lunedì, giugno 27, 2011
E’ di questi giorni la notizia della approvazione, nello Stato di New York, di una legge che ammette al matrimonio persone dello stesso sesso. New York diventa così il più grande Stato americano in cui viene legalizzato il matrimonio omosessuale, dopo Vermont, Connecticut, Iowa, Massachussets, New Hampshire e Washington D. C., mentre sono ben 27 gli Stati U.S.A. che tra il 2004 e il 2006 hanno approvato emendamenti costituzionali che proibiscono il matrimonio tra persone dello stesso sesso.

di Bartolo Salone

Esultano le associazioni e i movimenti gay non solo in America, ma anche in Italia, visto che la “bella” notizia è arrivata proprio il giorno (25 giugno) dello svolgimento in due delle maggiori città italiane, Napoli e Milano, di manifestazioni per l’orgoglio gay. Il tema delle due manifestazioni era proprio quello del riconoscimento giuridico delle coppie omosessuali: a Napoli, in particolare, l’attenzione era più esplicitamente riposta sul matrimonio omosessuale, con tanto di spot ufficiale dal titolo “Sposami” e la partecipazione del neo-eletto sindaco De Magistris, il quale ha eseguito, al termine della sfilata per le vie della città, un balletto con Vladimir Luxuria al ritmo di “YMCA”, la famosa canzone dei Village People (ci saremmo aspettati qualcosa di diverso da uno dei principali “moralizzatori” della politica italiana…).
Quello dell’attribuzione alle coppie omosessuali della dignità giuridica del matrimonio, ovvero (nei Paesi in cui, come il nostro, le nozze gay sono precluse dalla Costituzione) dei diritti che normalmente i singoli acquistano con la contrazione del matrimonio, è da tempo una delle principali rivendicazioni della militanza gay. La potente macchina di propaganda messa in atto dai vari movimenti GLBT sta portando i suoi frutti nefandi, se è vero che in quest’ultimo decennio in alcuni Paesi del mondo (principalmente americani ed europei) le legislazioni civili hanno aperto le porte del matrimonio alle coppie gay, in alcuni casi consentendo alle medesime il ricorso all’adozione e alla procreazione medicalmente assistita, noncuranti dei diritti dei più piccoli – questi sì inviolabili – ad essere allevati ed educati da un padre e da una madre.
Si assiste così ad una inquietante “mutazione genetica” del matrimonio, che vede perdere sempre più i suoi fondamentali caratteri di tipo biologico, morale, sociale e antropologico. E’ vero che, nel corso della storia e nei diversi contesti geoculturali, il matrimonio e la famiglia hanno assunto configurazioni diverse, andando incontro anche a mutamenti di rilievo. Ma è anche vero che nella quasi totalità delle culture umane non si è mai messo in discussione l’intimo legame esistente tra il matrimonio e la procreazione. Nelle stesse culture in cui l’omosessualità poteva esprimersi in forme socialmente accettate, come l’antica Grecia, la distinzione tra relazioni omosessuali e matrimonio era alquanto netta: si riconosceva infatti che il matrimonio era preposto alla generazione e alla cura dei figli, era cioè diretto alla creazione di una famiglia, a differenza delle relazioni omosessuali che, pur accettate, si inserivano in una diversa cornice di significato.
La diversità dei sessi era, e fino ai nostri giorni è sempre stata, considerata come elemento strutturale e necessario del matrimonio. Le riforme legislative avviate sulla scia dell’ideologia gay in alcuni Stati occidentali a partire dal 2001 fanno invece della differenza sessuale dei coniugi un elemento non più strutturale, bensì meramente accidentale, del matrimonio. Il matrimonio eterosessuale diventa così “solo uno” dei tanti possibili matrimoni, e non più “il” matrimonio, come è stato fino ad oggi pacificamente inteso in ogni parte del globo.
