Che il clima a Durban non sia dei migliori e che la Cop17 dell'Unfccc sarà probabilmente poco più di un difficoltoso passaggio, lo si può desumere anche dal precoce annuncio, dato della segreteria dell'United Nations framework convention on climate change, che la Cop18 dell'Unfccc e l'ottava riunione delle Parti del Protocollo di Kyoto si terranno nel 2012 in Qatar, proprio nel cuore dei regni petroliferi arabi ostili ad ogni accordo sul clima.
GreenReport - La Corea del sud ospiterà invece una riunione ministeriale preparatoria della Cop18 per definire le questioni centrali prima della conferenza delle Parti in Qatar, esattamente lo stesso percorso di Durban, che evidentemente quelle problematiche si dà per scontato che non le avrà affrontate e risolte. Intanto la Cina si spende per allontanare da sé ogni sospetto di un accordo "pragmatico" sottobanco con gli Stati Uniti (sul modello dell'inconcludente Accordo di Copenhagen) per far fallire Durban, un'ipotesi avanzata oggi anche da Massimo Gaggi sul Corriere della sera nell'articolo "Protocollo di Kyoto al capolinea Il business (forse) salverà l'ambiente" .
La Cina ha organizzato a Pechino un workshop (che durerà fino al 19 dicembre) sui cambiamenti climatici e la cooperazione sud-Sud nei Paesi in via di sviluppo, al quale partecipano 60 delegati dei Paesi meno sviluppati, dei piccoli Stati insulari e dei Paesi Africani, durante il quale Xie Zhenhua, direttore aggiunto della Commissione nazionale per lo sviluppo e la riforma (il governo cinese) ha assicurato che «La Cina sosterrà indefettibilmente gli appelli ragionevoli degli altri Paesi in via di sviluppo sul cambiamento climatico. I Paesi in via di sviluppo sono vittime del cambiamento climatico e noi siamo mobilitati per far fronte a questo problema. La Cina sosterrà gli altri Paesi in via di sviluppo nella lotta contro il cambiamento climatico in diversi settori, quali la costruzione delle infrastrutture e la promozione tecnologica. Rafforzerà le sue comunicazioni con gli altri Paesi in via di sviluppo per ottenere un risultato positivo durante la conferenza sul cambiamento climatico che si tiene attualmente a Durban». Il vice-ministro cinese al commercio, Li Jinzao, ha rivendicato il fatto che ««In questi ultimi anni, la Cina ha fornito il suo aiuto ai Paesi in via di sviluppo nel loro adattamento al cambiamento climatico, principalmente attraverso il commercio e gli investimenti verdi, la cooperazione nella tecnologia ecologica, dei progetti di energia pulita e la formazione delle risorse umane».
Anche se ieri a Durban la delegazione cinese ha confermato a nome del Basic (Brasile, India Sudafrica, Cina) il pieno sostegno alla prosecuzione del Protocollo di Kyoto, dato già per defunto da Usa, Giappone e Canada e per moribondo da Ue ed Australia, il sospetto di una pastetta tra i due più grandi emettitori di gas serra del pianeta, di una specie di teatrino tra Cina e Usa, che capeggiano gli schieramenti contrapposti per impedire un accordo sul clima in tempo di crisi economica galoppante, è sempre più forte.
Uno dei primi ad avanzare questa ipotesi è sto Jean Paul Maréchal, un economista dell'università francese di Rennes, nel suo libro "Chine/USA, le climat en jeu", che analizza questa situazione economico-politica, che vede protagonista quello che chiama il "G2" e che condizionerebbe i negoziati sul clima. In una recente intervista a Novethic, Maréchal spiega che «Prima, bisogna precisare che anche se io utilizzo questa espressione nel mio libro, il "G2" è una denominazione esterna che la Cina rifiuta. Una volta fatto questo, possiamo dire che il "G2" è diventato importante da circa 3 anni, a partire dal momento in cui la Cina è diventata la terza e poi la seconda economia mondiale, mentre parallelamente diventava il primo emettitore mondiale di gas serra, davanti agli Usa, e che si cominciava a prevedere il proseguimento del Protocollo di Kyoto che giungerà alla sua conclusione nel 2012. Questo ha considerevolmente cambiato i dati, perché all'epoca della messa in atto di quest'ultimo, la Cina, che aveva ratificato il Protocollo, non era nell'Annesso 1 e quindi non era sottoposta all'obbligo di riduzioni. Contava molto meno di oggi per le emissioni di gas serra (2,2 miliardi di tonnellate contro i 4,8 miliardi degli Usa nel 1990 ed I 6,5 della Cina contro i 5,5 per gli Usa di oggi). Gli Usa non avevano ratificato il protocollo all'epoca e non contano di farlo oggi».
Con un'economia mondiale dominata da due Paesi ad uno stadio economico molto diverso, un caso assolutamente nuovo dall'inizio della rivoluzione industriale, Usa e Cina si trovano ad essere sia rivali che interdipendenti e secondo l'economista francese «I cinesi hanno bisogno dei consumatori americani ed i consumatori americani della Cina per finanziare il loro credito. Questa situazione interdipendente conduce al fatto che il clima è stato preso in ostaggio dal G2. Nessuna soluzione sostenibile è pensabile senza l'impegno degli Usa e della Cina, che rappresentano il 40% delle emissioni di gas serra mondiali. Allo stesso tempo, nessuno dei due ha interesse a muoversi se l'altro non si muove. E se non partono, nessuno sembra pronto a muoversi. E' quel che in economia si chiama il dilemma del prigioniero».
