Continua il ciclo di articoli di Chiara Bartoli sulle vittime della mafia: oggi è il turno di Peppino Impastato, giovane giornalista ucciso dalla mafia la notte tra l’8 e il 9 maggio del 1978
Peppino Impastato era un ragazzo profondamente avverso al sistema mafioso che tiranneggiava il suo bel paese, Cinisi, la sua famiglia e non per ultimo il suo cuore. Il profondo rispetto per la giustizia gli impedì di tacere e di sottomettersi ad un sistema che arrecava povertà e distruzione ambientale e che minava la libertà dei suoi compaesani. Una forza travolgente vinse la paura e la vigliaccheria, insite in ogni uomo, e lo spinsero a lottare contro una forza che, purtroppo, era molto più grande di lui e che lo avrebbe condotto alla morte.
Peppino nasce il 5 gennaio del 1948 nel seno di una famiglia mafiosa: il padre, Luigi Impastato, era cognato del capomafia Cesare Manzella, ucciso nel 1963 in un agguato. La madre, Felicia Bartolotta, sostiene il figlio con amore e dedizione, anche quando le sua strada diverge da quella che il padre aveva immaginato per lui. L’amaro rifiuto della mafia, che Peppino non nasconde, condurrà il padre a cacciarlo da casa. Peppino si ritrova così, come molti personaggi dell’antimafia, solo. E nella solitudine non si arrende e continua a lottare. Lo fa inizialmente attraverso il partito socialista ed un giornale da lui fondato, “L’idea socialista”, che viene però sequestrato. In seguito organizza un circolo culturale, “Musica e cultura”, e nel 1977 “Radio Aut” , un’emittente autofinanziata. I programmi sono improntati alla satira politica e mafiosa. Una satira che non sarà ben gradita da Gaetano Badalamenti, uno dei più potenti membri di Cosa Nostra, anche conosciuto come “Don Tano”. Nel suo programma radiofonico di satira “Onda Pazza”, Peppino lo chiamava “Tano seduto”, un appellativo che, unito alle giornaliere denunce delle attività mafiose, avrebbe condotto la cosca a sentenziarne la condanna a morte.
Il corpo esanime di Peppino venne posto sui binari della ferrovia Trapani-Palermo. Una carica di tritolo lo fece esplodere. La mafia, purtroppo, non uccide una sola volta. In seguito all’esplosione che fece brandelli del suo corpo e che spezzò in mille pezzi il cuore dei familiari, le indagini furono purtroppo depistate dalle stesse forze dell’ordine, che parlarono di “attentato terroristico compiuto dallo stesso”. Pochi giorni dopo la sua morte fu eletto simbolicamente consigliere comunale (si era candidato nella lista di Democrazia Proletaria).
Il coraggio e la forza che animavano Peppino riecheggiano nel cuore della madre Felicia (deceduta nel 2004) e in quello del fratello Giovanni, che non si arresero mai e che insieme al Centro siciliano di documentazione fecero riaprire il processo nel 1996 (archiviato per ben due volte per mancanza di prove). Felicia aprì le porte della sua casa a giornalisti e curiosi, dopo aver rotto definitivamente con la parentela mafiosa: “Mi piace parlarci, perché la cosa di mio figlio si allarga, capiscono che cosa significa la mafia. E ne vengono, e con tanto piacere per quelli che vengono! Loro si immaginano: ‘Questa è siciliana e tiene la bocca chiusa”. Invece no. Io devo difendere mio figlio, politicamente, lo devo difendere. Mio figlio non era un terrorista. Lottava per cose giuste e precise”.
Nel 2002, ventiquattro anni dopo il crudele assassinio di Peppino, Gaetano Badalamenti e il suo vice, Vito Palazzolo, furono condannati rispettivamente all’ergastolo e a trenta anni di reclusione. Finalmente la mamma Felicia, il fratello Giovanni e tutti gli amici di Peppino ottenero quello che aspettavano da più di venti anni: giustizia.
La casa Memoria Felicia e Peppino Impastato persegue con dedizione l’eredità di Felicia e Peppino, aprendo le proprie porte a chiunque sia alla ricerca della verità, e continuando a lottare contro la mafia. La sua storia, inoltre, viene ricordata nel toccante film di Marco Tullio Giordana “I cento passi”. Il titolo rimanda alla distanza che separava la casa di Peppino da quella di Tano Badalamenti, quei cento passi che angosciavano profondamente Peppino, nell’esasperata impotenza che provava. Eppure, come abbiamo visto, Peppino si impegnò con tutte le sue forze nella dura lotta alla mafia, sino a sacrificare la sua stessa vita. E’ per questo che non deve essere dimenticato.
