“Si viaggia alla scoperta di un Leopardi inedito, di un genio precocissimo, di un adolescente inquieto, di un amante appassionato, di un uomo che ha il coraggio di guardare la realtà e accettare la verità del dolore senza compromessi e facili giustificazioni” (Giuseppe Argirò, il regista)
di Carlo Mafera
E’ stata una piacevole riscoperta di un poeta ma anche di un filosofo che ha riportato la platea sui banchi di scuola facendo ricordare tante sue poesie che si studiavano a memoria e rimangono come degli ottimi compagni di viaggio della vita di tutti noi. È un patrimonio, Giacomo Leopardi, non solo culturale ma affettivo. Ogni suo verso ci coinvolge nel più profondo dell’intimo perché nella sua filosofia esistenziale ci riconosciamo tutti. La voce di Giuseppe Pambieri, suadente, calda, a volte incalzante, ha penetrato l’anima di tutti gli spettatori facendo trascorrere agli stessi due ore di spensierata riflessione (scusate l’ossimoro). Ma tutto lo spettacolo è un grande ossimoro, perché vengono accostate le sue più intime poesie con episodi di vita vissuta dove emergono tutte le fragilità e le debolezze del poeta. La biografia romanzata che esce fuori dalle pagine dell’Epistolario e dello Zibaldone ci dà un ritratto singolare ed inedito del nostro poeta. Per esempio Pambieri racconta la fobia dell’acqua del poeta recanatese.
Nelle sue parole poi il desiderio di una vita normale è sempre presente; il dono di scrivere poesie appare però come una maledizione divina che lo fa apparire diverso, lo condanna ad una sofferenza eterna e lo distacca dal mondo che lo circonda, nonostante il suo desiderio di inserirsi.
Ma l’aspetto che più mi ha colpito è quello del Leopardi filosofo, quello che meglio si studia a scuola e, soprattutto, quello di cui abbiamo più scritti, dove egli esterna il suo pensiero e lo consegna alla analisi sua e dei lettori. Giuseppe Pambieri, con l’ottima regia di Giuseppe Argirò, ha rappresentato in modo puntuale la conversione “dal bello al vero”, avvenuta ad appena vent'anni, da parte di Giacomo Leopardi. Questi abbandona le illusioni giovanili per approdare ad una nuova visione della realtà: essa viene vista con occhio freddamente filosofico, materialista e sensista. “Si viaggia alla scoperta di un Leopardi inedito, di un genio precocissimo, di un adolescente inquieto, di un amante appassionato, di un uomo che ha il coraggio di guardare la realtà e accettare la verità del dolore senza compromessi e facili giustificazioni” ha dichiarato l’autore e regista Giuseppe Argirò. E’ proprio questa inquietudine che ci affascina di Giacomo Leopardi. In questa ci riconosciamo tutti: il nostro desiderio, noi esseri finiti e con dei grossi limiti, di desiderare l’infinito e il piacere attraverso il quale vogliamo appunto raggiungerlo.
La sua teoria del piacere ci spiega come per l'uomo sia impossibile raggiungere l’infinito per arrivare alla vera felicità: l'uomo tende per natura ad un piacere infinito e la particolarità del mondo reale fa sì che niente possa, per qualità e quantità, soddisfare questo bisogno dell'uomo. E l'assenza di questo lo porterà, necessariamente, a vedere dappertutto il male.
Alla visione delle realtà (al limitar del vero), Leopardi si ripiega in sé stesso e riflette, immagina, spalanca il cuore e guarda oltre “Ma sedendo e mirando, interminati / spazi di là da quella, e sovrumani / silenzi, e profondissima quiete / io nel pensier mi fingo” (“L'Infinito”, Piccoli idilli). Non è dunque solo materialismo, questo infinito è qualcosa che va oltre la realtà, oltre la materia, oltre i sensi, e questo è ciò a cui si rivolge, ciò che raggiunge, ciò in cui “naufraga dolcemente”. L’inquietudine di Leopardi lo spinge oltre la filosofia e la poesia: non si limitava a scrivere o a “pensare alla vita”, ma si apriva al valore della stessa. Seguendo il percorso di vita che lui stesso ci ha indicato, Leopardi è passato da una fase giovanile fatta di illusioni, felicità e bellezza ad una filosofica, dove si evolverà in un pessimismo sempre più cosmico e tremendo. Manca in Leopardi perciò una prospettiva di fede e di speranza, dove un dio qualsiasi possa trascendere questa profonda disperazione e darle, in qualche modo, un senso.
