La morte di Marco Simoncelli è purtroppo solo l’ultima di una lunga serie di tragedie drammatiche
di Daniela Vitolo
Marco Simoncelli aveva 24 anni e la stoffa del campione. È morto domenica davanti agli occhi di milioni di persone. Un attimo e la gara si è trasformata in tragedia, il tifo in apprensione e, subito dopo, in sbigottimento. Un attimo e il sorriso, la simpatia, la grinta, la voglia di dare sempre il meglio di sé sono stati spazzati via per sempre da un incidente dalla dinamica agghiacciante. La scomparsa di Simoncelli è l’ultima, in ordine di tempo, di una lunga serie di morti in pista. In moto o in auto, in competizioni ufficiali oppure no, in gara, in prova, durante i test, i motori nello sport hanno mietuto un gran numero di vittime. Se si guarda alla storia recente del motomondiale, solo 13 mesi fa moriva, durante il Gran Premio di San Marino, il diciannovenne Shoya Tomizawa: la dinamica è identica a quella dell’incidente in cui ha perso la vita Simoncelli. Nel 2003 Daijito Kato è morto dopo 13 giorni di coma dopo aver urtato violentemente contro le protezioni di cemento del circuito. Per citarne altri, si pensi a quello del 1993 quando, alla vigilia del Gran Premio di Spagna, Noboyuki Wakai morì per evitare uno spettatore che si trova nella corsia dei box; oppure a quello del 1973 quando, a seguito di un incidente che coinvolse otto piloti, due di loro, Renzo Pasolini e Jarno Saarinen, persero la vita.
Nei cuori dei tifosi di Formula 1 sono impresse le immagini degli incidenti mortali dei grandi campioni Ayrton Senna e Gilles Villeneuve. In questo sport l’ultimo incidente mortale è stato proprio quello in cui il 1 maggio 1994 morì il brasiliano Senna. Da allora si è lavorato alacremente per mettere a punto sistemi di sicurezza tali da ridurre il più possibile i rischi per il pilota. Oggi, quando si verificano incidenti con una dinamica simile a quello in cui morì Senna, i piloti escono illesi dall’abitacolo. Ma se si guarda indietro, a prima del 1994, i morti che si possono contare sono tanti, a volte anche due o tre in uno stesso campionato. Nel 1961 oltre al pilota Wuolfgang Von Trips morirono 14 spettatori. Nel 1977 Tom Price investì e uccise con la sua monoposto un commissario di gara che stava attraversando la pista con un estintore, estintore che colpì alla testa il pilota e lo uccise sul colpo.
Il pilota e lo spettatore di motociclismo e Formula 1 sanno che l’incidente fa parte dello sport, che prima o poi capita. Lo spettatore, anzi, con un po’ di cinismo spera che durante la gara si verifichi almeno un incidente, purché senza conseguenze per i piloti, perché fa parte della spettacolarità di questo tipo di sport: le tattiche studiate per ogni situazione, le auto o le moto lanciate a folle velocità, e poi le curve, i sorpassi, i tamponamenti, il fiato sospeso per i tifosi, l’adrenalina a mille per i piloti. È il fascino di sport complessi, in cui la gara è il momento finale di un lavoro di squadra ininterrotto che coinvolge, oltre al pilota, ingegneri, tecnici meccanici. Ma poi in pista scende lui, il pilota, con il suo talento, il suo istinto, il suo sangue freddo e, prima di questo, una buona dose di coraggio e incoscienza. Intanto lo spettatore lo segue ammirato, sceglie il suo preferito, fa il tifo sapendo, nella maggior parte dei casi, che non sarebbe disposto a stare al suo posto, a rischiare deliberatamente la propria vita per un gioco. Il pilota invece è conscio dei rischi che corre, ma questo non gli impedisce di gareggiare.
Mi vengono alla mente le parole di Ambrose Redmoon: “Il coraggio non è l’assenza di paura, ma piuttosto la consapevolezza che c’è qualcosa di più importante della paura”. È la consapevolezza di quel ‘qualcosa in più’ che fa la differenza tra lo spettatore che segue la gara dalla sua comoda poltrona e il pilota che scende in pista. Sapere di non poter comprendere cosa lo spinge a correre e a rischiare lo rende affascinante, ma ci lascia attoniti di fronte alla sua morte. Una morte che non ci aspettavamo e non avremmo mai voluto, perché morire di sport è assurdo, ma è ancora più assurdo veder morire chi non ha avuto paura di rischiare.