Peppino Impastato era un ragazzo profondamente avverso al sistema mafioso che tiranneggiava il suo bel paese, Cinisi, la sua famiglia e non per ultimo il suo cuore. Il profondo rispetto per la giustizia gli impedì di tacere e di sottomettersi ad un sistema che arrecava povertà e distruzione ambientale e che minava la libertà dei suoi compaesani. Una forza travolgente vinse la paura e la vigliaccheria, insite in ogni uomo, e lo spinsero a lottare contro una forza che, purtroppo, era molto più grande di lui e che lo avrebbe condotto alla morte.
Peppino nasce il 5 gennaio del 1948 nel seno di una famiglia mafiosa: il padre, Luigi Impastato, era cognato del capomafia Cesare Manzella, ucciso nel 1963 in un agguato. La madre, Felicia Bartolotta, sostiene il figlio con amore e dedizione, anche quando le sua strada diverge da quella che il padre aveva immaginato per lui. L’amaro rifiuto della mafia, che Peppino non nasconde, condurrà il padre a cacciarlo da casa. Peppino si ritrova così, come molti personaggi dell’antimafia, solo. E nella solitudine non si arrende e continua a lottare. Lo fa inizialmente attraverso il partito socialista ed un giornale da lui fondato, “L’idea socialista”, che viene però sequestrato. In seguito organizza un circolo culturale, “Musica e cultura”, e nel 1977 “Radio Aut” , un’emittente autofinanziata. I programmi sono improntati alla satira politica e mafiosa. Una satira che non sarà ben gradita da Gaetano Badalamenti, uno dei più potenti membri di Cosa Nostra, anche conosciuto come “Don Tano”. Nel suo programma radiofonico di satira “Onda Pazza”, Peppino lo chiamava “Tano seduto”, un appellativo che, unito alle giornaliere denunce delle attività mafiose, avrebbe condotto la cosca a sentenziarne la condanna a morte.
Il corpo esanime di Peppino venne posto sui binari della ferrovia Trapani-Palermo. Una carica di tritolo lo fece esplodere. La mafia, purtroppo, non uccide una sola volta. In seguito all’esplosione che fece brandelli del suo corpo e che spezzò in mille pezzi il cuore dei familiari, le indagini furono purtroppo depistate dalle stesse forze dell’ordine, che parlarono di “attentato terroristico compiuto dallo stesso”. Pochi giorni dopo la sua morte fu eletto simbolicamente consigliere comunale (si era candidato nella lista di Democrazia Proletaria).
Il coraggio e la forza che animavano Peppino riecheggiano nel cuore della madre Felicia (deceduta nel 2004) e in quello del fratello Giovanni, che non si arresero mai e che insieme al Centro siciliano di documentazione fecero riaprire il processo nel 1996 (archiviato per ben due volte per mancanza di prove). Felicia aprì le porte della sua casa a giornalisti e curiosi, dopo aver rotto definitivamente con la parentela mafiosa: “Mi piace parlarci, perché la cosa di mio figlio si allarga, capiscono che cosa significa la mafia. E ne vengono, e con tanto piacere per quelli che vengono! Loro si immaginano: ‘Questa è siciliana e tiene la bocca chiusa”. Invece no. Io devo difendere mio figlio, politicamente, lo devo difendere. Mio figlio non era un terrorista. Lottava per cose giuste e precise”.
Nel 2002, ventiquattro anni dopo il crudele assassinio di Peppino, Gaetano Badalamenti e il suo vice, Vito Palazzolo, furono condannati rispettivamente all’ergastolo e a trenta anni di reclusione. Finalmente la mamma Felicia, il fratello Giovanni e tutti gli amici di Peppino ottenero quello che aspettavano da più di venti anni: giustizia.
La casa Memoria Felicia e Peppino Impastato persegue con dedizione l’eredità di Felicia e Peppino, aprendo le proprie porte a chiunque sia alla ricerca della verità, e continuando a lottare contro la mafia. La sua storia, inoltre, viene ricordata nel toccante film di Marco Tullio Giordana “I cento passi”. Il titolo rimanda alla distanza che separava la casa di Peppino da quella di Tano Badalamenti, quei cento passi che angosciavano profondamente Peppino, nell’esasperata impotenza che provava. Eppure, come abbiamo visto, Peppino si impegnò con tutte le sue forze nella dura lotta alla mafia, sino a sacrificare la sua stessa vita. E’ per questo che non deve essere dimenticato.
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