In questi giorni si infittisce la campagna promozionale per i referendum che si celebreranno il 12 e il 13 giugno. Tre le questioni su cui i cittadini sono chiamati ad esprimere il loro voto: “privatizzazione” dell’acqua, nucleare e legittimo impedimento, per un totale di quattro quesiti (due sono infatti quelli legati alla gestione privata dell’acqua).
Il poco spazio che le televisioni nazionali stanno riservando all’informazione sui referendum è – ahimè – quasi interamente riservato alle questioni del nucleare e del legittimo impedimento (quelle, del resto, che si prestano ad una maggiore politicizzazione del dibattito), mentre dell’acqua si sta obiettivamente parlando meno. Questo non fa che nuocere alla formazione di una matura consapevolezza dei cittadini, che corrono il rischio di presentarsi alle urne all’oscuro del reale significato dei quesiti per i quali sono consultati, facendo solo affidamento agli spot propagandistici che vengono loro propinati dai sostenitori del referendum, primo fra tutti quello per cui l’acqua è un bene di tutti e pertanto non può finire nelle mani dei privati. In realtà la questione è molto più complessa e merita di essere trattata con maggior attenzione.
Andiamo ad esaminare allora il contenuto dei due quesiti e delle norme di legge di cui si chiede l’abrogazione. Col primo quesito si chiede di abrogare l'art. 23 bis del decreto legge n. 112/2008 (convertito in legge n. 133/2008) e l'art. 15 del decreto legge n. 135/2009: benché i promotori insistano nel presentare questo primo quesito come quello contro la privatizzazione dell’acqua, in realtà, se si vanno a leggere le disposizioni di cui si chiede l’abrogazione, ci si accorgerà che esse hanno un oggetto ben più ampio. Infatti, l’art. 23 bis d. l. 112/2008 è norma di carattere generale che disciplina l’intero settore dei servizi pubblici locali di rilevanza economica (ad eccezione delle materie relative alla distribuzione dell’energia elettrica e del gas nonché alla gestione delle farmacie comunale e alla disciplina del trasporto ferroviario regionale, regolate da apposite leggi speciali). Si tratta di materia su cui incidono fortemente i principi comunitari sulla concorrenza e sugli aiuti di Stato: non a caso la materia dei servizi pubblici locali ha subito negli ultimi anni numerose modifiche legislative nel senso di una progressiva maggiore liberalizzazione. L’art. 23 bis rappresenta invero l’ultimo tentativo compiuto dal nostro legislatore per adeguare la normativa interna alla disciplina comunitaria. Sicché attualmente tre sono le modalità generali di affidamento della gestione dei servizi pubblici locali (ivi compreso il servizio idrico): 1) affidamento a favore di imprenditori o società mediante procedure competitive ad evidenza pubblica; 2) affidamento a società a partecipazione mista pubblica e privata, con attribuzione al socio privato (selezionato pur sempre mediante procedura di gara) di una partecipazione non inferiore al 40%; 3) affidamento in house (ossia a società con capitale interamente pubblico), allorché le peculiari caratteristiche sociali, economiche, ambientali e geomorfologiche del contesto territoriale di riferimento non permettono un efficace e utile ricorso al mercato. In definitiva, con l’attuale normativa, sulla scia del diritto comunitario, più ancora che nel passato, le liberalizzazioni dei servizi pubblici locali di rilevanza economica sono destinate a diventare la regola, mentre gli affidamenti in house l’eccezione. L’elettore dunque sappia che il 12-13 giugno voterà a favore o contro le liberalizzazioni dei servizi pubblici locali in generale e non soltanto per l’acqua. E sappia anche che il suo voto avrà un’incidenza limitata sulle scelte del futuro legislatore, il quale, di fronte alle “insistenze” (e alle possibili sanzioni) dell’Unione europea, non potrà fare a meno di reintrodurre una disciplina analoga a quella eventualmente abrogata per via referendaria. A meno di non voler uscire dall’Unione europea, quello delle liberalizzazioni dei servizi pubblici è da considerarsi infatti un approdo ormai definitivo.
