La differenza tra la dottrina platonica e quella cristiana sul rapporto tra corpo e anima
Nel mito del carro alato vi è esposta tutta la concezione dualistica di Platone circa l’essere umano. Infatti l’anima, nel Fedro, vive autonomamente il legame con il corpo. Può riempirsi di oblio e di cattiveria tanto che tali condizioni possono determinare la caduta dell’anima stessa, costretta poi ad incarnarsi in corpi via via diversi in base al grado della caduta stessa. Infatti è la guida disordinata dell’auriga, incapace di condurre rettamente la biga alata, a determinare l’appesantirsi del carro che non può fare a meno di sprofondare nelle realtà corporee. Da ciò nasce l’esigenza di condurre una vita morigerata tale da determinare il ciclo della purificazione dell’anima fino a garantire una reincarnazione più degna, in un infinito ciclo di cadute e rigenerazioni dello Spirito.
Nel cristianesimo invece non c’è separazione tra corpo e anima. Vi è infatti una dimensione olistica di inscindibilità tra l’uno e l’altra che presuppone una vita eterna sia dell’una che dell’altra. Infatti nell’escatologia cristiana viene ipotizzata la resurrezione dell’anima e, alla fine dei tempi, anche quella dei corpi. La dottrina cattolica sancisce altresì l’unicità e l’irrepetibilità dell’uomo nelle sue due componenti e dà, soprattutto, eminente dignità sia all’anima che al corpo.
Per Platone diversamente il corpo resta una zavorra dell’anima e la morte viene concepita come una liberazione dello spirito, che può infine volare leggero senza il peso della materia che lo incatena rendendogli difficile la conoscenza del vero. Vi è quindi una concezione negativa del corpo, intriso di bisogni e preoccupazioni e soggetto a malattie, a passioni, a paure che impediscono di pensare in modo sicuro a qualcosa. Quindi Platone pensa alla necessità di staccarsi dal corpo per guardare solo con l’anima le cose in sé come realmente sono. Per Platone infatti la conoscenza certa ha sede solo nello spirito e trae origine dalle idee innate attraverso il ricordo, cioè la reminiscenza, perché la conoscenza sensibile è apparente e induce all’errore. Platone quindi afferma che l’anima è simile alle idee ed ha la stessa natura spirituale.
Fin qui tutto sembrerebbe una tranquilla distinzione filosofica. Se non che le implicazioni che tracimano nella sfera pratica non sono del tutto indifferenti. Cartesio riprende tale concezione idealista, ipotizzando la sua teoria razionalistica nel XVII secolo secondo la quale la res cogitans e la res extensa erano due realtà completamente separate. Ciò significava che la materia e lo spirito, come in Platone, erano rigidamente separate. Tale divisione continuava e perpetuava quella concezione negativa del corpo e dei suoi sensi che arriva fino ai giorni nostri. Infatti il mondo delle idee influisce pesantemente nelle scelte della vita pratica. Altro che corpo come zavorra o dei sensi fallibili. La concezione cristiana è del tutto diversa e rivaluta la bellezza del corpo e la sua importante sensibilità. Ecco la concezione di Origene: «Il Cristo diventa l’oggetto di ciascun senso dell’anima. Egli chiama se stesso la vera “luce” per illuminare gli occhi dell’anima, il “Verbo” per essere udito, il “pane” di vita per essere gustato. Parimenti, egli è chiamato “olio” e “nardo” perché l’anima si diletti dell’odore del Logos, egli è divenuto “il Verbo fatto carne” palpabile e attingibile, perché l’uomo interiore possa cogliere il Verbo di vita» (Commento al Cantico II,167,25). Il Dio fattosi uomo ha affermato, una volta per sempre, l’eminente dignità spirituale del corpo. È vero che la dottrina tradizionale dei sensi spirituali si fonda a volte sulla contrapposizione e rottura fra sensi corporei e sensi spirituali, ma in certe sue modulazioni (per esempio in Bonaventura) si percepisce la continuità fra i due livelli di sensi e comunque, al di là delle antropologie – oggi forzatamente impraticabili – che sottostavano alle antiche formulazioni dottrinali, è essenziale recuperare e riformulare l’istanza profonda che esse esprimevano. Il sensus fidei non è un sapere dottrinale, ma è connesso a un vissuto, a una conoscenza «pratica» di Dio che porta ad assumere «il senso delle cose divine», cioè il discernimento. Magistero di questo discernimento è la liturgia eucaristica, dove il mistero celebrato è il mistero della fede; ma la liturgia eucaristica è esperienza che coinvolge tutti i sensi del credente: ascoltare la Parola di Dio proclamata, vedere le icone, le luci, i volti dei fratelli, gustare il pane e il vino eucaristici, odorare i profumi, l’incenso, toccare l’altro con l’abbraccio di pace... Nell’incarnazione la rivelazione è entrata nell’uomo attraverso tutti i sensi; nell’economia sacramentale la celebrazione del mistero coinvolge sì tutti i sensi dell’uomo, ma esigendo anche un loro affinamento e una loro trasfigurazione: si tratta di cogliere la realtà «in Cristo». I sensi non sono aboliti, ma ordinati dalla fede, allenati dalla preghiera, innestati in Cristo, trasfigurati dallo Spirito santo.