Il poeta recanatese è di grande attualità perché, al di là della rappresentazione teatrale, pone lo spettatore e, in definitiva l’intera società contemporanea, di fronte alle domande ultime che l’essere umano si è sempre fatto. Leopardi appare come un esperto inconsapevole di antropologia filosofica, e ciò si evince nella sua inquietudine circa il rapporto con la natura “O natura, o natura, perché non rendi poi quel che prometti allor? perché di tanto inganni i figli tuoi? “ (A Silvia), dove traspare tutto il suo pessimismo ed il rapporto tra l’uomo ed il cosmo, o nel suo rapporto con il tempo “Sempre caro mi fu quest’ermo colle, e questa siepe, che da tanta parte dell’ultimo orizzonte il guardo esclude. Ma sedendo e mirando, interminati spazi di là da quella, e sovrumani silenzi, e profondissima quiete Io nel pensier mi fingo; ove per poco Il cor non si spaura” (L’Infinito). C’è da interrogarsi su questa siepe che impedisce allo sguardo di spaziare. E’ come se lo spazio e il tempo fossero interrotti e chiusi come nell’accezione del Kronos greco, il tempo ciclico che si ripete. Manca in Leopardi, con la sua siepe, l’incontro con il Kairos, il tempo opportuno, quello che scaturisce dalla Grazia e cioè dall’irruzione del divino, di Cristo in particolare, nella nostra umanità sofferente.
Pambieri ci conduce a riflettere su Leopardi. E tale riflessione si conclude, come si diceva, con la considerazione che il poeta non è tutto nella sua poesia. La ricerca s’incontra anche con la nostra parte di disperata umanità che per sopravvivere alle domande di senso sempre più incalzanti della storia individuale e sociale non può che risolversi in una solidarietà che diventa l’unica possibilità di sopravvivenza, ancora oggi per ciascuno di noi.
di Carlo Mafera
E’ stata una piacevole riscoperta di un poeta ma anche di un filosofo che ha riportato la platea sui banchi di scuola facendo ricordare tante sue poesie che si studiavano a memoria e rimangono come degli ottimi compagni di viaggio della vita di tutti noi. È un patrimonio, Giacomo Leopardi, non solo culturale ma affettivo. Ogni suo verso ci coinvolge nel più profondo dell’intimo perché nella sua filosofia esistenziale ci riconosciamo tutti. La voce di Giuseppe Pambieri, suadente, calda, a volte incalzante, ha penetrato l’anima di tutti gli spettatori facendo trascorrere agli stessi due ore di spensierata riflessione (scusate l’ossimoro). Ma tutto lo spettacolo è un grande ossimoro, perché vengono accostate le sue più intime poesie con episodi di vita vissuta dove emergono tutte le fragilità e le debolezze del poeta. La biografia romanzata che esce fuori dalle pagine dell’Epistolario e dello Zibaldone ci dà un ritratto singolare ed inedito del nostro poeta. Per esempio Pambieri racconta la fobia dell’acqua del poeta recanatese.
Nelle sue parole poi il desiderio di una vita normale è sempre presente; il dono di scrivere poesie appare però come una maledizione divina che lo fa apparire diverso, lo condanna ad una sofferenza eterna e lo distacca dal mondo che lo circonda, nonostante il suo desiderio di inserirsi.
