Il decreto sulla manovra finanziaria di quest’anno apre inquietanti prospettive sul futuro dei diritti dei lavoratori e sul ruolo dei sindacati, riproponendo la questione della registrazione (prevista dalla nostra Costituzione, ma finora mai attuata) dei sindacati
di Bartolo Salone
Tra le misure a sostegno dell’occupazione, il tanto discusso art. 8 del decreto-legge n. 138/2011 (“manovra economica bis”), ormai definitivamente approvato, ha introdotto un singolare meccanismo di regolazione delle materie inerenti l’organizzazione del lavoro e della produzione, fondato sulla stipulazione di contratti collettivi di livello aziendale o territoriale (c. d. “contratti collettivi di prossimità”) in grado di derogare alla stessa disciplina legale e alla contrattazione collettiva nazionale. Precisamente, l’articolo in esame stabilisce che, attraverso la c. d. “contrattazione collettiva di prossimità”, le associazioni sindacali più rappresentative a livello nazionale o territoriale ovvero le loro rappresentanze operanti in azienda possano realizzare delle “intese”, con efficacia obbligatoria nei confronti di tutti i lavoratori interessati, finalizzate “alla maggiore occupazione, alla qualità dei contratti di lavoro, all’adozione di forme di partecipazione dei lavoratori, all’emersione del lavoro irregolare, agli incrementi di competitività e di salario, alla gestione delle crisi aziendali e occupazionali, agli investimenti e all’avvio di nuove attività”. Le materie su cui le suddette intese possono intervenire, addirittura in deroga alla legge, sono estremamente ampie, potendo riguardare l’intero settore dell’organizzazione del lavoro e della produzione, con specifico riferimento all’installazione di impianti audiovisivi in azienda, alle mansioni nonché alla classificazione e inquadramento del personale, ai contratti a termine e flessibili, alla disciplina dell’orario di lavoro, alle modalità di assunzione e di disciplina del rapporto di lavoro, alla trasformazione e conversione dei contratti di lavoro e alle conseguenze del recesso dal rapporto di lavoro.
Parecchie sono le preoccupazioni suscitate dalla nuova disciplina, soprattutto per quel che riguarda la possibilità riconosciuta ai contratti collettivi aziendali o territoriali di derogare alla disciplina legale del licenziamento. Al fine della gestione di una crisi aziendale od occupazionale, i contratti collettivi di prossimità potrebbero ad esempio prevedere, in deroga all’art. 18 dello Statuto dei lavoratori, che il lavoratore ingiustamente licenziato abbia diritto ad ottenere solo il risarcimento del danno, ma non anche la reintegrazione nel posto di lavoro (come invece prevede l’art. 18).
Se è vero, poi, che l’articolo 8 del decreto ammette sia deroghe “in melius” che deroghe “in peius” rispetto alla disciplina legale, è anche vero che, in tempi di grave crisi economica e occupazionale come quello che stiamo attraversando, i datori di lavoro sono poco propensi a fare concessioni e di conseguenza i sindacati hanno più difficoltà a concludere intese migliorative della condizione dei lavoratori. Più avanza la crisi, maggiore è invero il rischio di contrattazioni sindacali al ribasso. E questo è un aspetto da cui non si può prescindere nel valutare la nuova normativa.
D’altra parte, un sistema basato sulla prevalenza della contrattazione collettiva rispetto alla legge risulta a dir poco anomalo dal punto di vista giuridico, perché inverte il normale ordine gerarchico delle fonti del diritto: la legge, di regola, dovrebbe prevalere sulla disciplina contrattuale e non soggiacere ad essa.