A Marco e a tutti quelli che hanno avuto consapevolezza di quel ‘qualcosa di più’
di Daniela Vitolo
Marco Simoncelli aveva 24 anni e la stoffa del campione. È morto domenica davanti agli occhi di milioni di persone. Un attimo e la gara si è trasformata in tragedia, il tifo in apprensione e, subito dopo, in sbigottimento. Un attimo e il sorriso, la simpatia, la grinta, la voglia di dare sempre il meglio di sé sono stati spazzati via per sempre da un incidente dalla dinamica agghiacciante. La scomparsa di Simoncelli è l’ultima, in ordine di tempo, di una lunga serie di morti in pista. In moto o in auto, in competizioni ufficiali oppure no, in gara, in prova, durante i test, i motori nello sport hanno mietuto un gran numero di vittime. Se si guarda alla storia recente del motomondiale, solo 13 mesi fa moriva, durante il Gran Premio di San Marino, il diciannovenne Shoya Tomizawa: la dinamica è identica a quella dell’incidente in cui ha perso la vita Simoncelli. Nel 2003 Daijito Kato è morto dopo 13 giorni di coma dopo aver urtato violentemente contro le protezioni di cemento del circuito. Per citarne altri, si pensi a quello del 1993 quando, alla vigilia del Gran Premio di Spagna, Noboyuki Wakai morì per evitare uno spettatore che si trova nella corsia dei box; oppure a quello del 1973 quando, a seguito di un incidente che coinvolse otto piloti, due di loro, Renzo Pasolini e Jarno Saarinen, persero la vita.
Nei cuori dei tifosi di Formula 1 sono impresse le immagini degli incidenti mortali dei grandi campioni Ayrton Senna e Gilles Villeneuve. In questo sport l’ultimo incidente mortale è stato proprio quello in cui il 1 maggio 1994 morì il brasiliano Senna. Da allora si è lavorato alacremente per mettere a punto sistemi di sicurezza tali da ridurre il più possibile i rischi per il pilota. Oggi, quando si verificano incidenti con una dinamica simile a quello in cui morì Senna, i piloti escono illesi dall’abitacolo. Ma se si guarda indietro, a prima del 1994, i morti che si possono contare sono tanti, a volte anche due o tre in uno stesso campionato. Nel 1961 oltre al pilota Wuolfgang Von Trips morirono 14 spettatori. Nel 1977 Tom Price investì e uccise con la sua monoposto un commissario di gara che stava attraversando la pista con un estintore, estintore che colpì alla testa il pilota e lo uccise sul colpo.
Il pilota e lo spettatore di motociclismo e Formula 1 sanno che l’incidente fa parte dello sport, che prima o poi capita. Lo spettatore, anzi, con un po’ di cinismo spera che durante la gara si verifichi almeno un incidente, purché senza conseguenze per i piloti, perché fa parte della spettacolarità di questo tipo di sport: le tattiche studiate per ogni situazione, le auto o le moto lanciate a folle velocità, e poi le curve, i sorpassi, i tamponamenti, il fiato sospeso per i tifosi, l’adrenalina a mille per i piloti. È il fascino di sport complessi, in cui la gara è il momento finale di un lavoro di squadra ininterrotto che coinvolge, oltre al pilota, ingegneri, tecnici meccanici. Ma poi in pista scende lui, il pilota, con il suo talento, il suo istinto, il suo sangue freddo e, prima di questo, una buona dose di coraggio e incoscienza. Intanto lo spettatore lo segue ammirato, sceglie il suo preferito, fa il tifo sapendo, nella maggior parte dei casi, che non sarebbe disposto a stare al suo posto, a rischiare deliberatamente la propria vita per un gioco. Il pilota invece è conscio dei rischi che corre, ma questo non gli impedisce di gareggiare.
Mi vengono alla mente le parole di Ambrose Redmoon: “Il coraggio non è l’assenza di paura, ma piuttosto la consapevolezza che c’è qualcosa di più importante della paura”. È la consapevolezza di quel ‘qualcosa in più’ che fa la differenza tra lo spettatore che segue la gara dalla sua comoda poltrona e il pilota che scende in pista. Sapere di non poter comprendere cosa lo spinge a correre e a rischiare lo rende affascinante, ma ci lascia attoniti di fronte alla sua morte. Una morte che non ci aspettavamo e non avremmo mai voluto, perché morire di sport è assurdo, ma è ancora più assurdo veder morire chi non ha avuto paura di rischiare.
A Marco e a tutti quelli che hanno avuto consapevolezza di quel ‘qualcosa di più’
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È presente 1 commento
Ciao daniela,abbiamo stesso nome e cognome.
Comunque bellissime parole,tutto bello!
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