Il cardinale Angelo Bagnasco, presidente della Conferenza episcopale italiana, ha parlato ieri della presenza dei cattolici nella vita pubblica e al loro irrinunciabile contributo al bene comune, soprattutto in questo periodo di crisi.
Radio Vaticana - Ma cosa può emergere da questo difficile momento? Luca Collodi lo ha chiesto a Edoardo Patriarca, segretario del Comitato organizzatore delle Settimane Sociali dei Cattolici Italiani: ascolta
R. - Ormai nelle agende che il laicato cattolico ha compilato in questi mesi, a partire da quella della Settimana Sociale dell’ottobre scorso a Reggio Calabria, ma penso anche a tutti gli altri forum e reti che si sono mobilitati in questi mesi, le urgenze sono state ben definite. Si tratta ora di capire se da questa crisi difficile che stiamo vivendo, come già accaduto anche nel primo dopoguerra, il nostro Paese sappia cogliere il coraggio e il desiderio di cambiare e di ritrovarsi più unito di quello che oggi appaia. Credo che la crisi possa servirci se ha quel colpo d’ala di cui tanto si parla, ma che la politica pratica poco. I temi sono vari. Pensando ancora all’agenda della Settimana Sociale di Reggio Calabria, avevamo individuato alcune priorità che sono ancora lì, all’ordine del giorno della politica. Sto pensando al lavoro ai giovani, sto pensando al grande tema del rientro del debito pubblico, al grande tema di come ripensare oggi il welfare che va salvato, che va difeso, perché il welfare difende la coesione sociale, perché difende soprattutto i poveri, le famiglie in difficoltà. Ma come salvarlo? Trovando il coraggio di ripensarlo nuovamente sotto il segno della solidarietà e della sussidiarietà. Abbiamo parlato spesso di un Paese - leggevo con interesse l’intervista del ministro Sacconi di ieri - molto bloccato, molto corporativo, che tende a difendere i propri privilegi. Forse è giunto il tempo per coloro che hanno avuto tanto dall’Italia di contraccambiare in solidarietà e impegno nel sostenere questo difficile momento.
D. - Guardando al bene comune e alla situazione sociale italiana, non c’è il rischio che le tanto attese liberalizzazioni e privatizzazioni possano creare, di fatto, un maggiore disagio sociale?
R. - Io credo che la questione vada posta e vada posta con grande saggezza e con tanto equilibrio. La dottrina sociale della Chiesa ci dice che i beni, soprattutto quelli comuni, vanno difesi: come l’acqua, come l’aria, come il welfare. Ci dice anche, però, che non è detto che debbano essere solo soggetti pubblici a gestire questi beni. Si va quindi verso un processo di liberalizzazioni, che è sempre positivo e importante. Io credo che - ripensando proprio a quella avvenuta nel ‘92, che non fu in realtà proprio una liberalizzazione, ma fu una privatizzazione, perché si passò da un monopolio pubblico ad un monopolio privato - possa essere un’occasione per liberare davvero tante risorse. Penso al welfare: oggi è impensabile una sua riforma, se non si parte - ancora una volta - dal Terzo Settore, se non si sostiene l’impresa sociale. Ben vengano forme di imprenditoria nuova, sia privata che privato-sociale. E ben vengano anche imprese pubbliche a condizione che siano efficienti e sappiamo gestire con grande serietà e attenzione i propri bilanci. Credo che non vada demonizzato il pubblico. Credo che anche nel pubblico ci siano grandi esperienze di efficienza e di buona gestione: questo va salvaguardato. Nella Caritas in Veritate, Papa Benedetto ci ricorda che un fattore di democrazia, di innalzamento della democrazia nel nostro Paese, sia quello di pluralizzare le imprese che sono presenti nel Paese: quindi l’impresa pubblica, l’impresa sociale, l’impresa cooperativa e l’impresa anche capitalistica. Se riusciamo a creare, in questo processo di liberalizzazione, la moltiplicazione dei soggetti imprenditoriali che sono partiti dal nostro Paese, credo davvero che si possa aprire una stagione anche di sviluppo, anche di lavoro. Teniamo presente che il welfare produce anche buon lavoro: oggi gli anziani, i bambini, attendono grandi servizi. Potrebbe quindi essere l’occasione anche per i nostri giovani di una nuova occupazione dignitosa e professionalmente soddisfacente: che il welfare non si trasformi in lavoro nero, nel sommerso, nel welfare sottopagato. Spero che non sia così.
