Da Toessé, piccolo villaggio del Burkina Faso, Claudia Zichi fa un’attenta analisi degli investimenti occidentali e dell’intervento delle associazioni di volontariato in favore dell'Africa
Madina ha cinque anni, non sa quando ne compirà sei perché il giorno della sua nascita non è stato registrato all'anagrafe; potrebbe essere destabilizzante per noi, in un paese dove il tempo passa come una ruota inarrestabile, ma non è lo stesso a Toessé, un piccolo villaggio a pochi km dalla capitale Ouagadougou in Burkina Faso. Qui il tempo scorre lentamente, è messo da parte per chi lo sa cogliere. Prevale l'allegria, l'entusiasmo, la voglia di conoscere, tutti aspetti che forse non vengono immediatamente in mente quando si pensa all'Africa. Eppure è un'aria che si può respirare, a patto di non costringere noi e loro a guardare il mondo con gli stessi occhi, a guardare cioè nella stessa direzione.
Come ha scritto Seyyed Hossein Nasr in “Ideali e realtà dell’Islam”: «La carità materiale, oggi tanto in auge, riduce l’uomo a una bestia: gli dà cibo e vestiti, ma lo priva di una protezione vera. Gli insegna a camminare, ma gli toglie la vista, la sola che potrebbe indicargli dove andare». Intendo dire che i bambini e i ragazzi burkinabé nella loro quotidianità sono pervasi di dignità, ma quando arrivano i bianchi, ricchi e di conseguenza felici, allora si annullano, si sentono inferiori e in diritto di chiedere, di pregare che venga dato loro qualcosa, qualsiasi cosa, purché provenga da mano bianca.
Eppure spesso le condizioni cui devono sottostare per ricevere tali aiuti sono deleterie. Faccio un esempio: l'Unicef stabilisce che i destinatari delle razioni alimentari siano i bambini al di sotto dei cinque anni; sembrerebbe ragionevole, invece è esattamente il contrario: le madri si rifiutano di contribuire all'alimentazione dei figli privilegiati e intimano loro di farsi aiutare dai bianchi in ogni occasione, creando in questo modo un rapporto di logica conflittualità. Meglio sarebbe rispettare l'autorità della madre, offrendole una formazione che le permetta di curare l'alimentazione del bambino.
L'ignoranza costa un sacco di soldi, mi disse una volta un antropologo che ho avuto la fortuna di conoscere. Ma forse il nemico peggiore è l'amore. Si parte sempre con l'idea di fare del bene, ma non è così semplice: l'idea del Bene è un'idea vastissima, raggiungibile da diverse vie, ma non tutte sempre praticabili. Penso al fatto che un gran numero di associazioni di volontariato arriva in Africa, si fa conoscere e riparte, serbando nel cuore le migliori intenzioni… ma alla fine dei conti, mi sono sempre chiesta, a uomini e donne africane cosa rimane? Il brandello di una vita che non potranno mai vivere, la progressiva perdita di fiducia nei loro mezzi (più lenti ma sicuramente più genuini), lo stimolo verso un Bene che non appartiene al loro mondo e che vogliamo a tutti i costi offrire loro.
Ciò nonostante, come sempre accade, bisogna considerare l'altra faccia della medaglia: è indubbio che stiano soffrendo, che ci siano problemi di malnutrizione e condizioni igieniche devastanti, e che quindi il nostro aiuto sia necessario e fondamentale. Tuttavia, per far fronte a questi problemi i nostri metodi devono essere rivalutati: non basta sbarcare in Africa muniti solo di buoni propositi e volontà, è necessario sviluppare una capacità specifica e una conoscenza tecnica del luogo e dei suoi abitanti; bisogna iniziare a considerare la loro storia prima dei loro bisogni, restare incantati dalla loro istruzione invece che incantarli con la nostra, e conoscerli, piuttosto che farci conoscere. Servirebbe il coraggio di partire non accompagnati, non dare né chiedere nulla e quando giunge il momento, perché quel momento arriva sempre, mangiare con loro, con le mani, il riso, le arachidi e l'avena. Bisognerebbe sperimentare insieme a loro un nuovo tipo di cibo, magari aggiungendo il miele selvatico, e distribuirlo nelle case dei più indigenti; è un loro prodotto, un loro frutto, e nessuno mai è arrivato da terre sconosciute con un tesoro tra le mani, nessuno deve essere venerato per quel cibo…
Un discorso simile riguarda anche le sovvenzioni elargite per le piantagioni di legumi poco produttive in alcune zone del Burkina, ad esempio quelle dei fagiolini. A Ouagadougou sono stati investiti migliaia di euro per la coltivazione, la conservazione e l'esportazione di tonnellate di fagiolini. Non si è tuttavia tenuto conto delle pessime condizioni in cui versano le strade, e le temperature troppo elevate per i camion refrigeratori. Morale della storia: camion danneggiati, spesso scassati dopo pochi mesi, e fagiolini marciti perché estranei all'alimentazione locale e quindi non vendibili. Sarebbe stato più conveniente concentrarsi sulle diverse modalità di preparazione delle cipolle, considerata la stratosferica produzione e il conseguente consumo. Aiuti più mirati e consapevoli consentirebbero senza dubbio risultati più proficui sia da un punto di vista quantitativo che qualitativo.
