giovedì, novembre 24, 2011
Diluvan è stato costretto a lasciare la Siria 3 anni fa e non sapeva dove sarebbe continuata la sua vita. A dir la verità non sapeva neanche se sarebbe continuata. Il suo lungo viaggio l'ha portato in Svezia...

di Claudia Zichi

Sono passati poco più di due anni dal suo arrivo e Diluvan vive in una casa, frequenta un corso di lingua e riceve uno stipendio mensile (esiguo ma sufficiente per avere un telefono). Ma da quel telefono non può chiamare casa: Diluvan è un rifugiato politico, in Siria è considerato un nemico del regime. La sua accusa? Essere iscritto al Kurdistan Democratic Party of Syria (KDPS), partito fondato nel 1957 e mai riconosciuto dallo stato siriano, nonostante i curdi siano la maggiore minoranza etnica del paese: circa il 10% dell'intera popolazione.

Tre anni fa in Siria frequentava l'ultimo anno di università, facoltà di chimica, e la sera partecipava, una volta a settimana, ad alcuni incontri organizzati dai capi partito locali. Erano incontri innocui, simili agli incontri che si tengono alla sede della Croce Rossa qui a Växjö, la città svedese in cui ora abita. Gli immigrati si sentono meno soli se possono raccontare la loro storia. I curdi hanno una storia da difendere, domande a cui rispondere, un passato da rispettare e un futuro da costruire. Gli incontri studenteschi servivano a questo, nient' altro. Diluvan parla. Parla molto, parla bene, parla anche in una lingua non sua, e si dispiace quando il suo accento arabo lo costringe a volte a ripetere le cose due volte. La parola è potere, lo è in ogni luogo e in ogni circostanza. Forse è per questo che un ragazzo di venticinque anni spaventa così tanto, perché non ha tenuto il silenzio. Eppure non avrebbe mai pensato che la sua vita avrebbe preso questa piega. Un giorno, improvvisamente, il capo partito è misteriosamente sparito. Diluvan all’inizio non voleva dare retta alla sua famiglia che gli consigliava di trasferirsi in un altro villaggio, ma "grazie al nostro Dio lo feci", dice ora.

Alle 4.30 del mattino, qualche giorno dopo la sua partenza, due macchine dell'intelligence siriana si fermano davanti casa sua, vestiti da civili e kalashnikov alla mano, spalancano le porte e lo cercano nei visi dei suoi familiari: "Grazie al nostro Dio hanno chiesto e aspettato che mia sorella si vestisse prima di buttare giù anche la sua porta". Solo allora Diluvan ha iniziato a preoccuparsi. Aspetta ancora qualche settimana, un mese, prova a pagare qualcuno perché il fascicolo venga chiuso. “Magari un'altra volta, non questa”. Dopo due mesi ritornano a casa sua, Diluvan "grazie al nostro Dio" ancora attende altrove. Ormai è chiaro che non può più aspettare. Arriva in Turchia.

Fino al 1965 il confine tra Siria e Turchia era solo sulla carta ma in quell'anno il governo siriano ha deciso di creare una frontiera araba (Hizam Arabi). Un divisorio lungo 300 km, con una profondità di 10-15 km, a est lungo tutto il confine iracheno e a ovest fino a Ras Al-Ain, in Turchia. La realizzazione di questa barriera è iniziata nel 1973 quando beduini arabi cominciarono ad installarsi nelle aree occupate dai curdi. Molti nomi di villaggi furono arabizzati, e molti coltivatori furono costretti a trasferirsi in aree desertiche vicino Al-Raad. Tuttavia molti si rifiutarono di consegnare le proprie abitazioni. Ancora oggi non hanno alcun diritto su di esse: non possono rivendicarne la proprietà né ripararle se fatiscenti né costruirne di nuove.

In Siria i curdi devono ritenersi ed essere ritenuti arabi, in caso contrario sono trattati come clandestini e privati di qualsiasi documento di identità. Chi, ciò nonostante, sceglie di non sottomettersi all'arabizzazione deve fare i conti con una sanità insufficiente, uno scarso livello di educazione e penuria di infrastrutture. Ma a tutto ci si abitua. Oggi però sono divenuti routine quotidiana anche gli arresti, le persecuzioni e le condanne a morte praticate dal governo contro questo popolo.

