MaIa (Make an Impact association) è un'associazione di volontariato nata a Trento pochi anni fa. É composta da giovani ragazzi che hanno un obiettivo comune: collaborare con i palestinesi perché non si sentano abbandonati dalla comunità internazionale. Una meta ambiziosa, considerando il clima di ostilità che inevitabilmente permane in un paese dove un tempo di pace non è mai stato veramente vissuto.
di Claudia Zichi
Quella dell'associazione MaIa è una sfida importante e la possibilità di cambiamento che si sta prospettando in questi giorni suscita gioia e speranza. Sentiamo cosa pensa il vice-presidente dell'associazione Giovanni Fassina riguardo agli avvenimenti che hanno catturato da qualche settimana l'attenzione dei media di tutto il mondo.
Pensate che i negoziati di pace proposti dagli Stati Uniti siano la strada giusta per arrivare alla pace?
Sinceramente credo che negli ultimi dieci anni le parole “negoziati di pace” abbiano perso il loro vero significato all'interno del conflitto israelo-palestinese. Nonostante i buoni propositi degli ultimi due presidenti degli Stati Uniti nulla è cambiato.
George Bush nel 2007, aprendo la conferenza di Annapolis per rilanciare le trattative, aveva affermato che entro la fine dell'anno sarebbe stato firmato un trattato di pace tra Israele e l’A.N.P, anche a prezzo di scelte difficili da entrambe le parti in lotta. Ieri pomeriggio Barack Obama durante il suo discorso al palazzo di vetro ha detto: ”Non ci sono scorciatoie per la pace. Un anno fa io stesso da questo podio reclamai l'indipendenza della Palestina. Ma la pace è un lavoro faticoso. Se fosse cosi facile raggiungerla con una dichiarazione, l'avremmo fatto da un pezzo”. Viene il dubbio che ormai il negoziato serva a mantenere un impasse politico, un invito a non toccare niente, in modo tale da evitare di rompere un equilibrio ben congeniato che ormai lavora a pieno ritmo da 10 anni e che conviene soprattutto a una parte in causa.
Ma ora qualcosa sembra cambiare. Dalla fine della seconda intifada l'A.N.P ha capito che la lotta armata non poteva funzionare e ha cercato in tutti i modi di crearsi una nuova immagine a livello internazionale. Hanno deposto le armi, incominciato a perseguitare i partiti fondamentalisti islamici e si sono seduti al tavolo per negoziare innumerevoli volte ed in situazioni difficilissime (ad esempio durante i bombardamenti a Gaza). Nonostante ciò, fino ad oggi nulla è cambiato della situazione in West Bank, un territorio che al suo interno è diviso da colonie israeliane, innumerevoli check point che impediscono di muoversi liberamente, un muro lungo 860 km che divide nettamente Israele e la Cisgiordania, l'esercito israeliano che in qualsiasi momento può entrare e sequestrare terroristi sospetti e infine una classe politica palestinese che dipende moltissimo dai finanziamenti di USA e UE.
A questo punto è difficile credere i negoziati siano la strada giusta e credo che lo stallo dei negoziati derivi da vari fattori. Prima di tutto Israele e A.N.P non siedono al tavolo dei negoziati con lo stesso politico. Israele è la parte forte e finora ha portato avanti i negoziati affinché nulla cambiasse. Dall'altro lato l'Autorità Palestinese può solo offrire un cessate il fuoco permanente e dimostrare che è in grado di mantenere sotto controllo il suo territorio impedendo azioni terroristiche. Si tratta come sempre di una questione politica: Israele dovrebbe dismettere le colonie, riconoscere i confini del 1967 e trovare una soluzione per i quattro milioni di profughi che avrebbero diritto a tornare. In questo modo il governo di Netanyahu perderebbe però 350.000 voti, il numero di coloni illegali oggi presenti in Cisgiordania. Ciò significa tradire il proprio elettorato e probabilmente non essere più rieletti. É chiaro che i negoziati si scontrano in realtà con le esigenze e le aspettative di un’intera classe politica israeliana. Inoltre se la Palestina fosse riconosciuta come stato potrebbe portare di fronte al tribunale penale internazionale Israele per i crimini commessi a Gaza e per la questione delle colonie. Israele, consapevole di questa possibilità, teme di essere messa in ridicolo di fronte a tutta la comunità internazionale. La richiesta di riconoscimento da parte di Abu Mazen è una mossa politica ben congegnata: Arafat e l'OLP hanno provato invano ad ottenere uno stato palestinese sia attraverso manifestazioni pacifiche sia attraverso lanci di sassi e attentati kamikaze (prima e seconda intifada), e Abu Mazen ora vuole provare l'ultima carta del diritto internazionale per risollevare una situazione che per i palestinesi è diventata insostenibile. Ovviamente anche la posizione dei palestinesi è fortemente influenzata da scelte elettorali: senza una prospettiva di cambiamento tangibile probabilmente il governo attuale alle prossime elezioni verrebbe mandato via.