D. - Nel tentativo di recuperare risorse per il rilancio dell’Italia, perché le Istituzioni non riescono a stroncare fenomeni come l’evasione fiscale e la corruzione?
R. - Forse anche noi cattolici - e lo dico sommessamente - abbiamo qualche responsabilità: a forza di dire che le tasse sono tante, a forza di dire - perché giustamente per chi le paga è cosi - che questo Stato è uno Stato oppressore, forse abbiamo in qualche modo protetto o giustificato coloro che le tasse non le pagano. Io credo che vada ribadito, oggi più che mai, che le tasse si devono pagare, che le tasse sono un dovere di solidarietà tra l’altro caro ai cattolici, ma caro anche alla nostra Repubblica e la Carta Costituzione ne parla chiaramente. Certo dopo, pagando le tasse, si può anche chiedere - giustamente - che le stesse vengano ridotte. La battaglia contro l’evasione fiscale è una battaglia di legalità, una battaglia morale che va condotta con grandissimo impegno. A volte si è giustificato questo, pensando che questo portasse consenso, soprattutto in quel mondo grigio che talvolta non paga, che talvolta evade e che porta anche voti. Questa è stata un’illusione, che credo dobbiamo combattere, perché così il Paese non va avanti. Devo anche dire - e questo i giovani alla Settimana Sociale lo hanno ribadito più volte - che sull’illegalità e sulla corruzione non ci sono giustificazioni di sorta e che vanno combattute senza se e senza ma, soprattutto nel Sud dove questa illegalità impedisce lo sviluppo. Tenga presente che la corruzione e l’illegalità sono fra gli elementi che impediscono al Sud, alle persone oneste del Sud di poter volare e di pensare ad un futuro migliore.
D. - Nel riequilibrare i conti pubblici dell’Italia, il laicato cattolico si aspetta anche qualche passo concreto dei politici nel rivedere i loro privilegi?
R. - Penso proprio di sì. E’ una questione di credibilità e di testimonianza. Se chiedo sacrifici, io per primo li faccio: in famiglia si fa così! Ci si sacrifica tutti. E quindi la politica, se vuole che il Paese reagisca positivamente e riscopra un’energia nuova di impegno comunitario, essa per prima deve decidere di tagliare i costi, deve farlo con grande decisione. Guardi che non è solo la questione degli stipendi dei parlamentari. C’è tutto un sottobosco di commissioni, di enti, di false municipalizzate, di agenzie: migliaia e migliaia di questi organismi che si calcola occupino circa 2 milioni di persone e che drenano - così dicono alcuni economisti - quasi 16-17 miliardi all’anno di risorse non produttive. Io credo che questo la politica debba farlo con grande coraggio: allora sarà anche credibile, sarà anche capace di chiedere al Paese sacrifici, perché essa stessa per prima lo farà. Poi riguardo al discorso delle tasse e dei patrimoni, credo che su questo - e dobbiamo dircelo con serenità e senza usare quest’arma in maniera ideologica - dobbiamo dire che chi ha tanto e che ha avuto tanto, anche per merito di questo Paese, è giunto il tempo che dia altrettanto: soprattutto coloro che vivono sulla rendita. Credo davvero - e lo abbiamo detto anche alla Settimana Sociale - che il modo migliore per riformare questo Paese è premiare coloro che lavorano, coloro che intraprendono. Invece, coloro che vivono pur legittimamente di risorse e patrimoni che hanno ereditato o che hanno guadagnato in modo legale - ci mancherebbe altro! - ma che di fatto non sono produttivi, abbiano almeno il buon gusto di farsi tassare, come ci facciamo tassare noi, e non al 12 per cento, ma al 20-22 per cento. Credo che sia una questione di equità. Non mi sembra nulla di scandaloso, nulla di ideologico. (mg)
Radio Vaticana - Ma cosa può emergere da questo difficile momento? Luca Collodi lo ha chiesto a Edoardo Patriarca, segretario del Comitato organizzatore delle Settimane Sociali dei Cattolici Italiani: ascolta
