giovedì, luglio 07, 2011
”Da poco sono arrivata a Uppsala, 60 km a nord di Stoccolma, non per turismo ma per una collaborazione con la scuola superiore dei Gesuiti. Sto ancora cercando di ambientarmi e mi trovo confrontata con mentalità e lingue nuove, con un clima e delle abitudini diverse”.

di Felicina Proserpio dal CSERPE‏ di Basilea

Così inizia una testimonianza-commento sulla Pentecoste di Sibylle Hardegger, teologa svizzera, membro dello staff dell’Ordinariato della diocesi di Basilea fino al 2010 e successivamente in Colombia per un anno sabbatico: un testo apparso in tedesco nello Schweizerische Kirchenzeitung del 7 giugno scorso sotto il titolo “Uno Spirito – molte lingue”. L’interessante riflessione della Hardegger – della quale riportiamo tradotti alcuni passaggi – si sviluppa a partire dalla sua esperienza quotidiana nella parrocchia di St. Lars a Uppsala, dove avvengono celebrazioni in svedese, inglese, spagnolo, croato, polacco e arabo!

“Prendendo un caffé insieme nella sala parrocchiale – racconta la teologa – capita spesso di sentire due o tre lingue contemporaneamente: ciascuno si esprime nella lingua che sa meglio e sorprendentemente si riesce perlopiù a comprendersi. Una volta poi un giovane congolese ha provato a presentarmi alcune persone della comunità parrocchiale in svedese. E allora è stata una mamma filippina ad aiutarci a superare le barriere linguistiche, parlando in inglese.
Anche se non capiamo tutto ciò che cerchiamo di dirci, sappiamo che ci apparteniamo reciprocamente quali battezzati e cresimati e, ammettendo reciprocamente la nostra diversità culturale (anche nella liturgia), la ricca offerta di celebrazioni nelle diverse lingue diventa un arricchimento per poter vivere la nostra fede”, un’esperienza di pentecoste, “il cui miracolo consiste nella scoperta di una lingua comune e della reciproca comprensione: non ci potrebbe essere un miracolo più grande al mondo! Le nazionalità diventano secondarie o vengono superate, le culture si intrecciano diventando una comunità nascente. […] In fin dei conti si tratta di volersi capire. Chi non vuol capire non capirà mai. I discepoli a Pentecoste non erano forse orientati al voler capire? Con il Paràclito promesso da Gesù essi erano preparati: capire è una questione di atteggiamento. […] La molteplicità dei linguaggi ci arricchisce e ci apre nuovi orizzonti. Il Cristo Risorto conduce questa molteplicità all’unità senza che pluralità e diversità vengano con ciò eliminate.

Nell’immagine di San Paolo del corpo di Cristo questa ricchezza viene ulteriormente sottolineata: è nel senso più vero della parola un ‘incoraggiamento’ a comunicarci, a diventare comunicativi, con i doni di grazia che ci sono regalati. Quasi non si può immaginare cosa succederebbe se nella nostra chiesa osassimo – nella forza dello Spirito Santo - vivere e far vivere questa molteplicità di linguaggi e la diversità dei credenti. Già sapevo che si prega tutta una vita nella propria madre lingua, ma da quando mi sono trovata a vivere in mezzo a culture e gruppi linguistici così diversi, ho scoperto anche quanto può essere arricchente andare consapevolmente verso persone di lingue diverse e cristiani di altri paesi: il mio sguardo sulla lieta novella di Dio è caratterizzato dalla mia situazione e dal mio retroterra, e la prospettiva di una persona con un’altra lingua e un altro retroterra culturale può ampliare anche il mio orizzonte”.

Concludendo la Hardegger sottolinea come “proprio una chiesa che continua a chiamarsi universale dovrebbe presentare questa universalità in ogni sua cellula”. Un’esperienza all’estero e una riflessione – quelle della Hardegger – che lasciano trasparire anche qualcosa delle potenzialità nascoste nelle migrazioni: lì dove lingua e ambiente stranieri rendono almeno temporaneamente senza patria e senza punti di appoggio, si aprono spazi nuovi di comprensione della realtà. E capita di muovere passi nuovi verso l’altro.

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