martedì, giugno 07, 2011
Resta tesa la situazione nello Yemen, dove l’opposizione armata al regime del presidente Ali Abdallah Saleh ha annunciato di avere preso il controllo della città meridionale di Taiz.

Radio Vaticana - Intanto, Stati Uniti e Paesi dell’Unione europea hanno auspicato l’avvio di un processo di transizione democratica, guidata dal Consiglio di cooperazione del Golfo. Il servizio di Stefano Leszczynski:

E’ sempre più caotica la situazione politica dello Yemen dove da oltre 4 mesi è in corso una rivolta popolare contro il regime del presidente Saleh. Una crisi nata sulla scia della primavera araba, ma sulla quale si sono innestate tutte le istanze separatiste ed eversive del Paese. La città di Taiz, caduta oggi nelle mani dei ribelli armati, da non confondere con gli studenti che manifestano pacificamente a Sanaa, si trova a 270 chilometri a sud-ovest della capitale ed è stata nei giorni scorsi teatro di scontri tra la Guardia repubblicana, corpo d'elite fedele al regime, e i miliziani che millantano di proteggere i manifestanti. Intanto, si sono improvvisamente aggravate le condizioni di salute del presidente Saleh, ricoverato in gravi condizioni in Arabia Saudita e la possibilità di un suo rientro in patria si fa sempre più remota. I poteri del capo dello Stato sono stati assunti dal vice presidente Abed Rabbo Mansur Hedi e l’iniziativa di una nuova mediazione con le opposizioni potrebbe presto essere assunta dal Consiglio di cooperazione del Golfo. Ad Adib Fateh Ali, giornalista esperto di questioni arabe, abbiamo chiesto chi potrebbero essere gli interlocutori rappresentativi dell’opposizione yemenita.
R. - Il Paese è davvero diviso in una miriade di schieramenti assolutamente non omogenei né d’accordo tra loro. Da una parte ci sono i secessionisti del sud, che storicamente si battono per ottenere l’indipendenza; dall’altra ci sono le potenti tribù sciite del nord, a ridosso del confine con l’Arabia Saudita. Poi c’è la grande forza dei giovani della rivolta. In un quadro di questo tipo si muove molto bene al Qaeda.

D. – Sembrerebbe quasi esserci un interesse da parte dell’Arabia Saudita e degli Stati Uniti a tenere Saleh comunque fuori del Paese e a questo punto come si potrebbe gestire la crisi?

R. – Secondo il piano dei Paesi del Golfo, che sono guidati dall’Arabia Saudita, cioè quello di una transizione pacifica del potere gestita però dall’esercito, esercito che è sempre stato legato all’Arabia Saudita e agli stessi Stati Uniti d’America che li hanno riforniti di armi per combattere il pericolo di Al Qaeda e del terrorismo fondamentalista che c’è in quel Paese.

D. – Una soluzione del genere piacerebbe ai giovani che hanno dato inizio alla rivolta?

R. – Stanno già alzando la voce in maniera forte. Molti loro esponenti stanno dicendo che si tratta di una congiura di palazzo per uccidere per l’ennesima volta una rivolta autentica dei giovani. Inoltre, un grave errore dell’opposizione intesa in senso lato, quindi sia quella secessionista sia le varie forze politiche che si trovano nel Paese è che nega l’esistenza di al Qaeda, dicendo che è uno spauracchio del presidente Saleh per indurre l’Occidente a dargli una mano e a sostenerlo. In realtà al Qaeda c’è ed il fatto di non riconoscere l’esistenza di questo pericolo nel Paese certamente non favorisce in prospettiva una partecipazione attiva al potere da parte di questa opposizione.

D. - Insomma il fatto che Saleh non sia più nel Paese o che non ritorni più nello Yemen non risolve comunque tutti i nodi che sono all’origine di questa crisi …

R. – Assolutamente no. L’uscita di Saleh, che secondo me sarà definitiva a costo di costringerlo a rimanere in Arabia Saudita, non risolve la crisi del Paese. (bf)


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