R. - Ormai nelle agende che il laicato cattolico ha compilato in questi mesi, a partire da quella della Settimana Sociale dell’ottobre scorso a Reggio Calabria, ma penso anche a tutti gli altri forum e reti che si sono mobilitati in questi mesi, le urgenze sono state ben definite. Si tratta ora di capire se da questa crisi difficile che stiamo vivendo, come già accaduto anche nel primo dopoguerra, il nostro Paese sappia cogliere il coraggio e il desiderio di cambiare e di ritrovarsi più unito di quello che oggi appaia. Credo che la crisi possa servirci se ha quel colpo d’ala di cui tanto si parla, ma che la politica pratica poco. I temi sono vari. Pensando ancora all’agenda della Settimana Sociale di Reggio Calabria, avevamo individuato alcune priorità che sono ancora lì, all’ordine del giorno della politica. Sto pensando al lavoro ai giovani, sto pensando al grande tema del rientro del debito pubblico, al grande tema di come ripensare oggi il welfare che va salvato, che va difeso, perché il welfare difende la coesione sociale, perché difende soprattutto i poveri, le famiglie in difficoltà. Ma come salvarlo? Trovando il coraggio di ripensarlo nuovamente sotto il segno della solidarietà e della sussidiarietà. Abbiamo parlato spesso di un Paese - leggevo con interesse l’intervista del ministro Sacconi di ieri - molto bloccato, molto corporativo, che tende a difendere i propri privilegi. Forse è giunto il tempo per coloro che hanno avuto tanto dall’Italia di contraccambiare in solidarietà e impegno nel sostenere questo difficile momento.
D. - Guardando al bene comune e alla situazione sociale italiana, non c’è il rischio che le tanto attese liberalizzazioni e privatizzazioni possano creare, di fatto, un maggiore disagio sociale?
R. - Io credo che la questione vada posta e vada posta con grande saggezza e con tanto equilibrio. La dottrina sociale della Chiesa ci dice che i beni, soprattutto quelli comuni, vanno difesi: come l’acqua, come l’aria, come il welfare. Ci dice anche, però, che non è detto che debbano essere solo soggetti pubblici a gestire questi beni. Si va quindi verso un processo di liberalizzazioni, che è sempre positivo e importante. Io credo che - ripensando proprio a quella avvenuta nel ‘92, che non fu in realtà proprio una liberalizzazione, ma fu una privatizzazione, perché si passò da un monopolio pubblico ad un monopolio privato - possa essere un’occasione per liberare davvero tante risorse. Penso al welfare: oggi è impensabile una sua riforma, se non si parte - ancora una volta - dal Terzo Settore, se non si sostiene l’impresa sociale. Ben vengano forme di imprenditoria nuova, sia privata che privato-sociale. E ben vengano anche imprese pubbliche a condizione che siano efficienti e sappiamo gestire con grande serietà e attenzione i propri bilanci. Credo che non vada demonizzato il pubblico. Credo che anche nel pubblico ci siano grandi esperienze di efficienza e di buona gestione: questo va salvaguardato. Nella Caritas in Veritate, Papa Benedetto ci ricorda che un fattore di democrazia, di innalzamento della democrazia nel nostro Paese, sia quello di pluralizzare le imprese che sono presenti nel Paese: quindi l’impresa pubblica, l’impresa sociale, l’impresa cooperativa e l’impresa anche capitalistica. Se riusciamo a creare, in questo processo di liberalizzazione, la moltiplicazione dei soggetti imprenditoriali che sono partiti dal nostro Paese, credo davvero che si possa aprire una stagione anche di sviluppo, anche di lavoro. Teniamo presente che il welfare produce anche buon lavoro: oggi gli anziani, i bambini, attendono grandi servizi. Potrebbe quindi essere l’occasione anche per i nostri giovani di una nuova occupazione dignitosa e professionalmente soddisfacente: che il welfare non si trasformi in lavoro nero, nel sommerso, nel welfare sottopagato. Spero che non sia così.
