Gli occhi scuri di Susan Abulhawa hanno visto la sofferenza dei campi profughi e il sorriso spento dei bambini di Jenin, quelli verdi striati di marrone di Suad Amiry invece hanno oltrepassato il muro e rischiato la vita solo per aver provato ad attraversare la terra che fu di suo padre. Entrambe però sognano di veder riconosciuto ai palestinesi il diritto a tornare in quella patria da cui sono stati cacciati.
PeaceReporter - Ospiti entrambe all'ultimo Salone del Libro di Torino, dove la Palestina è stata special guest insieme alla Russia, hanno parlato di profughi e di identità culturale, di lavoratori ed ingiustizie senza farsi troppe illusioni. "Ogni tanto succede qualcosa di nuovo, ma credo che finché non siano riconosciuti ai palestinesi i diritti basilari di ogni essere umano, la pace non ci sarà", ha commentato così Susan Abulhawa l'accordo per la riconciliazione sottoscritto da Hamas e Fatah. Da brava cittadina statunitense, Susan non si è dimenticata della terra da cui sono fuggiti i suoi genitori dopo la Guerra dei Sei Giorni. Ogni mattina a Jenin - il suo ultimo romanzo - è la storia di una famiglia araba che si snoda lungo i sessant'anni del conflitto israeliano-palestinese. Amori e lutti che rappresentano la triste condizione di migliaia di persone allontanate dalle loro case e costrette a vivere nei campi profughi. "Non è la storia della mia famiglia, ma è una storia che io comprendo benissimo e in cui mi identifico - racconta Susan -. E' la storia che ho sentito per tutta la mia vita".
Un racconto che ha come sfondo l'immensa tendopoli di Jenin e i suoi abitanti, sospesi tra il ricordo e la triste realtà, resa ancora più atroce dopo il massacro del 2002, quando Susan visitò personalmente il campo. Sono stati i volti delle donne occupate a cucinare e quelli degli uomini attenti a controllare da lontano i frutteti, a rimanere scritti nel cuore di Susan con inchiostro indelebile. A colpire più di tutti Abulhawa però sono stati i bambini e la loro infanzia negata. "Quando sono tornata per la prima volta in Palestina diciannove anni fa, mia figlia era molto piccola. Sono rimasta scioccata dalla mancanza di luoghi dove i bambini potessero giocare e così, insieme a degli amici, ho fondato Playground for Children". L'associazione oggi compie dieci anni e il suo unico scopo rimane quello di far divertire i più piccoli. "E' un piccolo aiuto, ma è un riconoscimento della loro umanità".
Peccato che nei campi profughi l'umanità sia una merce rara, che spunta solo grazie a singole iniziative. La normalità è caratterizzata dallo stato di incertezza che avvolge tutta la vita dei campi. "Il diritto a tornare e a vivere nella propria terra è un diritto umano universale" dice convinta Susan, consapevole che l'essere "profughi" e sognare una terra "occupata" è ormai uno stato d'essere connaturato a quello palestinese.
"L'occupazione è la sola soluzione per ora... sfortunatamente per noi". Le parole di Suad Amiry lasciano a bocca aperta, soprattutto se ad affermarle con tanto vigore è questa affascinante signora dalle forme inconfondibili che si è travestita da uomo per entrare in Israele. Lei, in quella che oggi viene chiamata Palestina ha deciso di rimanerci, dopo essere cresciuta ad Amman, Damasco, Beirut e Il Cairo ed essersi laureata in architettura a Edimburgo. Ora il suo scopo è proteggere l'eredità del passato, romana, greca o giudea che sia, valorizzando il patrimonio culturale e architettonico palestinese. Quello che lacera il paesaggio come un pezzo di filo spinato tra le colline è solo la barriera di cemento alta otto metri.
"Il muro divide fisicamente. Per me è stato scioccante rendermi conto di vivere a Ramallah e non sapere nulla dei lavoratori palestinesi - ci racconta -. L'unico modo di capire quanto fosse difficile la loro condizione era accompagnarli". E così ha fatto. Nascoste le curve e tagliati i capelli ondulati, Suad si è unita a quelli che vengono considerati gli illegal workers dello stato di Israele in un viaggio che da Ramallah è finito, inutilmente, a Tel Aviv. Dopo ore di camminate tra gli ulivi, lungo le strade che portano in Israele e il rischio di essere arrestati da un momento all'altro infatti la comitiva descritta in Murad Murad, l'ultimo libro della Amiry, rimane a mani vuote. Quando arrivano a destinazione Suad e i suoi giovani amici, il lavoro non c'è più. L'unica cosa che gli rimane da fare è prendere un autobus per tornare a casa.