Dopo il 1961 la Siria è stata dichiarata Repubblica Araba dalla costituzione provvisoria. Nel 1962 il governo ha condotto un censimento speciale della popolazione, solo nella provincia di Al Jazeera, la cui etnia predominante è l'etnia curda: circa 120.000 curdi sono stati arbitrariamente definiti clandestini. Gli abitanti avevano infatti legittimi passaporti siriani ed erano stati convinti a consegnarli all'amministrazione per il rinnovo. L'amministrazione non li ha mai restituiti. A questo punto venne lanciata una campagna mediatica contro i curdi, con slogan come "Save Arabism in Jazira! and Fight the Kurdish threat!". Probabilmente non è un caso che queste politiche coincisero con l'ascesa al potere del partito di Barzani nel Kurdistan iracheno e con la scoperta di pozzi di petrolio nelle zone abitate dai curdi in Siria. Nel giugno del 1963 la Siria partecipò alla campagna contro i curdi, fornendo aerei da combattimento, veicoli armati e un corpo militare composto da 6.000 soldati. Solo la regione autonoma del Kurdistan sembra aver ottenuto oggi una maggiore autonomia, dopo lunghi anni di torture sotto il regime di Saddam.
Sotto il nome di operazioni Anfal, avveniva il genocidio di una nazione: sono stati uccisi più di 182.000 curdi; alcuni bruciati vivi. Più di 4000 villaggi curdi sono stati distrutti tra il 1987 e il 1989. La situazione rimane ancora oggi molto fragile e molto dipende dai cambi politici e dagli interessi delle superpotenze.

Diluvan è riuscito ad arrivare in Svezia partendo dalla Turchia, dove abitano oggi più di venti milioni di curdi, solo 15 milioni secondo i dati ufficiali. Per noi occidentali i contratti sigillano un accordo, mentre da quelle parti è sufficiente avere un telefono: tutto si può concordare tramite cellulare, nessuna garanzia è più fedele della voce. Qualcuno, a turno, amico di un amico, si è preso cura di lui, e in un giorno di febbraio è arrivato all'ufficio immigrazione di Malmoe. Non può rivelare come è arrivato, perché lo rimanderebbero nel primo paese europeo di provenienza, secondo quanto stabilito dalla nuova normativa europea, Dublino II: ogni caso di richiedente asilo deve essere trattato da un solo stato membro.

Diluvan aveva la patente e aveva quasi finito l'università, mentre ora ha davanti sé altri sei anni di studio perché il suo sapere possa essere riconosciuto in Svezia, per espiare la terribile colpa di aver parlato della sua cultura con amici e conoscenti. Aspetta che le cose si sistemino, aspetta che il regime attuale cada: il suo piano è tornare a casa, in Siria. Ma alla fine dei conti forse è stato anche fortunato. Secondo quanto riportato di recente dalle inchieste di Repubblica, da noi in Italia quando un immigrato ottiene lo status di rifugiato politico, la sua domanda d'asilo viene gestita dallo Sprar (Sistema di protezione per richiedenti asilo e rifugiati); lo Sprar ha solo tremila posti a disposizione, quindi riesce a gestire in media seimila rifugiati l'anno: assicurazione di vitto, alloggio e corso di lingua a un rifugiato, ma solo per i primi sei mesi, dopo i quali il malcapitato viene abbandonato a se stesso. Invitato ufficialmente a cavarsela da solo. Cioè illegalmente.
La maggior parte di loro dorme per strada, altri occupano edifici abbandonati senza nessun tipo di comfort (riscaldamento, acqua, eccetera). La conseguenza è che i richiedenti asilo si ritrovano del tutto tagliati fuori dalla società e dalla possibilità di ottenere un riconoscimento legale. Infatti, se mai si liberassero dei posti nei programmi di inserimento, essi non risultano rintracciabili. E senza fissa dimora non possono ottenere assistenza sanitaria, inserimento nelle liste d'impiego, la patente e tutti gli altri servizi. Questi rifugiati politici diventano pressoché “invisibili”.

Nel 2008 in Italia si è raggiunto l'apice di trentunomila domande d'asilo, mentre nel 2009 si è scesi a diciassettemila dopo che gli accordi tra Libia e Italia hanno dirottato gli sbarchi verso la Grecia o li hanno rispediti al mittente, verso le coste nordafricane. Su 11.325 richieste d'asilo esaminate in Italia nel 2010, ben 7.015 (il 62%) hanno ricevuto il diniego. Un problema che è impossibile trascurare. Un problema di dignità dell’uomo.

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