venerdì, settembre 23, 2011
L'ottimo editoriale di Zygmunt Bauman pubblicato su "La Repubblica" del 21 settembre scorso porta un titolo assolutamente da condividere, "I fondamentalisti dell'economia" ed è tratto dalla nuova prefazione alla nuova edizione di "Modernità liquidità" che Bauman, in Italia, ha pubblicato con Laterza.

Greenreport - Il testo è fortemente incentrato sui contenuti del bellissimo volume di Tim Jackson "Prosperità senza crescita" uscito in italiano quest'anno per Edizioni Ambiente e del quale ho curato l'edizione italiana. Come ripetutamente ho scritto nelle pagine di questa rubrica è ormai diventata una necessità ineludibile liberare culturalmente la nostra società dal "fondamentalismo" e dai "fondamentalisti" dell'economia della crescita e della finanziarizzazione dell'economia senza regole. La cultura dominante di questa impostazione economica, laddove riesce a dare segnali di incrocio con le tematiche della sostenibilità continua, imperterrita, a fornire una dimensione centrale ed assoluta alle componenti economiche. Ancora oggi, infatti, nel dibattito sulla sostenibilità viene mantenuta una notevole ambiguità su di un punto che, invece, è ormai diventa sempre più chiaro, soprattutto alla luce delle notevolissime conoscenze che abbiamo sin qui acquisito sulle scienze del sistema Terra e su quanto l'intervento umano stia profondamente modificando le dinamiche dei sistemi naturali.
In quello che viene genericamente definito "triangolo della sostenibilità", infatti, ancora oggi i tre costituenti fondamentali, la dimensione economica, quella dello sviluppo sociale e quella della compatibilità ambientale sono considerati di pari importanza. Ma questa equiparazione non riconosce la natura assoluta né dei limiti ecologici (ed anche, è il caso di ricordarlo, dei diritti umani e dell'equità sociale).

Oggi sappiamo bene che una concreta politica della sostenibilità deve rispettare prioritariamente i limiti della capacità di carico degli ecosistemi che ci sostengono. Dobbiamo imparare a vivere nei limiti di un solo pianeta. Solo a partire da questa considerazione di base possiamo formulare i principi guida per l'economia e la sicurezza sociale, quasi come dei "guard-rail" che inevitabilmente devono impedire alla nostra civiltà di andare "oltre confine".
La quantità dei flussi di materiali e d'energia che attraversa le nostre società può essere definita come la "scala fisica" dell'economia. Così come la dimensione monetaria di un'economia è descritta dal prodotto lordo, così, come abbiamo già visto in diversi altri articoli di questa rubrica, anche la sua dimensione materiale può essere descritta dalle analisi del metabolismo sociale, da indicatori aggregati come il Total Material Requirement (Tmr) o il Direct Material Consumption (Dmc). Con ciò si possono confrontare i risultati economici con il relativo consumo di natura.

Come ricorda lucidamente il rapporto del Wuppertal Institut "Futuro sostenibile" (Edizioni Ambiente) coordinato da Wolfgang Sachs, del quale ho già parlato in questa rubrica negli ultimi articoli, il principio per un approccio di eco compatibilità è chiaro: i processi metabolici industriali non devono turbare quelli naturali. Entrambi devono integrarsi o addirittura rafforzarsi a vicenda.
Ma, come ben sappiamo, anche le produzioni "ecocompatibili" hanno una base materiale: consumano materia. Inevitabilmente emettono sostanze inquinanti e provocano problemi di scala. Per questo l'efficienza e l'ecocompatibilità devono essere integrate entrambe da una politica della sufficienza. Questa è la parte più difficile della strategia della sostenibilità e, finora, purtroppo la meno politicamente praticabile. Si arriva così a una domanda inevitabile ma centrale per il futuro di noi tutti: quanto è abbastanza? La sostenibilità non si raggiunge solo ottimizzando i mezzi, ma anche adeguando i fini. Il passaggio ad un'economia sostenibile è pensabile solo con entrambe le strategie, da una parte l'ecoefficienza, cioè una reinvenzione dei mezzi tecnici e dall'altra l'ecosufficienza, cioè una saggia moderazione delle pretese (è fondamentale cioè individuare "una giusta misura"). Senza questo doppio approccio la dinamica dell'espansione inevitabilmente finira per annichilire i progressi di efficienza e di ecocompatibilità. Chi punta quindi a un'infrastruttura tecnica di flussi di risorse enormemente ridotti deve prefiggersi contestualmente una corrispettiva evoluzione delle istituzioni e della cultura. Se sotto l'aspetto fisico conta che il sistema economico s'inserisca in quello naturale, ciò non può restare senza conseguenze per il tessuto sociale. Come va trovato un nuovo equilibrio tra sistema economico e mondo naturale, altrettanto vale per il sistema economico e l'ambito sociale.