Ma il paesaggio visto per la prima volta con gli occhi di chi rischia tutto per portare a casa uno stipendio è diverso dal solito: tutto quello che era stato "palestinese" non c'è più. Non c'è più memoria delle coltivazioni, delle case e della vita quotidiana delle persone che hanno vissuto lì per secoli. "E' stato un viaggio che ha cambiato la mia vita - confessa Suad -. Ho capito quanto sia ingiusto il muro. All'inizio pensavo solo che sarebbe diventata la storia di Murad (uno dei ragazzi), poi, quando mi sono ritrovata a Jaffa, nella terra di mio padre sono stata sommersa dall'emozione che a me dava un senso di estraneità, a Murad no". Ecco perché per la Amiry le persone come Murad sono l'unica speranza per il futuro della Palestina: "Lui non si considerava un rifugiato, per lui la Palestina esiste ed è lì. I giovani come lui appartengono ad entrambe le culture, parlano sia l'arabo che l'israeliano e ascoltano la stessa musica dei ragazzi ebrei. Sono loro il ponte che unirà finalmente la memoria con quella che sarà la Palestina".
La soluzione però non è così semplice, nemmeno quella ipotetica di due stati. "Non sono sicura che sia la cosa migliore. Gli israeliani non lo accetteranno mai perché non ci considerano come persone". Parole dure, che sono difficile da accettare, ma che per Suad sono la triste verità. Le rivolte nei paesi arabi però hanno smosso qualcosa, anche nell'animo dei palestinesi.
Non solo Hamas e Fatah hanno perso l'appoggio dei loro sostenitori storici, ossia l'Egitto e la Siria, ma anche i giovani hanno tratto ispirazione da quanto è successo ai loro connazionali in Tunisia. "Le rivolte sono state importanti perché finora abbiamo sempre pensato che ci fossero solo due opzioni: o con il regime corrotto di Fatah o con il fondamentalismo di Hamas - spiega Suad -. Chi ha protestato è stato picchiato da entrambe le fazioni. Ora grazie al movimento 15 Maggio c'è un'alternativa, una via di mezzo".
PeaceReporter - Ospiti entrambe all'ultimo Salone del Libro di Torino, dove la Palestina è stata special guest insieme alla Russia, hanno parlato di profughi e di identità culturale, di lavoratori ed ingiustizie senza farsi troppe illusioni. "Ogni tanto succede qualcosa di nuovo, ma credo che finché non siano riconosciuti ai palestinesi i diritti basilari di ogni essere umano, la pace non ci sarà", ha commentato così Susan Abulhawa l'accordo per la riconciliazione sottoscritto da Hamas e Fatah. Da brava cittadina statunitense, Susan non si è dimenticata della terra da cui sono fuggiti i suoi genitori dopo la Guerra dei Sei Giorni. Ogni mattina a Jenin - il suo ultimo romanzo - è la storia di una famiglia araba che si snoda lungo i sessant'anni del conflitto israeliano-palestinese. Amori e lutti che rappresentano la triste condizione di migliaia di persone allontanate dalle loro case e costrette a vivere nei campi profughi. "Non è la storia della mia famiglia, ma è una storia che io comprendo benissimo e in cui mi identifico - racconta Susan -. E' la storia che ho sentito per tutta la mia vita".
Un racconto che ha come sfondo l'immensa tendopoli di Jenin e i suoi abitanti, sospesi tra il ricordo e la triste realtà, resa ancora più atroce dopo il massacro del 2002, quando Susan visitò personalmente il campo. Sono stati i volti delle donne occupate a cucinare e quelli degli uomini attenti a controllare da lontano i frutteti, a rimanere scritti nel cuore di Susan con inchiostro indelebile. A colpire più di tutti Abulhawa però sono stati i bambini e la loro infanzia negata. "Quando sono tornata per la prima volta in Palestina diciannove anni fa, mia figlia era molto piccola. Sono rimasta scioccata dalla mancanza di luoghi dove i bambini potessero giocare e così, insieme a degli amici, ho fondato Playground for Children". L'associazione oggi compie dieci anni e il suo unico scopo rimane quello di far divertire i più piccoli. "E' un piccolo aiuto, ma è un riconoscimento della loro umanità".