Ma l’aspetto che più mi ha colpito è quello del Leopardi filosofo, quello che meglio si studia a scuola e, soprattutto, quello di cui abbiamo più scritti, dove egli esterna il suo pensiero e lo consegna alla analisi sua e dei lettori. Giuseppe Pambieri, con l’ottima regia di Giuseppe Argirò, ha rappresentato in modo puntuale la conversione “dal bello al vero”, avvenuta ad appena vent'anni, da parte di Giacomo Leopardi. Questi abbandona le illusioni giovanili per approdare ad una nuova visione della realtà: essa viene vista con occhio freddamente filosofico, materialista e sensista. “Si viaggia alla scoperta di un Leopardi inedito, di un genio precocissimo, di un adolescente inquieto, di un amante appassionato, di un uomo che ha il coraggio di guardare la realtà e accettare la verità del dolore senza compromessi e facili giustificazioni” ha dichiarato l’autore e regista Giuseppe Argirò. E’ proprio questa inquietudine che ci affascina di Giacomo Leopardi. In questa ci riconosciamo tutti: il nostro desiderio, noi esseri finiti e con dei grossi limiti, di desiderare l’infinito e il piacere attraverso il quale vogliamo appunto raggiungerlo.
La sua teoria del piacere ci spiega come per l'uomo sia impossibile raggiungere l’infinito per arrivare alla vera felicità: l'uomo tende per natura ad un piacere infinito e la particolarità del mondo reale fa sì che niente possa, per qualità e quantità, soddisfare questo bisogno dell'uomo. E l'assenza di questo lo porterà, necessariamente, a vedere dappertutto il male.
Alla visione delle realtà (al limitar del vero), Leopardi si ripiega in sé stesso e riflette, immagina, spalanca il cuore e guarda oltre “Ma sedendo e mirando, interminati / spazi di là da quella, e sovrumani / silenzi, e profondissima quiete / io nel pensier mi fingo” (“L'Infinito”, Piccoli idilli). Non è dunque solo materialismo, questo infinito è qualcosa che va oltre la realtà, oltre la materia, oltre i sensi, e questo è ciò a cui si rivolge, ciò che raggiunge, ciò in cui “naufraga dolcemente”. L’inquietudine di Leopardi lo spinge oltre la filosofia e la poesia: non si limitava a scrivere o a “pensare alla vita”, ma si apriva al valore della stessa. Seguendo il percorso di vita che lui stesso ci ha indicato, Leopardi è passato da una fase giovanile fatta di illusioni, felicità e bellezza ad una filosofica, dove si evolverà in un pessimismo sempre più cosmico e tremendo. Manca in Leopardi perciò una prospettiva di fede e di speranza, dove un dio qualsiasi possa trascendere questa profonda disperazione e darle, in qualche modo, un senso.
Il poeta recanatese è di grande attualità perché, al di là della rappresentazione teatrale, pone lo spettatore e, in definitiva l’intera società contemporanea, di fronte alle domande ultime che l’essere umano si è sempre fatto. Leopardi appare come un esperto inconsapevole di antropologia filosofica, e ciò si evince nella sua inquietudine circa il rapporto con la natura “O natura, o natura, perché non rendi poi quel che prometti allor? perché di tanto inganni i figli tuoi? “ (A Silvia), dove traspare tutto il suo pessimismo ed il rapporto tra l’uomo ed il cosmo, o nel suo rapporto con il tempo “Sempre caro mi fu quest’ermo colle, e questa siepe, che da tanta parte dell’ultimo orizzonte il guardo esclude. Ma sedendo e mirando, interminati spazi di là da quella, e sovrumani silenzi, e profondissima quiete Io nel pensier mi fingo; ove per poco Il cor non si spaura” (L’Infinito). C’è da interrogarsi su questa siepe che impedisce allo sguardo di spaziare. E’ come se lo spazio e il tempo fossero interrotti e chiusi come nell’accezione del Kronos greco, il tempo ciclico che si ripete. Manca in Leopardi, con la sua siepe, l’incontro con il Kairos, il tempo opportuno, quello che scaturisce dalla Grazia e cioè dall’irruzione del divino, di Cristo in particolare, nella nostra umanità sofferente.
Pambieri ci conduce a riflettere su Leopardi. E tale riflessione si conclude, come si diceva, con la considerazione che il poeta non è tutto nella sua poesia. La ricerca s’incontra anche con la nostra parte di disperata umanità che per sopravvivere alle domande di senso sempre più incalzanti della storia individuale e sociale non può che risolversi in una solidarietà che diventa l’unica possibilità di sopravvivenza, ancora oggi per ciascuno di noi.
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