Madina ha cinque anni, non sa quando ne compirà sei perché il giorno della sua nascita non è stato registrato all'anagrafe; potrebbe essere destabilizzante per noi, in un paese dove il tempo passa come una ruota inarrestabile, ma non è lo stesso a Toessé, un piccolo villaggio a pochi km dalla capitale Ouagadougou in Burkina Faso. Qui il tempo scorre lentamente, è messo da parte per chi lo sa cogliere. Prevale l'allegria, l'entusiasmo, la voglia di conoscere, tutti aspetti che forse non vengono immediatamente in mente quando si pensa all'Africa. Eppure è un'aria che si può respirare, a patto di non costringere noi e loro a guardare il mondo con gli stessi occhi, a guardare cioè nella stessa direzione.
Come ha scritto Seyyed Hossein Nasr in “Ideali e realtà dell’Islam”: «La carità materiale, oggi tanto in auge, riduce l’uomo a una bestia: gli dà cibo e vestiti, ma lo priva di una protezione vera. Gli insegna a camminare, ma gli toglie la vista, la sola che potrebbe indicargli dove andare». Intendo dire che i bambini e i ragazzi burkinabé nella loro quotidianità sono pervasi di dignità, ma quando arrivano i bianchi, ricchi e di conseguenza felici, allora si annullano, si sentono inferiori e in diritto di chiedere, di pregare che venga dato loro qualcosa, qualsiasi cosa, purché provenga da mano bianca.
Eppure spesso le condizioni cui devono sottostare per ricevere tali aiuti sono deleterie. Faccio un esempio: l'Unicef stabilisce che i destinatari delle razioni alimentari siano i bambini al di sotto dei cinque anni; sembrerebbe ragionevole, invece è esattamente il contrario: le madri si rifiutano di contribuire all'alimentazione dei figli privilegiati e intimano loro di farsi aiutare dai bianchi in ogni occasione, creando in questo modo un rapporto di logica conflittualità. Meglio sarebbe rispettare l'autorità della madre, offrendole una formazione che le permetta di curare l'alimentazione del bambino.
L'ignoranza costa un sacco di soldi, mi disse una volta un antropologo che ho avuto la fortuna di conoscere. Ma forse il nemico peggiore è l'amore. Si parte sempre con l'idea di fare del bene, ma non è così semplice: l'idea del Bene è un'idea vastissima, raggiungibile da diverse vie, ma non tutte sempre praticabili. Penso al fatto che un gran numero di associazioni di volontariato arriva in Africa, si fa conoscere e riparte, serbando nel cuore le migliori intenzioni… ma alla fine dei conti, mi sono sempre chiesta, a uomini e donne africane cosa rimane? Il brandello di una vita che non potranno mai vivere, la progressiva perdita di fiducia nei loro mezzi (più lenti ma sicuramente più genuini), lo stimolo verso un Bene che non appartiene al loro mondo e che vogliamo a tutti i costi offrire loro.
Ciò nonostante, come sempre accade, bisogna considerare l'altra faccia della medaglia: è indubbio che stiano soffrendo, che ci siano problemi di malnutrizione e condizioni igieniche devastanti, e che quindi il nostro aiuto sia necessario e fondamentale. Tuttavia, per far fronte a questi problemi i nostri metodi devono essere rivalutati: non basta sbarcare in Africa muniti solo di buoni propositi e volontà, è necessario sviluppare una capacità specifica e una conoscenza tecnica del luogo e dei suoi abitanti; bisogna iniziare a considerare la loro storia prima dei loro bisogni, restare incantati dalla loro istruzione invece che incantarli con la nostra, e conoscerli, piuttosto che farci conoscere. Servirebbe il coraggio di partire non accompagnati, non dare né chiedere nulla e quando giunge il momento, perché quel momento arriva sempre, mangiare con loro, con le mani, il riso, le arachidi e l'avena. Bisognerebbe sperimentare insieme a loro un nuovo tipo di cibo, magari aggiungendo il miele selvatico, e distribuirlo nelle case dei più indigenti; è un loro prodotto, un loro frutto, e nessuno mai è arrivato da terre sconosciute con un tesoro tra le mani, nessuno deve essere venerato per quel cibo…
Un discorso simile riguarda anche le sovvenzioni elargite per le piantagioni di legumi poco produttive in alcune zone del Burkina, ad esempio quelle dei fagiolini. A Ouagadougou sono stati investiti migliaia di euro per la coltivazione, la conservazione e l'esportazione di tonnellate di fagiolini. Non si è tuttavia tenuto conto delle pessime condizioni in cui versano le strade, e le temperature troppo elevate per i camion refrigeratori. Morale della storia: camion danneggiati, spesso scassati dopo pochi mesi, e fagiolini marciti perché estranei all'alimentazione locale e quindi non vendibili. Sarebbe stato più conveniente concentrarsi sulle diverse modalità di preparazione delle cipolle, considerata la stratosferica produzione e il conseguente consumo. Aiuti più mirati e consapevoli consentirebbero senza dubbio risultati più proficui sia da un punto di vista quantitativo che qualitativo.
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