Pure la derogabilità dei contratti collettivi di livello nazionale da parte dei contratti collettivi (territoriali o aziendali) di livello inferiore è per certi aspetti anomala, snaturando la stessa funzione della contrattazione collettiva nazionale, che è quella di garantire degli standard uniformi per tutti i lavoratori, al di là del contesto aziendale specifico in cui questi operano. Il sistema prefigurato dall’art. 8 consente infatti a ciascuna azienda di darsi in teoria (beninteso con l’accordo dei sindacati) una propria “legge” regolatrice dei rapporti di lavoro con i propri dipendenti, distinta da quella applicata in altre aziende o località, potendo portare a notevoli divaricazioni di disciplina da luogo a luogo, sì da minare alle basi il principio di eguaglianza.
L’art. 8 del decreto sulla manovra finanziaria si pone altresì in contrasto con l’art. 39 della Costituzione, poiché attribuisce alle intese sindacali concluse attraverso i contratti collettivi di prossimità un’efficacia che gli attuali contratti collettivi non possono avere: vale a dire la capacità di produrre effetti giuridici vincolanti nei confronti di tutti i lavoratori appartenenti alle categorie cui il contratto collettivo si riferisce. Al riguardo, vale la pena ricordare che l’art. 39 Cost. subordina l’efficacia c. d. “erga omnes” (cioè verso tutti i lavoratori della categoria, compresi quelli non iscritti ai sindacati che prendono parte alla stipula) dei contratti collettivi di lavoro al fatto che i sindacati stessi siano registrati presso uffici centrali o locali determinati dalla legge. Condizione per la registrazione – continua l’art. 39 Cost. – è che i sindacati si diano degli statuti che sanciscano un ordinamento interno a base democratica. Gli uffici presso cui le associazioni sindacali chiedessero di essere registrate dovrebbero di conseguenza verificare la democraticità degli ordinamenti sindacali, essendo questo il requisito fondamentale per ottenere la registrazione. Si comprende bene allora la ragione per cui i sindacati si siano sempre opposti ad una legge che renda possibile la registrazione: forti sono i timori di ingerenze e di controlli dei pubblici poteri sulla loro organizzazione interna.
Attualmente, in assenza di una legge che, in attuazione dell’art. 39 Cost., fissi modalità e termini della registrazione, i sindacati si trovano però nell’impossibilità di stipulare contratti collettivi con efficacia generale. Piuttosto, i contratti collettivi conclusi dai sindacati ad oggi vanno considerati come dei contratti di diritto comune, i quali non possono che esplicare la loro efficacia limitatamente alle associazioni sindacali contraenti e ai loro iscritti. Secondo il codice civile, infatti, il contratto ha forza di legge tra le parti, non potendo obbligare i terzi rimasti estranei alla loro stipulazione.
L’art. 8 del decreto sulla manovra finanziaria qui commentato, quindi, nel prevedere che le intese sindacali realizzate con i contratti territoriali o aziendali abbiano “efficacia obbligatoria nei confronti di tutti i lavoratori interessati”, contraddice manifestamente la Costituzione. Vero è che in passato il legislatore, considerata la crescente importanza che la contrattazione collettiva ha assunto nel corso degli anni, ha cercato, con vari stratagemmi giuridici, di conseguire l’effetto del riconoscimento ai contratti collettivi di un’efficacia “erga omnes” per vie diverse da quella indicata dall’art. 39 Cost. Oggi, poi, non c’è datore di lavoro che non applichi ai propri dipendenti le condizioni previste dalla contrattazione collettiva, per cui, di fatto, i contratti collettivi vengono ad assumere un’efficacia generale, estesa a tutti i lavoratori delle categorie produttive volta per volta considerate. Tanto vale allora che il Parlamento adotti una legge sulla registrazione dei sindacati, in modo da dare compiuta attuazione all’art. 39 Cost. Una legge siffatta avrebbe, invero, l’effetto di indurre i sindacati a migliorare la democraticità della propria organizzazione interna, aumentando così la propria rappresentatività. Infatti, quanto più è democratica, tanto più un’organizzazione sindacale può dirsi rappresentativa e pertanto può legittimamente concorrere, attraverso lo strumento della contrattazione collettiva, a porre discipline valevoli per la generalità dei lavoratori, anche al di là dei propri iscritti.