Peccato che nei campi profughi l'umanità sia una merce rara, che spunta solo grazie a singole iniziative. La normalità è caratterizzata dallo stato di incertezza che avvolge tutta la vita dei campi. "Il diritto a tornare e a vivere nella propria terra è un diritto umano universale" dice convinta Susan, consapevole che l'essere "profughi" e sognare una terra "occupata" è ormai uno stato d'essere connaturato a quello palestinese.
"L'occupazione è la sola soluzione per ora... sfortunatamente per noi". Le parole di Suad Amiry lasciano a bocca aperta, soprattutto se ad affermarle con tanto vigore è questa affascinante signora dalle forme inconfondibili che si è travestita da uomo per entrare in Israele. Lei, in quella che oggi viene chiamata Palestina ha deciso di rimanerci, dopo essere cresciuta ad Amman, Damasco, Beirut e Il Cairo ed essersi laureata in architettura a Edimburgo. Ora il suo scopo è proteggere l'eredità del passato, romana, greca o giudea che sia, valorizzando il patrimonio culturale e architettonico palestinese. Quello che lacera il paesaggio come un pezzo di filo spinato tra le colline è solo la barriera di cemento alta otto metri.
"Il muro divide fisicamente. Per me è stato scioccante rendermi conto di vivere a Ramallah e non sapere nulla dei lavoratori palestinesi - ci racconta -. L'unico modo di capire quanto fosse difficile la loro condizione era accompagnarli". E così ha fatto. Nascoste le curve e tagliati i capelli ondulati, Suad si è unita a quelli che vengono considerati gli illegal workers dello stato di Israele in un viaggio che da Ramallah è finito, inutilmente, a Tel Aviv. Dopo ore di camminate tra gli ulivi, lungo le strade che portano in Israele e il rischio di essere arrestati da un momento all'altro infatti la comitiva descritta in Murad Murad, l'ultimo libro della Amiry, rimane a mani vuote. Quando arrivano a destinazione Suad e i suoi giovani amici, il lavoro non c'è più. L'unica cosa che gli rimane da fare è prendere un autobus per tornare a casa.
Ma il paesaggio visto per la prima volta con gli occhi di chi rischia tutto per portare a casa uno stipendio è diverso dal solito: tutto quello che era stato "palestinese" non c'è più. Non c'è più memoria delle coltivazioni, delle case e della vita quotidiana delle persone che hanno vissuto lì per secoli. "E' stato un viaggio che ha cambiato la mia vita - confessa Suad -. Ho capito quanto sia ingiusto il muro. All'inizio pensavo solo che sarebbe diventata la storia di Murad (uno dei ragazzi), poi, quando mi sono ritrovata a Jaffa, nella terra di mio padre sono stata sommersa dall'emozione che a me dava un senso di estraneità, a Murad no". Ecco perché per la Amiry le persone come Murad sono l'unica speranza per il futuro della Palestina: "Lui non si considerava un rifugiato, per lui la Palestina esiste ed è lì. I giovani come lui appartengono ad entrambe le culture, parlano sia l'arabo che l'israeliano e ascoltano la stessa musica dei ragazzi ebrei. Sono loro il ponte che unirà finalmente la memoria con quella che sarà la Palestina".
La soluzione però non è così semplice, nemmeno quella ipotetica di due stati. "Non sono sicura che sia la cosa migliore. Gli israeliani non lo accetteranno mai perché non ci considerano come persone". Parole dure, che sono difficile da accettare, ma che per Suad sono la triste verità. Le rivolte nei paesi arabi però hanno smosso qualcosa, anche nell'animo dei palestinesi.
Non solo Hamas e Fatah hanno perso l'appoggio dei loro sostenitori storici, ossia l'Egitto e la Siria, ma anche i giovani hanno tratto ispirazione da quanto è successo ai loro connazionali in Tunisia. "Le rivolte sono state importanti perché finora abbiamo sempre pensato che ci fossero solo due opzioni: o con il regime corrotto di Fatah o con il fondamentalismo di Hamas - spiega Suad -. Chi ha protestato è stato picchiato da entrambe le fazioni. Ora grazie al movimento 15 Maggio c'è un'alternativa, una via di mezzo".
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