In vista dell’obiettivo che ci si propone con questo referendum (evitare la “privatizzazione” dell’acqua), forse sarebbe stato più opportuno circoscrivere il relativo quesito a quelle poche norme (tra quelle di cui si chiede l’abrogazione) in cui effettivamente si parla di acqua, vale a dire l’art. 23 bis, comma 5 d. l. 112/2008 e l’art. 15, comma 1 ter d. l. 135/2009. La prima delle richiamate norme così recita: “Ferma restando la proprietà pubblica delle reti, la loro gestione può essere affidata a soggetti privati”, ed è significativa, poiché non si parla di cessione ai privati della proprietà dell’acqua e delle rispettive reti di distribuzione, bensì di semplice affidamento ai privati della gestione del servizio idrico. Dunque, nessuna privatizzazione dell’acqua, come con insistenza propagandistica si ripete, ma una semplice liberalizzazione del servizio idrico. A sua volta, l’art. 15, comma 1 ter dispone che “tutte le forme di affidamento della gestione del servizio integrato di cui all’art. 23 bis … devono avvenire nel rispetto dei principi dell’autonomia gestionale del soggetto gestore e di piena ed esclusiva proprietà pubblica delle risorse idriche, il cui governo spetta esclusivamente alle istituzioni pubbliche, in particolare in ordine alla qualità e prezzo del servizio, in conformità a quanto previsto dal d. lgs. 3 aprile 2006, n. 152, garantendo il diritto alla universalità ed accessibilità del servizio”. Ancora una volta, si ribadisce la esclusiva proprietà pubblica delle risorse idriche e si garantisce agli enti pubblici territoriali il potere esclusivo in ordine al governo delle stesse, soprattutto per quanto riguarda accessibilità, qualità e prezzo del servizio.
Questo dovrebbe bastare a scongiurare i timori circa possibili manovre speculative dei gestori privati a danno degli utenti (i prezzi del servizio sono concordati con le istituzioni pubbliche, non imposti unilateralmente dagli imprenditori privati che hanno in gestione le reti). Timori che hanno indotto alla formulazione del secondo quesito referendario in tema di acqua, quello con cui si chiede l’abrogazione parziale dell’art. 154, comma 1 del codice dell’ambiente (d. lgs. n. 152/2006), nella parte in cui impone all’ente pubblico affidante di tener conto nella determinazione della tariffa del servizio idrico integrato anche dell’adeguatezza della remunerazione del capitale investito dal privato gestore. La norma, stando ai sostenitori del referendum, consentirebbe ai privati e alle multinazionali di trarre profitto da un bene fondamentale e primario come l’acqua a danno dei consumatori, che vedrebbero aumentare vertiginosamente i costi delle bollette dell’acqua. Ad essere sinceri, il rischio di manovre speculative non si può a priori e in assoluto escludere, ma quantomeno può essere contenuto entro limiti accettabili se gli amministratori locali faranno bene il loro lavoro: non dimentichiamoci infatti che il governo dell’acqua, anche per quanto riguarda il prezzo del servizio idrico, spetta pur sempre alle istituzioni pubbliche. D’altronde, un piccolo rincaro delle bollette dell’acqua è il prezzo che bisogna pagare per attrarre gli investimenti privati in un settore, quello delle reti e degli impianti di distribuzione dell’acqua, che ne ha particolarmente bisogno. E’ obiettivamente scandaloso che la rete idrica italiana, unica in Europa, perda il 40% dell’acqua che trasporta, con uno spreco pari a miliardi e miliardi di euro ogni anno. Non è certo questo il modo migliore di assicurare il diritto all’acqua per tutti!
Il poco spazio che le televisioni nazionali stanno riservando all’informazione sui referendum è – ahimè – quasi interamente riservato alle questioni del nucleare e del legittimo impedimento (quelle, del resto, che si prestano ad una maggiore politicizzazione del dibattito), mentre dell’acqua si sta obiettivamente parlando meno. Questo non fa che nuocere alla formazione di una matura consapevolezza dei cittadini, che corrono il rischio di presentarsi alle urne all’oscuro del reale significato dei quesiti per i quali sono consultati, facendo solo affidamento agli spot propagandistici che vengono loro propinati dai sostenitori del referendum, primo fra tutti quello per cui l’acqua è un bene di tutti e pertanto non può finire nelle mani dei privati. In realtà la questione è molto più complessa e merita di essere trattata con maggior attenzione.