Come si sta preparando Jenin alla giornata di domani?
Verosimilmente ci saranno molte manifestazioni pacifiche in tutta la Palestina. L'ANP starà molto attenta affinché queste manifestazioni non degenerino in violenza: non può lasciarsi sfuggire la situazione dalle mani perché perderebbe immediatamente il ruolo di prestigio che mantiene ora a livello internazionale.
Come potrebbe reagire l’ANP a un’eventuale risposta negativa da parte dell'Assemblea delle Nazioni Unite?
Se ci fosse una risposta negativa l'ANP sarebbe costretta a incominciare nuovi negoziati. Tuttavia in questo caso credo che la situazione sarebbe molto diversa e le stesse trattative si aprirebbero in un clima diverso: Israele sarebbe in ogni caso messo sotto pressione non solo da USA, Turchia e da tutti i paesi arabi in cui è scoppiata la rivoluzione, ma anche dai movimenti degli indignados israeliani che sono scoppiati ultimamente. Anche l'opinione pubblica israeliana si sta risvegliando e, stanca di dieci anni di politica intransigente, potrebbe essere l'ago della bilancia e spingere per un cambio di governo.
Come sono state apprese dalle organizzazioni locali di volontariato le morti di Juliano Mer Khamis e di Vittorio Arrigoni rispettivamente il 4 e il 14 aprile 2011? Queste morti hanno portato cambiamenti significativi nel vostro modus operandi?
Sicuramente. É stato importante perché ci ha chiarito quali sono i rischi che a volte si corrono in queste situazioni; allo stesso tempo abbiamo aperto una riflessione sul perché tali fatti sono potuti accadere. Non ci sono dubbi che Juliano e Vittorio abbiano svolto un buon lavoro di cooperazione, tuttavia in questi territori sono state fatte delle opere inutili che hanno cambiato la percezione dei palestinesi nei confronti degli occidentali. Negli ultimi anni anche il Medio Oriente ha risentito della globalizzazione, che ha avuto essenzialmente due effetti: da una parte i social network hanno aperto una finestra sul resto del mondo e i giovani palestinesi sono potuti entrare in contatto con una realtà a loro nuova. Dall'altro lato la forte presenza di organizzazioni internazionali sul territorio e la “diffusione” di una certa cultura occidentale sono state viste come un’intrusione da parte della popolazione locale. Partendo da queste riflessioni abbiamo cercato di attuare una cooperazione paritaria: il nostro partner non è visto solamente come un soggetto che necessita aiuto ma soprattutto come il primo attore dei nostri progetti. In questo modo per noi è diventato molto importante portare avanti una dialettica costruttiva con i partner in termini sia di individuazione del bisogno sia di risoluzione dei problemi in modo da sviluppare insieme alla popolazione risposte adeguate a problemi contingenti e a lungo termine.