di Bartolo Salone
Tra le misure a sostegno dell’occupazione, il tanto discusso art. 8 del decreto-legge n. 138/2011 (“manovra economica bis”), ormai definitivamente approvato, ha introdotto un singolare meccanismo di regolazione delle materie inerenti l’organizzazione del lavoro e della produzione, fondato sulla stipulazione di contratti collettivi di livello aziendale o territoriale (c. d. “contratti collettivi di prossimità”) in grado di derogare alla stessa disciplina legale e alla contrattazione collettiva nazionale. Precisamente, l’articolo in esame stabilisce che, attraverso la c. d. “contrattazione collettiva di prossimità”, le associazioni sindacali più rappresentative a livello nazionale o territoriale ovvero le loro rappresentanze operanti in azienda possano realizzare delle “intese”, con efficacia obbligatoria nei confronti di tutti i lavoratori interessati, finalizzate “alla maggiore occupazione, alla qualità dei contratti di lavoro, all’adozione di forme di partecipazione dei lavoratori, all’emersione del lavoro irregolare, agli incrementi di competitività e di salario, alla gestione delle crisi aziendali e occupazionali, agli investimenti e all’avvio di nuove attività”. Le materie su cui le suddette intese possono intervenire, addirittura in deroga alla legge, sono estremamente ampie, potendo riguardare l’intero settore dell’organizzazione del lavoro e della produzione, con specifico riferimento all’installazione di impianti audiovisivi in azienda, alle mansioni nonché alla classificazione e inquadramento del personale, ai contratti a termine e flessibili, alla disciplina dell’orario di lavoro, alle modalità di assunzione e di disciplina del rapporto di lavoro, alla trasformazione e conversione dei contratti di lavoro e alle conseguenze del recesso dal rapporto di lavoro.
Parecchie sono le preoccupazioni suscitate dalla nuova disciplina, soprattutto per quel che riguarda la possibilità riconosciuta ai contratti collettivi aziendali o territoriali di derogare alla disciplina legale del licenziamento. Al fine della gestione di una crisi aziendale od occupazionale, i contratti collettivi di prossimità potrebbero ad esempio prevedere, in deroga all’art. 18 dello Statuto dei lavoratori, che il lavoratore ingiustamente licenziato abbia diritto ad ottenere solo il risarcimento del danno, ma non anche la reintegrazione nel posto di lavoro (come invece prevede l’art. 18).
Se è vero, poi, che l’articolo 8 del decreto ammette sia deroghe “in melius” che deroghe “in peius” rispetto alla disciplina legale, è anche vero che, in tempi di grave crisi economica e occupazionale come quello che stiamo attraversando, i datori di lavoro sono poco propensi a fare concessioni e di conseguenza i sindacati hanno più difficoltà a concludere intese migliorative della condizione dei lavoratori. Più avanza la crisi, maggiore è invero il rischio di contrattazioni sindacali al ribasso. E questo è un aspetto da cui non si può prescindere nel valutare la nuova normativa.
D’altra parte, un sistema basato sulla prevalenza della contrattazione collettiva rispetto alla legge risulta a dir poco anomalo dal punto di vista giuridico, perché inverte il normale ordine gerarchico delle fonti del diritto: la legge, di regola, dovrebbe prevalere sulla disciplina contrattuale e non soggiacere ad essa.
Pure la derogabilità dei contratti collettivi di livello nazionale da parte dei contratti collettivi (territoriali o aziendali) di livello inferiore è per certi aspetti anomala, snaturando la stessa funzione della contrattazione collettiva nazionale, che è quella di garantire degli standard uniformi per tutti i lavoratori, al di là del contesto aziendale specifico in cui questi operano. Il sistema prefigurato dall’art. 8 consente infatti a ciascuna azienda di darsi in teoria (beninteso con l’accordo dei sindacati) una propria “legge” regolatrice dei rapporti di lavoro con i propri dipendenti, distinta da quella applicata in altre aziende o località, potendo portare a notevoli divaricazioni di disciplina da luogo a luogo, sì da minare alle basi il principio di eguaglianza.