Il rapporto del Wuppertal è ben chiaro e giustamente su questo punto: la dematerializzazione da sola non assicura la compatibilità con la natura; e la biocompatibilità non evita gli effetti della crescita. Per questo un benessere rispettoso delle risorse nasce dalla triade di dematerializzazione (efficienza), compatibilità ambientale (biocoerenza) e autolimitazione (sufficienza).

Come dicevamo in uno degli ultimi articoli di questa rubrica, dal livello locale a quello globale della politica si è visto negli ultimi decenni un vertiginoso aumento della richiesta e della necessità di indicare dei valori limite, dei quantitativi massimi, di obiettivi di riduzione, di valori soglia.
Tuttora non esiste un tipo unitario di istituzioni per regolare i rapporti dell'uomo con la natura. Neanche nelle istituzioni politiche la natura ha difensori propri; i beni pubblici non hanno né sede né voce negli organi di formazione della volontà politica e di decisione. Non si può certo negare l'esistenza ed il progredire di un diritto ambientale nazionale e internazionale, ma le sue norme risultano di solito dalla lotta tra le parti interessate. A dominare continuano ad essere gli interessi a breve termine della generazione attuale.

Per questo va pensato un tipo di istituzioni con una certa indipendenza, paragonabile per esempio alla relativa indipendenza della magistratura o della Banca Centrale nei confronti della politica quotidiana. Peter Barnes (vedasi i suoi libri uno pubblicato nel 2001, "Who owns the Sky ? Our common assets and the future of capitalism", Island Press e l'altro del 2006, "Capitalism 3.0 A guide to reclaiming the commons", Berrett-Koehler Publishers, edito in italiano nel 2007 con il titolo "Capitalismo 3.0. Il pianeta patrimonio di tutti" pubblicato dalle Edizioni EGEA e vedasi anche i siti http://www.onthecommons.org e http://capitalism3.com) ha proposto di istituire i common trusts, istituzioni fiduciarie per i beni comuni. I common trusts avrebbero il compito di stabilire fiduciariamente per le generazioni presenti e future i limiti nell'uso dei beni pubblici naturali, di rilasciare licenze d'uso, dietro pagamento e di far beneficiare delle entrate i cittadini come proprietari collettivi.

Il lavoro di Barnes che certamente non è l'unico in questo ambito, ha il merito di proporre significative soluzioni, fattibili per l'immediato futuro, capaci anche di innovare profondamente importanti visioni giuridiche oggi dominanti.
Così la proprietà comune conquisterebbe finalmente una posizione giuridica rispetto alla proprietà privata. Anche far uso dei beni pubblici dovrebbe quindi avere il suo prezzo, come è il caso di quando vogliamo usare i beni in proprietà privata. Si può pensare a livello regionale, nazionale e globale a istituzioni fiduciarie per la gestione del patrimonio ittico e forestale, del suolo, delle acque sotterranee e dei metalli e dei minerali, e anche per le emissioni atmosferiche con ripercussioni sul clima ed altre emissioni inquinanti. Anche il rapporto del Wuppertal Institut analizza come utili tali proposte. Infatti istituzioni come un trust per il mare, un trust per il suolo ed uno per il clima potrebbero introdurre dei guard-rail per incanalare l'accumulo del capitale nella società di mercato. Il modello di uno Sky-Trust, un trust per il cima, sviluppata agli inizi per gli USA, dichiara tutti i cittadini comproprietari dell'atmosfera, e più precisamente: di quella parte di essa a cui hanno diritto, secondo il numero degli abitanti. Anche qui si fissa innanzitutto il limite superiore di emissioni di CO2 . Il diritto d'uso viene messo all'asta in unità quantitative, quindi le quote costano tanto più quanto si vogliono limitare i diritti di inquinamento. A causa dei costi di emissione aumentano i prezzi di prodotti e servizi. Nel contempo si generano degli utili notevoli. Dopo aver detratto la quota necessaria per il mantenimento del bene pubblico, si distribuiscono equamente gli utili a tutti i comproprietari del bene pubblico. Chi consuma molto, o viaggia molto in automobile o in aereo paga dunque più di quanto riceve. Chi consuma moderatamente e risparmia energia, recupera ciò che aveva dovuto spendere in più, o realizza persino un guadagno. Lo Sky-Trust ha dunque una chiara componente sociale. Le persone a basso reddito si avvantaggiano, perché consumano poca energia. Invece si caricano di notevoli oneri il lusso ed il consumo non avveduto. Sia ai produttori che ai consumatori si dà così un forte impulso a risparmiare energia, e quindi denaro, migliorando la tecnologia oppure moderando il consumo. Per l'Unione Europea, come ricorda il rapporto del Wuppertal Institut si può sviluppare un modello simile, convertendo il commercio delle emissioni europeo in uno Sky-Trust continentale.
Oggi è fondamentale trovare soluzioni innovative ai grandi problemi che ci attanagliano. Le proposte di Barnes sono sicuramente tra queste.

Gianfranco Bologna

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