La situazione è molto complessa, ma è proprio in questi momenti che ci si deve aspettare maggior pragmatismo e coraggio da parte di tutte le parti in causa. I palestinesi hanno approfittato del vento di cambiamento che soffia dal Medio Oriente e hanno messo con le spalle al muro Israele e gli USA. Indietro non si torna, e come dicono gli arabi in queste situazioni: “INSHALLA” (se Dio vuole!).
di Claudia Zichi
Quella dell'associazione MaIa è una sfida importante e la possibilità di cambiamento che si sta prospettando in questi giorni suscita gioia e speranza. Sentiamo cosa pensa il vice-presidente dell'associazione Giovanni Fassina riguardo agli avvenimenti che hanno catturato da qualche settimana l'attenzione dei media di tutto il mondo.
Pensate che i negoziati di pace proposti dagli Stati Uniti siano la strada giusta per arrivare alla pace?
Sinceramente credo che negli ultimi dieci anni le parole “negoziati di pace” abbiano perso il loro vero significato all'interno del conflitto israelo-palestinese. Nonostante i buoni propositi degli ultimi due presidenti degli Stati Uniti nulla è cambiato.
George Bush nel 2007, aprendo la conferenza di Annapolis per rilanciare le trattative, aveva affermato che entro la fine dell'anno sarebbe stato firmato un trattato di pace tra Israele e l’A.N.P, anche a prezzo di scelte difficili da entrambe le parti in lotta. Ieri pomeriggio Barack Obama durante il suo discorso al palazzo di vetro ha detto: ”Non ci sono scorciatoie per la pace. Un anno fa io stesso da questo podio reclamai l'indipendenza della Palestina. Ma la pace è un lavoro faticoso. Se fosse cosi facile raggiungerla con una dichiarazione, l'avremmo fatto da un pezzo”. Viene il dubbio che ormai il negoziato serva a mantenere un impasse politico, un invito a non toccare niente, in modo tale da evitare di rompere un equilibrio ben congeniato che ormai lavora a pieno ritmo da 10 anni e che conviene soprattutto a una parte in causa.
Ma ora qualcosa sembra cambiare. Dalla fine della seconda intifada l'A.N.P ha capito che la lotta armata non poteva funzionare e ha cercato in tutti i modi di crearsi una nuova immagine a livello internazionale. Hanno deposto le armi, incominciato a perseguitare i partiti fondamentalisti islamici e si sono seduti al tavolo per negoziare innumerevoli volte ed in situazioni difficilissime (ad esempio durante i bombardamenti a Gaza). Nonostante ciò, fino ad oggi nulla è cambiato della situazione in West Bank, un territorio che al suo interno è diviso da colonie israeliane, innumerevoli check point che impediscono di muoversi liberamente, un muro lungo 860 km che divide nettamente Israele e la Cisgiordania, l'esercito israeliano che in qualsiasi momento può entrare e sequestrare terroristi sospetti e infine una classe politica palestinese che dipende moltissimo dai finanziamenti di USA e UE.
A questo punto è difficile credere i negoziati siano la strada giusta e credo che lo stallo dei negoziati derivi da vari fattori. Prima di tutto Israele e A.N.P non siedono al tavolo dei negoziati con lo stesso politico. Israele è la parte forte e finora ha portato avanti i negoziati affinché nulla cambiasse. Dall'altro lato l'Autorità Palestinese può solo offrire un cessate il fuoco permanente e dimostrare che è in grado di mantenere sotto controllo il suo territorio impedendo azioni terroristiche. Si tratta come sempre di una questione politica: Israele dovrebbe dismettere le colonie, riconoscere i confini del 1967 e trovare una soluzione per i quattro milioni di profughi che avrebbero diritto a tornare. In questo modo il governo di Netanyahu perderebbe però 350.000 voti, il numero di coloni illegali oggi presenti in Cisgiordania. Ciò significa tradire il proprio elettorato e probabilmente non essere più rieletti. É chiaro che i negoziati si scontrano in realtà con le esigenze e le aspettative di un’intera classe politica israeliana. Inoltre se la Palestina fosse riconosciuta come stato potrebbe portare di fronte al tribunale penale internazionale Israele per i crimini commessi a Gaza e per la questione delle colonie. Israele, consapevole di questa possibilità, teme di essere messa in ridicolo di fronte a tutta la comunità internazionale. La richiesta di riconoscimento da parte di Abu Mazen è una mossa politica ben congegnata: Arafat e l'OLP hanno provato invano ad ottenere uno stato palestinese sia attraverso manifestazioni pacifiche sia attraverso lanci di sassi e attentati kamikaze (prima e seconda intifada), e Abu Mazen ora vuole provare l'ultima carta del diritto internazionale per risollevare una situazione che per i palestinesi è diventata insostenibile. Ovviamente anche la posizione dei palestinesi è fortemente influenzata da scelte elettorali: senza una prospettiva di cambiamento tangibile probabilmente il governo attuale alle prossime elezioni verrebbe mandato via.