In quest’ottica così eccentrica si perde però di vista la reale funzione dell’istituto matrimoniale e la stessa ragione del privilegio che tradizionalmente l’ordinamento giuridico riconosce alle coppie coniugate. Proprio in ragione dell’impegno solenne che, col matrimonio, un uomo e una donna assumono, dinanzi allo Stato, di mettere su una nuova famiglia (concorrendo a costruire una nuova cellula di quell’organismo complesso e vitale che è la società), si spiega il riconoscimento di particolari tutele, garanzie e diritti. Le medesime ragioni di tutela non si riscontrano, ad essere obiettivi, nell’ambito delle unioni omosessuali, nelle quali manca ogni funzione procreativa, anche solo in potenza (come riconosciuto fra l’altro dalla nostra Corte costituzionale nella sentenza n. 138/2010, per una cui approfondita analisi si rinvia ad un mio precedente contributo pubblicato in questa stessa rivista). La disparità di trattamento giuridico si giustifica dunque in considerazione della diversità di struttura e di funzione che contraddistingue le coppie coniugate rispetto alle coppie gay e pertanto non costituisce affatto una discriminazione, come con insistenza propagandistica ripetono i movimenti gay.
Al contrario, per le ricordate ragioni, le unioni omosessuali – argomenta la Corte costituzionale nella importante pronuncia appena citata – “non possono essere ritenute omogenee al matrimonio”. Se dunque queste realtà sono “per natura” (ossia per caratteri e finalità) diverse dal matrimonio, allora l’intera questione del riconoscimento alle coppie omosessuali del diritto di contrarre matrimonio perde di significato, difettando del necessario presupposto logico-giuridico. Infatti, parlare di diritto al matrimonio ha senso solo se gli interessati aspirano ad un reale matrimonio. E’un po’ quel che accade per gli altri diritti “collettivi”, come il diritto di associazione sindacale o il diritto di adesione ai partiti politici, i quali presuppongono che la “collettività” a cui si pretende di aderire abbia i requisiti essenziali per poter qualificare quest’ultima alla stregua di un sindacato o di un partito politico. L’argomento utilizzato dagli attivisti gay sulla necessità di introdurre il matrimonio omosessuale per rimediare ad una intollerabile discriminazione a danno di una consistente parte della società civile (il c.d. “mondo” o “popolo” gay), per quanto suggestivo agli occhi di una parte dell’opinione pubblica, si rivela in verità estremamente retorico e poco logico: si vuole dare per assodato ciò che in realtà assodato non è, ossia la intrinseca natura matrimoniale, sul piano etico-sociale prima ancora che giuridico, delle unioni tra persone dello stesso sesso.
Che poi anche il nostro Giudice delle leggi, ai dubbi di costituzionalità sollevati in merito alle preclusioni che il Codice civile italiano oppone alla celebrazione del matrimonio fra persone dello stesso sesso, abbia con fermezza ribadito che la nostra Costituzione non consente di equiparare al matrimonio le unioni omosessuali, dovrebbe indurre ad una maggiore attenzione gli stessi rappresentanti delle istituzioni, soprattutto locali, prima di assicurare il loro patrocinio (come ha fatto da ultimo il sindaco di Milano Giuliano Pisapia) o addirittura la loro presenza (è il caso di De Magistris, come ricordato all’inizio) alle manifestazioni di orgoglio gay organizzate nelle loro città. La libertà di espressione e di riunione in un Paese democratico va sempre rispettata, per cui nulla in contrario alle manifestazioni per l’orgoglio omosessuale, purché si svolgano nei limiti del decoro e della decenza (e questo, in realtà, non sempre avviene). Dal canto loro, tuttavia, i rappresentanti delle istituzioni non sono tenuti a partecipare o a patrocinare tutte le manifestazioni organizzate dalla società civile, specie quando si tratta di manifestazioni che propugnano idee e sostengono ideologie in contrasto con lo spirito e con i valori fondanti della nostra Costituzione.
I nostri politici, però, pur avendo prestato più volte giuramento di fedeltà alla Costituzione italiana, troppo spesso si dimenticano dell’esistenza dell’art. 29 Cost., il quale – è bene ricordarlo – rimette alla Repubblica il compito di riconoscere “i diritti della famiglia come società naturale fondata sul matrimonio” tra uomo e donna.

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