Andiamo ad esaminare allora il contenuto dei due quesiti e delle norme di legge di cui si chiede l’abrogazione. Col primo quesito si chiede di abrogare l'art. 23 bis del decreto legge n. 112/2008 (convertito in legge n. 133/2008) e l'art. 15 del decreto legge n. 135/2009: benché i promotori insistano nel presentare questo primo quesito come quello contro la privatizzazione dell’acqua, in realtà, se si vanno a leggere le disposizioni di cui si chiede l’abrogazione, ci si accorgerà che esse hanno un oggetto ben più ampio. Infatti, l’art. 23 bis d. l. 112/2008 è norma di carattere generale che disciplina l’intero settore dei servizi pubblici locali di rilevanza economica (ad eccezione delle materie relative alla distribuzione dell’energia elettrica e del gas nonché alla gestione delle farmacie comunale e alla disciplina del trasporto ferroviario regionale, regolate da apposite leggi speciali). Si tratta di materia su cui incidono fortemente i principi comunitari sulla concorrenza e sugli aiuti di Stato: non a caso la materia dei servizi pubblici locali ha subito negli ultimi anni numerose modifiche legislative nel senso di una progressiva maggiore liberalizzazione. L’art. 23 bis rappresenta invero l’ultimo tentativo compiuto dal nostro legislatore per adeguare la normativa interna alla disciplina comunitaria. Sicché attualmente tre sono le modalità generali di affidamento della gestione dei servizi pubblici locali (ivi compreso il servizio idrico): 1) affidamento a favore di imprenditori o società mediante procedure competitive ad evidenza pubblica; 2) affidamento a società a partecipazione mista pubblica e privata, con attribuzione al socio privato (selezionato pur sempre mediante procedura di gara) di una partecipazione non inferiore al 40%; 3) affidamento in house (ossia a società con capitale interamente pubblico), allorché le peculiari caratteristiche sociali, economiche, ambientali e geomorfologiche del contesto territoriale di riferimento non permettono un efficace e utile ricorso al mercato. In definitiva, con l’attuale normativa, sulla scia del diritto comunitario, più ancora che nel passato, le liberalizzazioni dei servizi pubblici locali di rilevanza economica sono destinate a diventare la regola, mentre gli affidamenti in house l’eccezione. L’elettore dunque sappia che il 12-13 giugno voterà a favore o contro le liberalizzazioni dei servizi pubblici locali in generale e non soltanto per l’acqua. E sappia anche che il suo voto avrà un’incidenza limitata sulle scelte del futuro legislatore, il quale, di fronte alle “insistenze” (e alle possibili sanzioni) dell’Unione europea, non potrà fare a meno di reintrodurre una disciplina analoga a quella eventualmente abrogata per via referendaria. A meno di non voler uscire dall’Unione europea, quello delle liberalizzazioni dei servizi pubblici è da considerarsi infatti un approdo ormai definitivo.
In vista dell’obiettivo che ci si propone con questo referendum (evitare la “privatizzazione” dell’acqua), forse sarebbe stato più opportuno circoscrivere il relativo quesito a quelle poche norme (tra quelle di cui si chiede l’abrogazione) in cui effettivamente si parla di acqua, vale a dire l’art. 23 bis, comma 5 d. l. 112/2008 e l’art. 15, comma 1 ter d. l. 135/2009. La prima delle richiamate norme così recita: “Ferma restando la proprietà pubblica delle reti, la loro gestione può essere affidata a soggetti privati”, ed è significativa, poiché non si parla di cessione ai privati della proprietà dell’acqua e delle rispettive reti di distribuzione, bensì di semplice affidamento ai privati della gestione del servizio idrico. Dunque, nessuna privatizzazione dell’acqua, come con insistenza propagandistica si ripete, ma una semplice liberalizzazione del servizio idrico. A sua volta, l’art. 15, comma 1 ter dispone che “tutte le forme di affidamento della gestione del servizio integrato di cui all’art. 23 bis … devono avvenire nel rispetto dei principi dell’autonomia gestionale del soggetto gestore e di piena ed esclusiva proprietà pubblica delle risorse idriche, il cui governo spetta esclusivamente alle istituzioni pubbliche, in particolare in ordine alla qualità e prezzo del servizio, in conformità a quanto previsto dal d. lgs. 3 aprile 2006, n. 152, garantendo il diritto alla universalità ed accessibilità del servizio”. Ancora una volta, si ribadisce la esclusiva proprietà pubblica delle risorse idriche e si garantisce agli enti pubblici territoriali il potere esclusivo in ordine al governo delle stesse, soprattutto per quanto riguarda accessibilità, qualità e prezzo del servizio.