Come si sta preparando Jenin alla giornata di domani?
Verosimilmente ci saranno molte manifestazioni pacifiche in tutta la Palestina. L'ANP starà molto attenta affinché queste manifestazioni non degenerino in violenza: non può lasciarsi sfuggire la situazione dalle mani perché perderebbe immediatamente il ruolo di prestigio che mantiene ora a livello internazionale.
Come potrebbe reagire l’ANP a un’eventuale risposta negativa da parte dell'Assemblea delle Nazioni Unite?
Se ci fosse una risposta negativa l'ANP sarebbe costretta a incominciare nuovi negoziati. Tuttavia in questo caso credo che la situazione sarebbe molto diversa e le stesse trattative si aprirebbero in un clima diverso: Israele sarebbe in ogni caso messo sotto pressione non solo da USA, Turchia e da tutti i paesi arabi in cui è scoppiata la rivoluzione, ma anche dai movimenti degli indignados israeliani che sono scoppiati ultimamente. Anche l'opinione pubblica israeliana si sta risvegliando e, stanca di dieci anni di politica intransigente, potrebbe essere l'ago della bilancia e spingere per un cambio di governo.
Come sono state apprese dalle organizzazioni locali di volontariato le morti di Juliano Mer Khamis e di Vittorio Arrigoni rispettivamente il 4 e il 14 aprile 2011? Queste morti hanno portato cambiamenti significativi nel vostro modus operandi?
Sicuramente. É stato importante perché ci ha chiarito quali sono i rischi che a volte si corrono in queste situazioni; allo stesso tempo abbiamo aperto una riflessione sul perché tali fatti sono potuti accadere. Non ci sono dubbi che Juliano e Vittorio abbiano svolto un buon lavoro di cooperazione, tuttavia in questi territori sono state fatte delle opere inutili che hanno cambiato la percezione dei palestinesi nei confronti degli occidentali. Negli ultimi anni anche il Medio Oriente ha risentito della globalizzazione, che ha avuto essenzialmente due effetti: da una parte i social network hanno aperto una finestra sul resto del mondo e i giovani palestinesi sono potuti entrare in contatto con una realtà a loro nuova. Dall'altro lato la forte presenza di organizzazioni internazionali sul territorio e la “diffusione” di una certa cultura occidentale sono state viste come un’intrusione da parte della popolazione locale. Partendo da queste riflessioni abbiamo cercato di attuare una cooperazione paritaria: il nostro partner non è visto solamente come un soggetto che necessita aiuto ma soprattutto come il primo attore dei nostri progetti. In questo modo per noi è diventato molto importante portare avanti una dialettica costruttiva con i partner in termini sia di individuazione del bisogno sia di risoluzione dei problemi in modo da sviluppare insieme alla popolazione risposte adeguate a problemi contingenti e a lungo termine.
La situazione è molto complessa, ma è proprio in questi momenti che ci si deve aspettare maggior pragmatismo e coraggio da parte di tutte le parti in causa. I palestinesi hanno approfittato del vento di cambiamento che soffia dal Medio Oriente e hanno messo con le spalle al muro Israele e gli USA. Indietro non si torna, e come dicono gli arabi in queste situazioni: “INSHALLA” (se Dio vuole!).
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