Nel mito del carro alato vi è esposta tutta la concezione dualistica di Platone circa l’essere umano. Infatti l’anima, nel Fedro, vive autonomamente il legame con il corpo. Può riempirsi di oblio e di cattiveria tanto che tali condizioni possono determinare la caduta dell’anima stessa, costretta poi ad incarnarsi in corpi via via diversi in base al grado della caduta stessa. Infatti è la guida disordinata dell’auriga, incapace di condurre rettamente la biga alata, a determinare l’appesantirsi del carro che non può fare a meno di sprofondare nelle realtà corporee. Da ciò nasce l’esigenza di condurre una vita morigerata tale da determinare il ciclo della purificazione dell’anima fino a garantire una reincarnazione più degna, in un infinito ciclo di cadute e rigenerazioni dello Spirito.
Nel cristianesimo invece non c’è separazione tra corpo e anima. Vi è infatti una dimensione olistica di inscindibilità tra l’uno e l’altra che presuppone una vita eterna sia dell’una che dell’altra. Infatti nell’escatologia cristiana viene ipotizzata la resurrezione dell’anima e, alla fine dei tempi, anche quella dei corpi. La dottrina cattolica sancisce altresì l’unicità e l’irrepetibilità dell’uomo nelle sue due componenti e dà, soprattutto, eminente dignità sia all’anima che al corpo.
Per Platone diversamente il corpo resta una zavorra dell’anima e la morte viene concepita come una liberazione dello spirito, che può infine volare leggero senza il peso della materia che lo incatena rendendogli difficile la conoscenza del vero. Vi è quindi una concezione negativa del corpo, intriso di bisogni e preoccupazioni e soggetto a malattie, a passioni, a paure che impediscono di pensare in modo sicuro a qualcosa. Quindi Platone pensa alla necessità di staccarsi dal corpo per guardare solo con l’anima le cose in sé come realmente sono. Per Platone infatti la conoscenza certa ha sede solo nello spirito e trae origine dalle idee innate attraverso il ricordo, cioè la reminiscenza, perché la conoscenza sensibile è apparente e induce all’errore. Platone quindi afferma che l’anima è simile alle idee ed ha la stessa natura spirituale.
Fin qui tutto sembrerebbe una tranquilla distinzione filosofica. Se non che le implicazioni che tracimano nella sfera pratica non sono del tutto indifferenti. Cartesio riprende tale concezione idealista, ipotizzando la sua teoria razionalistica nel XVII secolo secondo la quale la res cogitans e la res extensa erano due realtà completamente separate. Ciò significava che la materia e lo spirito, come in Platone, erano rigidamente separate. Tale divisione continuava e perpetuava quella concezione negativa del corpo e dei suoi sensi che arriva fino ai giorni nostri. Infatti il mondo delle idee influisce pesantemente nelle scelte della vita pratica. Altro che corpo come zavorra o dei sensi fallibili. La concezione cristiana è del tutto diversa e rivaluta la bellezza del corpo e la sua importante sensibilità. Ecco la concezione di Origene: «Il Cristo diventa l’oggetto di ciascun senso dell’anima. Egli chiama se stesso la vera “luce” per illuminare gli occhi dell’anima, il “Verbo” per essere udito, il “pane” di vita per essere gustato. Parimenti, egli è chiamato “olio” e “nardo” perché l’anima si diletti dell’odore del Logos, egli è divenuto “il Verbo fatto carne” palpabile e attingibile, perché l’uomo interiore possa cogliere il Verbo di vita» (Commento al Cantico II,167,25). Il Dio fattosi uomo ha affermato, una volta per sempre, l’eminente dignità spirituale del corpo. È vero che la dottrina tradizionale dei sensi spirituali si fonda a volte sulla contrapposizione e rottura fra sensi corporei e sensi spirituali, ma in certe sue modulazioni (per esempio in Bonaventura) si percepisce la continuità fra i due livelli di sensi e comunque, al di là delle antropologie – oggi forzatamente impraticabili – che sottostavano alle antiche formulazioni dottrinali, è essenziale recuperare e riformulare l’istanza profonda che esse esprimevano. Il sensus fidei non è un sapere dottrinale, ma è connesso a un vissuto, a una conoscenza «pratica» di Dio che porta ad assumere «il senso delle cose divine», cioè il discernimento. Magistero di questo discernimento è la liturgia eucaristica, dove il mistero celebrato è il mistero della fede; ma la liturgia eucaristica è esperienza che coinvolge tutti i sensi del credente: ascoltare la Parola di Dio proclamata, vedere le icone, le luci, i volti dei fratelli, gustare il pane e il vino eucaristici, odorare i profumi, l’incenso, toccare l’altro con l’abbraccio di pace... Nell’incarnazione la rivelazione è entrata nell’uomo attraverso tutti i sensi; nell’economia sacramentale la celebrazione del mistero coinvolge sì tutti i sensi dell’uomo, ma esigendo anche un loro affinamento e una loro trasfigurazione: si tratta di cogliere la realtà «in Cristo». I sensi non sono aboliti, ma ordinati dalla fede, allenati dalla preghiera, innestati in Cristo, trasfigurati dallo Spirito santo.
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Sono presenti 2 commenti
E' possibile sapere chi è l'autore e qual è il titolo di quest'opera?
Grazie
"Il mito del carro alato" di Platone.
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