martedì, giugno 07, 2011
Il nostro redattore Antonino Crivello intervista Marcella Reni, già direttrice del Rinnovamento dello Spirito Santo e presidente della Prision Fellowship Italia

Prision Fellowship Italia (PFI) nasce dall’omonima organizzazione statunitense che quarant’anni fa diede il via ad una nuova idea di giustizia sociale attraverso il recupero profondo dei detenuti, arrivando al loro cuore attraverso l’evangelizzazione. Facilmente si intuisce la difficoltà di questo progetto, così come altrettanto facilmente se ne può intuire la bellezza e la necessità per costruire domani un mondo migliore. L’organizzazione, nel perseguire il suo scopo, ha avviato diversi progetti in tutto il mondo. In Italia, Prision Fellowship è una neonata realtà e ha trovato un eccellente inizio nel Progetto Sicomoro, che prevede una rieducazione attraverso l’incontro tra detenuti e vittime. Ovviamente questo incontro viene preceduto da un’attenta e minuziosa fase di ricerca dei giusti ‘attori’. Per maggiori informazioni si rimanda al sito ufficiale dell’organizzazione. Noi abbiamo ascoltato Marcella Clara Reni, presidente di FPI:

D - Come è possibile avviare una progetto nel proprio comune?
R - “Il primo passo è sicuramente quello di presentare il progetto al direttore del carcere e agli educatori dello stesso. Dopo il consenso del direttore è possibile, con la sua collaborazione, selezionare i detenuti all’interno della struttura e all’esterno le vittime. La PFI sta cercando di coinvolgere i provveditori regionali allo scopo di farsi indirizzare da loro nei vari istituti penitenziari.”

D - Come avviene la selezione delle vittime e dei detenuti?
R - “Le vittime si selezionano in vari modi: attraverso le associazioni di vittime, le parrocchie, i sacerdoti o dai circuiti di PFI. Invece per la scelta dei detenuti il progetto viene esposto dentro al carcere e poi si chiede a chi ne rimane colpito di presentare una domanda scritta all’associazione, che provvederà alla selezione tra le domande pervenute.”

D - Nel dettaglio, come avviene l’abbinamento dei detenuti con le vittime? Si incontrano entrambe le parti connesse ad un preciso reato?
R - “Noi non chiediamo la stessa vittima del reato del detenuto, ma la vittima di un reato analogo, connesso. Ad esempio nel carcere di Opera abbiamo avuto sei ergastolani condannati per omicidio, e le vittime avevano subito un omicidio in famiglia (chi il papà, chi il figlio o il fratello). A Rieti, il cui progetto finisce il 10 di giugno, abbiamo reati di rapina e spaccio di droga e le vittime sono persone che hanno subito rapina o i cui figli sono stati rovinati dalla droga. Cerchiamo vittime connesse in modo da confrontare un dolore ‘più o meno dello stesso spessore’, diciamo così".

Ringraziamo Marcella Reni per la disponibilità e per averci aiutato ad approfondire un progetto così importante e destinato certamente a cambiare il modo di giudicare la giustizia e i detenuti.

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