delfini morti – riprende Dan Favre – I dentici che vengono pescati hanno lesioni e infezioni, molto probabilmente causate dal petrolio. Nelle delicate paludi della Louisiana il petrolio sta accelerando l’emergenza dell’erosione costiera che ogni 45 minuti vede scomparire una porzione, della grandezza di un campo di calcio, di un ecosistema che funziona da naturale protezione per le tempeste. E anche la specie nota come uomo continua a soffrire. La gente si ammala per via dell’esposizione agli agenti chimici e non sta ricevendo cure né supporto”.
Oceana, la più grande organizzazione internazionale che si occupa di fare pressioni sui governi per la protezione degli oceani, sta monitorando la situazione in attesa di poter valutare con precisione il danno. Ma ci vorranno anni prima che si possano comprendere gli effetti sul ciclo di vita degli animali della zona. “Siamo soprattutto preoccupati per quelle specie che hanno un lungo ciclo di vita e che arrivano lentamente all’età riproduttiva – spiega Jackie Savitz, biologo marino e responsabile campagne per Oceana – Animali di questo tipo sono meno capaci di riprendersi da elementi di disturbo ecologico. E poi ci sono specie già a rischio, la cui popolazione è comunque sottoposta a stress e potrebbe aver ricevuto il colpo finale”.
Alcune specie destano più preoccupazione di altre a causa di abitudini che le espongono maggiormente al rischio di contatto col petrolio. “Quando c’è stata la perdita, l’anno scorso, le tartarughe marine sono state esposte al petrolio in ogni fase. Queste, infatti, quando salgono in superficie per respirare vengono in contatto con quella zuppa tossica che abbiamo creato e possono inalare gli inquinanti e il petrolio può finire nel loro sistema digestivo e causare bolle d’aria che rendono loro impossibile immergersi per cercare il cibo. E quando depongono le uova sulla spiaggia, se queste si coprono d’olio non riescono a schiudersi e, nel caso in cui ce la facciano, i piccoli devono essere abbastanza fortunati da arrivare all’acqua senza incontrare petrolio sulla propria strada”.
Altra specie a rischio è il tonno pinna azzurra che si riproduce in primavera nel Golfo del Messico e in pochissimi altri luoghi nel mondo. L’esplosione della Deepwater l’anno scorso è avvenuta proprio durante la stagione riproduttiva e non è ancora possibile prevedere che effetti abbia avuto sui livelli della popolazione, già stremata dalla pesca intensiva.
Con l’Early recovery agreement, sottoscritto il 21 aprile, la Bp si è impegnata a stanziare un miliardo di dollari per una prima fase di progetti per il ripristino ambientale. I beneficiari di questo primo stanziamento saranno gli stati dell’Alabama, Louisiana, Mississippi, Texas e Florida oltre che il dipartimento dell’interno e la Noaa (National Oceanic and Atmospheric Administration). Intanto proseguirà la valutazione complessiva del danno a conclusione della quale, secondo l’accordo, le parti interessate dovranno prendere in considerazione qualsiasi beneficio ottenuto attraverso i progetti di ripristino “precoce”. Resta l’obbligo, per la BP, della compensazione per l’intera entità del danno.
“Il governo sta cercando di valutare a quanto corrispondano in dollari le risorse danneggiate. Ma non è ancora arrivato a un numero definitivo – riprende Savitz – La BP sta cercando di mantenere quel numero il più basso possibile. Per questo si sono accordati per prendere un miliardo di dollari dal fondo di risarcimento che avevano già stanziato l’anno scorso per avviare il ripristino “precoce”. Ma quei soldi erano già stati messi in conto e avrebbero dovuto essere utilizzati per risarcire i cittadini, mentre la mia impressione è che quella gente non vedrà i soldi molto presto. Inoltre ogni soldo che la Bp oggi spende nel ripristino “precoce” potrebbe finire per farle risparmiare soldi sul lungo periodo”.
E tuttavia il punto, secondo Oceana, è prevenire ulteriori rischi. Per questo il gruppo sta concentrando la propria attenzione sulla nuove autorizzazioni e sta facendo pressioni perché il Governo blocchi i nuovi permessi nel Golfo e in generale tutte le esplorazioni ed estrazioni offshore. “Quando è avvenuta la fuoriuscita – conclude Jackie Savitz – il Governo si è trovato in una situazione senza vincitori. Quando io mi trovo in una situazione del genere penso che sto perdendo e che devo fare in modo che non succeda di nuovo. Quello che è veramente importante, al di là di come abbiano gestito l’emergenza, è che una cosa del genere non avvenga più (petizione on line di Oceana). E invece stanno facendo l’errore di permettere che avvenga ancora” (QualEnergia.it, È bastato un anno per dimenticare il disastro della BP).
Il 20 aprile, in occasione dell’anniversario dell’esplosione della Deepwater, Lisa Jackson, amministratore dell’Epa (Environmental Protection Agency) e presidente della task force per il recupero del Golfo, ha visitato i progetti di ripristino avviati sulla costa della Louisiana e del Mississippi e ha dichiarato che l’impegno dell’Epa è di lavorare per ricostruire la regione e ricominciare a immaginare un futuro migliore per le comunità del Golfo. Futuro che tuttavia al momento sembra ancora incerto.
“Il petrolio è ancora qui e ci siamo anche noi – riprende Dan Favre, del Gulf Restoration Network – Il Golfo ha ancora bisogno di supporto ma la nazione ha messo da parte il problema. È incredibile che, a distanza di un anno, il Governo debba ancora approvare una qualsiasi legge che possa aiutare a ripristinare o proteggere il Golfo. Il Congresso deve assicurare che il denaro ricavato dalla tassazione della BP e delle altre sia realmente utilizzato nel recupero del Golfo. Inoltre dovrebbe approvare una legge che istituisca il Regional Citizens Advisory Council (un organo regionale di consulenza dei cittadini) per dare alle popolazioni colpite la possibilità di verificare che i piani di risposta al disastro proteggano realmente la nostra costa”.
di Maurita Cardone
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