Questo dovrebbe bastare a scongiurare i timori circa possibili manovre speculative dei gestori privati a danno degli utenti (i prezzi del servizio sono concordati con le istituzioni pubbliche, non imposti unilateralmente dagli imprenditori privati che hanno in gestione le reti). Timori che hanno indotto alla formulazione del secondo quesito referendario in tema di acqua, quello con cui si chiede l’abrogazione parziale dell’art. 154, comma 1 del codice dell’ambiente (d. lgs. n. 152/2006), nella parte in cui impone all’ente pubblico affidante di tener conto nella determinazione della tariffa del servizio idrico integrato anche dell’adeguatezza della remunerazione del capitale investito dal privato gestore. La norma, stando ai sostenitori del referendum, consentirebbe ai privati e alle multinazionali di trarre profitto da un bene fondamentale e primario come l’acqua a danno dei consumatori, che vedrebbero aumentare vertiginosamente i costi delle bollette dell’acqua. Ad essere sinceri, il rischio di manovre speculative non si può a priori e in assoluto escludere, ma quantomeno può essere contenuto entro limiti accettabili se gli amministratori locali faranno bene il loro lavoro: non dimentichiamoci infatti che il governo dell’acqua, anche per quanto riguarda il prezzo del servizio idrico, spetta pur sempre alle istituzioni pubbliche. D’altronde, un piccolo rincaro delle bollette dell’acqua è il prezzo che bisogna pagare per attrarre gli investimenti privati in un settore, quello delle reti e degli impianti di distribuzione dell’acqua, che ne ha particolarmente bisogno. E’ obiettivamente scandaloso che la rete idrica italiana, unica in Europa, perda il 40% dell’acqua che trasporta, con uno spreco pari a miliardi e miliardi di euro ogni anno. Non è certo questo il modo migliore di assicurare il diritto all’acqua per tutti!
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Sono presenti 7 commenti
IO Al referendum VOTO SI : E' un falso dire che l' Unione Europea ci obbliga a privatizzare l'acqua: la Commissione Europea non ha affatto imposto la privatizzazione dei servizi pubblici, bensì ha ritenuto illegittime incentivazioni pubbliche ed altre agevolazioni fiscali a società di diritto privato che -pur discendendo da ex municipalizzate- operano oggi sul mercato. (Gazzetta Ufficiale UE L77/21 del 24/3/2003) (paragrafo 109)La neutralità significa che la Commissione non entra nel merito della questione se le imprese responsabili della prestazione di servizi di interesse generale debbano avere natura pubblica o privata. D'altra parte le norme
del trattato si applicano indipendentemente dal regime di proprietà di un'impresa.
questo è il link della Gazzetta Ufficiale andate al par. 109 http://ec.europa.eu/competition/state_aid/reform/archive_docs/public_service_comp/it.pdf
L'articolo non vuole dare indicazioni di voto, ma solo informare i lettori del reale significato delle questioni sul tavolo. Ciascuno dunque decida secondo coscienza di votare sì, no oppure astenersi, purché sia informato.
Detto questo, vorrei precisare, a beneficio della lettrice che ha lasciato il commento di cui sopra e degli altri lettori, che in nessuna parte del mio articolo si troverà scritto che l'Unione europea abbia imposto la privatizzazione dell'acqua. Anzi, come mi sono sforzato di spiegare, il problema non è la privatizzazione dell'acqua (la norma di cui si chiede l'abrogazione referendaria non parla affatto di privatizzazione), bensì la liberalizzazione dei servizi pubblici locali, questa sì imposta dal diritto comunitario. La giurisprudenza comunitaria sul punto è copiosa e, a partire dagli anni '90, la Corte di giustizia CE ha precisato in numerose pronunce (sentenza 18 novembre 1999, C-107-98; 11 gennaio 2005, C-26-03; 13 ottobre 2005, C-450/03; 6 aprile 2006, C-340/04) che gli affidamenti in house, cioè gli affidamenti in via diretta e senza gara a società a capitale interamente pubblico possono essere ammessi solo in presenza di due stringenti requisiti, pena in caso contrario la violazione dei principi di concorrenza, trasparenza e imparzialità: che l'ente affidante eserciti sulla società un controllo analogo a quello esercitato sui propri servizi e che la società realizzi la parte più importante dei propri servizi con l'ente stesso. La preferenza del diritto comunitario per le liberalizzazioni è netta e, da questo punto di vista, l'art. 23bis non fa altro che recepire una giurisprudenza comunitaria pacifica e ampiamente consolidata. La vicenda da lei citata attiene invece ad un'altra questione, quella degli aiuti di Stato alle imprese nazionali.