D. - Nel tentativo di recuperare risorse per il rilancio dell’Italia, perché le Istituzioni non riescono a stroncare fenomeni come l’evasione fiscale e la corruzione?
R. - Forse anche noi cattolici - e lo dico sommessamente - abbiamo qualche responsabilità: a forza di dire che le tasse sono tante, a forza di dire - perché giustamente per chi le paga è cosi - che questo Stato è uno Stato oppressore, forse abbiamo in qualche modo protetto o giustificato coloro che le tasse non le pagano. Io credo che vada ribadito, oggi più che mai, che le tasse si devono pagare, che le tasse sono un dovere di solidarietà tra l’altro caro ai cattolici, ma caro anche alla nostra Repubblica e la Carta Costituzione ne parla chiaramente. Certo dopo, pagando le tasse, si può anche chiedere - giustamente - che le stesse vengano ridotte. La battaglia contro l’evasione fiscale è una battaglia di legalità, una battaglia morale che va condotta con grandissimo impegno. A volte si è giustificato questo, pensando che questo portasse consenso, soprattutto in quel mondo grigio che talvolta non paga, che talvolta evade e che porta anche voti. Questa è stata un’illusione, che credo dobbiamo combattere, perché così il Paese non va avanti. Devo anche dire - e questo i giovani alla Settimana Sociale lo hanno ribadito più volte - che sull’illegalità e sulla corruzione non ci sono giustificazioni di sorta e che vanno combattute senza se e senza ma, soprattutto nel Sud dove questa illegalità impedisce lo sviluppo. Tenga presente che la corruzione e l’illegalità sono fra gli elementi che impediscono al Sud, alle persone oneste del Sud di poter volare e di pensare ad un futuro migliore.
D. - Nel riequilibrare i conti pubblici dell’Italia, il laicato cattolico si aspetta anche qualche passo concreto dei politici nel rivedere i loro privilegi?
R. - Penso proprio di sì. E’ una questione di credibilità e di testimonianza. Se chiedo sacrifici, io per primo li faccio: in famiglia si fa così! Ci si sacrifica tutti. E quindi la politica, se vuole che il Paese reagisca positivamente e riscopra un’energia nuova di impegno comunitario, essa per prima deve decidere di tagliare i costi, deve farlo con grande decisione. Guardi che non è solo la questione degli stipendi dei parlamentari. C’è tutto un sottobosco di commissioni, di enti, di false municipalizzate, di agenzie: migliaia e migliaia di questi organismi che si calcola occupino circa 2 milioni di persone e che drenano - così dicono alcuni economisti - quasi 16-17 miliardi all’anno di risorse non produttive. Io credo che questo la politica debba farlo con grande coraggio: allora sarà anche credibile, sarà anche capace di chiedere al Paese sacrifici, perché essa stessa per prima lo farà. Poi riguardo al discorso delle tasse e dei patrimoni, credo che su questo - e dobbiamo dircelo con serenità e senza usare quest’arma in maniera ideologica - dobbiamo dire che chi ha tanto e che ha avuto tanto, anche per merito di questo Paese, è giunto il tempo che dia altrettanto: soprattutto coloro che vivono sulla rendita. Credo davvero - e lo abbiamo detto anche alla Settimana Sociale - che il modo migliore per riformare questo Paese è premiare coloro che lavorano, coloro che intraprendono. Invece, coloro che vivono pur legittimamente di risorse e patrimoni che hanno ereditato o che hanno guadagnato in modo legale - ci mancherebbe altro! - ma che di fatto non sono produttivi, abbiano almeno il buon gusto di farsi tassare, come ci facciamo tassare noi, e non al 12 per cento, ma al 20-22 per cento. Credo che sia una questione di equità. Non mi sembra nulla di scandaloso, nulla di ideologico. (mg)
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