martedì, novembre 29, 2011
I Paesi ricchi “malmenano” quelli poveri?

GreenReport - A differenza della stampa e dell'opinione pubblica italiana, che sembrano molto distratte e disinteressate a quello che accadrà alla Conferenza delle parti dell'United Nations framework convention on climate change (Cop 17 Unfccc) iniziata oggi a Durban, la stampa britannica mette l'evento in prima pagina e dà grande risalto al rapporto "COP 17, Durban - A tipping point for the international climate talks" presentato dall'Ong World development movement (Wdm), secondo il quale «I Paesi ricchi si servono del loro aiuto finanziario come un predellino per malmenare i Paesi in via di sviluppo nei colloqui sul cambiamento climatico».

Il rapporto rivela che i Paesi ricchi avrebbero tenuto riunioni segrete per costringere i paesi poveri ad accettare risultati già predefiniti per Durban. Wdm accusa Usa, Gran Bretagna ed altri Paesi sviluppati di utilizzare «Mezzi ingiusti, non democratici ed anche sleali per deviare a loro favore i negoziati sul cambiamento climatico».

The Guardian, citando il rapporto del Wdm, riporta testimonianze di persone che hanno partecipato ai precedenti summit Unfccc di Copenhagen e Cancun del 2009 e 2010. Alcuni delegati dei Paesi in via di sviluppo si sono lamentati della tattica del «Dividi ed impera» e delle minacce alle quali hanno fatto ricorso i Paesi ricchi, dicendo che non avrebbero dato i finanziamenti promessi ai Paesi poveri a meno che non firmassero accordi che non condividevano.

Da Durban, Kirsty Wright, climate justice campaigner del World development movement, scrive che « A due anni dai colloqui catastrofici che hanno avuto luogo a Copenaghen, ci sono stati pochi progressi su un accordo globale sul cambiamento climatico. Infatti, mentre la scienza richiede un'azione sempre più forte, mentre la vita delle persone è sempre più colpita da eventi climatici estremi, dalle malattie, dalla perdita di coltivazioni e le forniture d'acqua sii riducono a causa dei cambiamenti climatici, gli stessi Paesi ricchi industrializzati che si arricchirono, provocando la crisi, hanno abbassato le loro ambizioni. All'interno dei colloqui, il quadro appare desolante. O Paesi ricchi industrializzati stanno facendo del loro meglio per distruggere l'unico quadro giuridicamente vincolante per la riduzione delle emissioni che esiste, puntando invece a sostituirlo con un "impegno e revisione" volontari del sistema, che i dati attuali suggeriscono porterebbe ad un aumento disastroso della temperatura globale di oltre 5 gradi sopra dei livelli delle temperature pre-industriali. Inoltre, c'è una forte pressione a farla finita con l'idea delle responsabilità storica per i grandi inquinatori, ora riluttanti a ridurre sia le emissioni che a pagare un risarcimento, come concordato quando hanno sottoscritto la convenzione dell'Onu sui cambiamenti climatici».

Anche il Wdm si unisce alla schiera crescente degli scettici e dei contrari al mercato delle quote di CO2: «Il tentativo di espandere ulteriormente i fallimentari carbon market è un chiaro esempio di questo- scrive la Wright, - i Paesi ricchi riconoscono che il commercio come via d'uscita dei cambiamenti climatici offre una "double exit clause": è sia un modo per riuscire a fornire ancora in tempo i fondi che sono stati promessi, mentre allo stesso tempo possono dire di aver ridotto le loro emissioni, semplicemente acquistando carbon credits che scaricano le loro responsabilità di attuare i tagli delle emissioni sui Pesi in via di sviluppo. Ma questo, naturalmente, significa poco in termini di sforzi significativi per affrontare i cambiamenti climatici. Nel frattempo,cresce la preoccupazione che il nuovo Green Climate Fund attualmente in fase di progettazione, che è stato salutato come uno dei successi di Cancun, possa finire per guardare più ad un "Greedy Corporate Fund".

Se il coinvolgimento della screditata ed antidemocratica Banca Mondiale non fosse già abbastanza preoccupante, ora c'è una crescente preoccupazione riguardo alle proposte di una "private sector facility" all'interno del fondo. Se questo andasse avanti, servirebbe inevitabilmente agli interessi delle grandi imprese e del settore finanziario, sovvenzionando le multinazionali e le istituzioni finanziarie, invece delle attività di finanziamento per salvare il pianeta o per fornire alle persone che vivono in povertà i fondi tanto necessari per affrontare il cambiamento climatico».

Ma anche per la Wright c'è speranza: «Una cosa è chiara da quando sono qui, resta un forte e crescente movimento globale per la giustizia climatica. Come un attivista del clima i Gran Bretagna, è giusto dire che nell'ultimo anno si riteneva che l'attenzione si fosse in gran parte spostata lontano dai cambiamenti climatici. Ma in altre parti del mondo in Asia, Africa e America Latina, l'interesse è in crescita e si sta costruendo un forte un movimento unito per la giustizia climatica. Il cambiamento climatico non è visto come un problema a sé stante. Invece, la gente sta guardando al cambiamento climatico come ad un sintomo di un problema più grande e vedendo come la crisi climatica, così come la crisi finanziaria, è un sintomo di un modo di vita insostenibile che ha spinto la crescita infinita su un pianeta finito e a mettere i benefit delle grandi aziende al di sopra della vita delle persone».

Anche Mani Tese interviene sulla Cop 17 di Durban: «Si tratta dell'ultima chance per raggiungere un accordo globale sul rinnovo del Protocollo di Kyoto che, con tutti i limiti del caso, resta l'unico strumento di governance in grado di limitare le emissioni di gas serra e attenuare il riscaldamento globale del pianeta. Le premesse sono tutt'altro che incoraggianti, con Stati Uniti e Giappone apertamente schierati contro il prolungamento dell'accordo multilaterale, la Cina che lo contempla unicamente come leva per assurgere a leader mondiale della Green Economy e l'Europa imbelle, trincerata dietro l'impasse istituzionale della crisi finanziaria». Mani Tese è convinta «Dell'assoluta necessità di siglare a Durban un accordo vincolante che rilanci Kyoto, che stanzi i fondi necessari per le misure di mitigazione e adattamento nel Sud del mondo ed escluda la finanziarizzazione delle risorse naturali come soluzione al cambiamento climatico».

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