L’art. 8 del decreto sulla manovra finanziaria si pone altresì in contrasto con l’art. 39 della Costituzione, poiché attribuisce alle intese sindacali concluse attraverso i contratti collettivi di prossimità un’efficacia che gli attuali contratti collettivi non possono avere: vale a dire la capacità di produrre effetti giuridici vincolanti nei confronti di tutti i lavoratori appartenenti alle categorie cui il contratto collettivo si riferisce. Al riguardo, vale la pena ricordare che l’art. 39 Cost. subordina l’efficacia c. d. “erga omnes” (cioè verso tutti i lavoratori della categoria, compresi quelli non iscritti ai sindacati che prendono parte alla stipula) dei contratti collettivi di lavoro al fatto che i sindacati stessi siano registrati presso uffici centrali o locali determinati dalla legge. Condizione per la registrazione – continua l’art. 39 Cost. – è che i sindacati si diano degli statuti che sanciscano un ordinamento interno a base democratica. Gli uffici presso cui le associazioni sindacali chiedessero di essere registrate dovrebbero di conseguenza verificare la democraticità degli ordinamenti sindacali, essendo questo il requisito fondamentale per ottenere la registrazione. Si comprende bene allora la ragione per cui i sindacati si siano sempre opposti ad una legge che renda possibile la registrazione: forti sono i timori di ingerenze e di controlli dei pubblici poteri sulla loro organizzazione interna.
Attualmente, in assenza di una legge che, in attuazione dell’art. 39 Cost., fissi modalità e termini della registrazione, i sindacati si trovano però nell’impossibilità di stipulare contratti collettivi con efficacia generale. Piuttosto, i contratti collettivi conclusi dai sindacati ad oggi vanno considerati come dei contratti di diritto comune, i quali non possono che esplicare la loro efficacia limitatamente alle associazioni sindacali contraenti e ai loro iscritti. Secondo il codice civile, infatti, il contratto ha forza di legge tra le parti, non potendo obbligare i terzi rimasti estranei alla loro stipulazione.
L’art. 8 del decreto sulla manovra finanziaria qui commentato, quindi, nel prevedere che le intese sindacali realizzate con i contratti territoriali o aziendali abbiano “efficacia obbligatoria nei confronti di tutti i lavoratori interessati”, contraddice manifestamente la Costituzione. Vero è che in passato il legislatore, considerata la crescente importanza che la contrattazione collettiva ha assunto nel corso degli anni, ha cercato, con vari stratagemmi giuridici, di conseguire l’effetto del riconoscimento ai contratti collettivi di un’efficacia “erga omnes” per vie diverse da quella indicata dall’art. 39 Cost. Oggi, poi, non c’è datore di lavoro che non applichi ai propri dipendenti le condizioni previste dalla contrattazione collettiva, per cui, di fatto, i contratti collettivi vengono ad assumere un’efficacia generale, estesa a tutti i lavoratori delle categorie produttive volta per volta considerate. Tanto vale allora che il Parlamento adotti una legge sulla registrazione dei sindacati, in modo da dare compiuta attuazione all’art. 39 Cost. Una legge siffatta avrebbe, invero, l’effetto di indurre i sindacati a migliorare la democraticità della propria organizzazione interna, aumentando così la propria rappresentatività. Infatti, quanto più è democratica, tanto più un’organizzazione sindacale può dirsi rappresentativa e pertanto può legittimamente concorrere, attraverso lo strumento della contrattazione collettiva, a porre discipline valevoli per la generalità dei lavoratori, anche al di là dei propri iscritti.
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