Bartolo Salone
Io al referendum voterò SI perchè penso che sia sbagliato imporre la scelta di liberalizzare un servizio in ogni caso. Credo che se una società pubblica funziona bene si debba poter continuare ad affidargli il servizio.
Detto che anche a me l'articolo sembra tendenzioso, ma lasciamo perdere.. sarà una mia (errata)impressione..
Liberalizzare un servizio non è di per sè sbagliato. Così come non si può dire che Pubblico=MalGestito e/o Privato=Concorrenza/buonaGestione
DI CERTO, OBBLIGARE un ente pubblico a vendere il 40% di un servizio, non è una buona manovra. Oltre agli aspetti ovvi di cui tutti parlano circa l'affidamento ad un privato di un bene importante come l'acqua, vorrei sottolineare che anche solo economicamente è un errore. La legge così com'è rende obbligatoria la cessione del 40%, quindi il prezzo di vendita sarà sicuramente molto basso poichè il venditore (l'ente pubblico) se riceve una sola offerta è obbligato ad accettarla, indipendentemente dal prezzo (la legge dice che DEVE vendere il 40%). La concorrenza entra in gioco solo tra più privati che vogliano contrattare con lo stesso ente pubblico fino alla riuscita dell'acquisto. STOP.
Questo non è liberalizzare, ma SVENDERE i servizi pubblici (non solo l'acqua).
Signora Michelle, il suo intervento mi dà modo di far chiarezza su un aspetto che non ha trovato spazio nel mio articolo, ma che obiettivamente andava la pena di chiarire, sperando che non giudichi anche la mia risposta tendenziosa.
La campagna di disinformazione creata su questo referendum è tale da indurre molti cittadini in errore anche su questo aspetto. In verità l'art. 23 bis, alla lett. a) del comma 8, non impone una vendita forzata ai privati di quote delle aziende pubbliche, ma detta una disciplina transitoria riguardante le attuali gestioni in house, prevedendo che esse cessino di diritto di esistere alla data del 31 dicembre 2011, a meno che le amministrazioni cedano ai privati almeno il 40% del capitale, sì da garantire la trasformazione della società interamente pubblica in società mista pubblico-privata. Tale soluzione è coerente, del resto, con l'impianto della norma, la quale prevede, nell'ottica della liberalizzazione delle gestioni, l'affidamento a società miste (il cui socio privato viene scelto comunque con procedura di gara) quale modalità ordinaria di affidamento, insieme con l'affidamento in gara a imprenditori o società. Questo non significa che le amministrazioni abbiano un obbligo di cessione del 40% del capitale ai privati: sono le amministrazioni a scegliere se cedere o meno. Piuttosto, da un punto di vista tecnico-giuridico, questo costituisce un onere, cui le amministrazioni devono adempiere solo se intendano evitare la automatica cessazione delle gestioni in house a far data dal 31 dicembre 2011. In alternativa, le amministrazioni potrebbero anche lasciare decorrere inutilmente il termine di legge, per poi procedere ad un nuovo affidamento in house (anche se alle più rigorose condizioni previste dallo stesso art. 23bis). Concordo sul fatto che la disciplina transitoria potesse essere formulata in termini più elastici, ma in ogni caso non è corretto affermare che vi sia obbligo di cessione di quote del capitale delle società pubbliche attualmente esistenti. Saranno le amministrazioni locali a vigilare perché il processo di liberalizzazione si attui senza sostanziali "svendite" a privati del capitale pubblico.
Con osservanza, Bartolo Salone.
certo che non ci si capisce niente,secondo me la gente è male informata e ragiona un tanto al kg e per luoghi comuni!!
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