giovedì, ottobre 06, 2011
«Quanto fatto finora, non è sufficiente. La Somalia ha bisogno di una leadership vera, ma purtroppo mancano i presupposti». Monsignor Giorgio Bertin, vescovo di Gibuti ed Amministratore apostolico di Mogadiscio, ha parlato con ACS-Italia del drammatico momento del Paese.

ACS Italia - Il presule parteciperà domani alla Conferenza Stampa d’informazione e aggiornamento sulla situazione promossa dal Pontificio Consiglio Cor Unum, per far sì che i responsabili dei principali organismi caritativi cattolici operanti nella regione di confrontarsi sull’emergenza umanitaria nel Corno d’Africa. A questo riguardo, va evidenziato come numerosi osservatori internazionali rilevino ormai la motivazione “politica” come principale componente dell’aggravamento della carestia. Il territori in mano ad al Shabaab – la milizia fondamentalista islamica che dal 2007 combatte per riprendersi il Paese – si estende infatti dalla capitale Mogadiscio al profondo Sud (area arida nella quale vivono 2-3 milioni di persone) dove è, di fatto, impedito che gli aiuti arrivino per “punire” la resistenza di questa zona alla penetrazione del fondamentalismo islamico.
Nell’Udienza concessa ieri a monsignor Bertin e al cardinale Sarah, presidente di Cor Unum, Benedetto XVI ha invitato a non chiudere gli occhi sul «silenzioso genocidio» e «nel corso del breve colloquio – ha riferito monsignor Bertin – ho ringraziato il Papa per il caloroso benvenuto e per averci definito i rappresentanti dell’impegno della Chiesa che occorre rinnovare».
In Italia il vescovo di Gibuti è stato raggiunto dalla notizia dell’esplosione di un camion bomba a Mogadiscio. L’attacco, nel quale sono morte 65 persone, è avvenuto martedì scorso ed è stato immediatamente rivendicato dal Gruppo armato islamista al-Shabab [La Gioventù]. «Sono addolorato, ma non stupito – dice monsignor Bertin – l’attentato è una dimostrazione della fragilità istituzionale del governo di transizione, nonché della tendenza di al-Shabab di colpire il suo popolo». Oltre agli impiegati statali, la bomba – fatta esplodere alle porte di un compound, nella zona K4 della capitale che è sede di diversi Ministeri – ha ucciso anche ragazzi e genitori radunati davanti ad una scuola.
Monsignor Bertin conosce bene la pericolosità di Mogadiscio: quattro anni fa, in seguito all’uccisione di suor Leonella, missionaria della Consolata, ha dovuto abbandonare il Paese e trasferirsi a Gibuti: «Senza un punto di appoggio sicuro è inutile rimanere. Anzi, in questo momento paradossalmente la mia presenza metterebbe a rischio i fedeli». Il presule teme infatti che la comunità islamica locale possa interpretare il suo ritorno come un gesto provocatorio e vendicarsi sui pochi cattolici rimasti (appena un centinaio).
Il mese scorso è stata firmata la cosiddetta Road Map – un accordo sottoscritto dall’autorità di transizione somala, insieme alla regione autonoma del Puntland (nel nord-est) e alla milizia filo-governativa Ahlu Sunna wal Jamaa – e in questi giorni l’Unione africana ha annunciato che l’Amisom, il proprio contingente di peacekeeping in Somalia, prolungherà il suo impegno fino al 31 ottobre 2012. «Il rinnovo della loro presenza è utile – dichiara ad ACS monsignor Bertin – così come gli accordi Road Map , ma ho qualche dubbio sulla loro effettiva applicazione e sulla determinazione con cui saranno sostenuti dalla comunità internazionale. Inoltre è da vedere se il Governo di transizione riuscirà ad estendere la propria autorità dalla capitale al resto del Paese».
L’obiettivo finale, senza il quale ogni intervento rimarrebbe puramente «velleitario», è la messa in atto di un processo politico in grado di far rinascere lo Stato somalo, ma i presupposti mancano. Monsignor Bertin pensa alle centinaia di migliaia di somali in diaspora. «Dobbiamo compiere un importante sforzo per coagulare quelle forze vive e capaci che sono ancora disperse e disunite. È un lavoro lungo che richiederà del tempo, ma è assolutamente necessario».

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