Questo non significa che statunitensi e cinesi non facciano niente per ridurre il loro inquinamento, soprattutto in Cina, dove si parla di 50.000 manifestazioni di protesta ogni anno strettamente legate a problemi ambientali, «Però - dice Maréchal - se i cinesi sono molto pronti a spiegare che vogliono migliorare la loro intensità energetica, bisogna anche capire che si tratta semplicemente di buon senso economico e che questo si verifica in tutti i Paesi che si industrializzano, anche se viene fatto meno rapidamente che in Cina. Il previsto miglioramento della loro intensità energetica (-17% entro il 2015) non è commisurato all'aumento del Pil (moltiplicato per 4 entro 20 anni). Ora, quello che ha impatto sul clima è l'emissione del volume di CO2. Quanto agli Usa, vediamo emergere quel che qualcuno chiama "federalismo climatico", con la messa in atto di misure di efficienza energetica o di riduzione delle emissioni in grandi municipalità come New York o in Stati come la California ma anche l'Arizona».
Questa "alleanza di fatto" sembra aver stretto in mezzo l'Europa ed i suoi virtuosi impegni di riduzione delle emissioni infatti, anche se l'Ue rappresenta un terzo delle emissioni mondiali, «Bisogna sapere che in questo tipo di negoziati chi ha più potere è chi è il meno esemplare - spiega amaramente Maréchal - La posizione dell'Europa è diventata complicata per diverse ragioni. All'inizio, se la sua strategia è stata coronata da successo negli anni 2000, è perché si inscriveva nel Protocollo di Kyoto e perché la ratifica russa nel 2005 aveva permesso che quello acquisisse un valore vincolante. All'epoca gli Usa erano isolati. Ma oggi il dato è cambiato: mentre di tratta di mettersi d'accordo su un nuovo testo internazionale, né la Cina né gli Usa vogliono legarsi le mani con un testo vincolante. Di fronte a questa situazione, un certo numero di grandi Paesi, come il Giappone, il Canada e la Russia hanno già annunciato che, in questo caso, non si impegneranno in un secondo periodo. Aggiungiamo a questo che siamo in un contesto di crisi e che gli obiettivi di riduzione devono essere molto più importanti di 5 anni fa: nel Protocollo di Kyoto, si trattava di abbassare le emissioni del 5,2% nel 2012 in rapporto a quelle del 1990, il che non era irraggiungibile. La prova è che l'Europa l'ha fatto. Qui si tratta di dividerle per 4 o per 5 entro qualche decennio, non è affatto lo stesso ordine di grandezza».
Inoltre anche la retorica cinese sulle responsabilità comune ma differenziata mostra la corda, Maréchal fa notare che le emissioni pro-capite cinesi (6,8 tonnellate/persona) sono superiori a quelle francesi (5,9 t/persona), «Anche in un quadro di giustizia internazionale, la Cina non può quindi nascondersi dietro questo argomento. E in queste condizioni perché uno "smicard" (Salaire miniminum interprofessionnel de croissance) francese dovrebbe pagare l'aggiustamento climatico e un miliardario cinese no?».
Per quanto riguarda la Cop17 Unfccc di Durban l'economista francese non nutre grandi speranze: «Bisogna rendersi conto che la questione climatica non è, nelle relazioni sino-americane, che un elemento di negoziato tra ben altri (la moneta, l'influenza cinese nel Mar della Cina, ecc.). Non è né il più importante, né il più urgente. Così, dopo Copenhagen, dove gli Usa si sono sentiti umiliati dalla Cina, l'amministrazione americana ha ricevuto il Dalaï Lama alla Casa Bianca ed autorizzato, nelle settimane seguenti, l'esportazione di materiale militare di punta a Taïwan. Inoltre, il calendario politico aggiunge difficoltà a questi negoziati: non credo che Obama si impegnerà in qualcosa prima delle elezioni presidenziali del 2012 e anche la Cina, dove ci si sta preparando ad un rinnovamento del governo...».
GreenReport - La Corea del sud ospiterà invece una riunione ministeriale preparatoria della Cop18 per definire le questioni centrali prima della conferenza delle Parti in Qatar, esattamente lo stesso percorso di Durban, che evidentemente quelle problematiche si dà per scontato che non le avrà affrontate e risolte. Intanto la Cina si spende per allontanare da sé ogni sospetto di un accordo "pragmatico" sottobanco con gli Stati Uniti (sul modello dell'inconcludente Accordo di Copenhagen) per far fallire Durban, un'ipotesi avanzata oggi anche da Massimo Gaggi sul Corriere della sera nell'articolo "Protocollo di Kyoto al capolinea Il business (forse) salverà l'ambiente" .
La Cina ha organizzato a Pechino un workshop (che durerà fino al 19 dicembre) sui cambiamenti climatici e la cooperazione sud-Sud nei Paesi in via di sviluppo, al quale partecipano 60 delegati dei Paesi meno sviluppati, dei piccoli Stati insulari e dei Paesi Africani, durante il quale Xie Zhenhua, direttore aggiunto della Commissione nazionale per lo sviluppo e la riforma (il governo cinese) ha assicurato che «La Cina sosterrà indefettibilmente gli appelli ragionevoli degli altri Paesi in via di sviluppo sul cambiamento climatico. I Paesi in via di sviluppo sono vittime del cambiamento climatico e noi siamo mobilitati per far fronte a questo problema. La Cina sosterrà gli altri Paesi in via di sviluppo nella lotta contro il cambiamento climatico in diversi settori, quali la costruzione delle infrastrutture e la promozione tecnologica. Rafforzerà le sue comunicazioni con gli altri Paesi in via di sviluppo per ottenere un risultato positivo durante la conferenza sul cambiamento climatico che si tiene attualmente a Durban». Il vice-ministro cinese al commercio, Li Jinzao, ha rivendicato il fatto che ««In questi ultimi anni, la Cina ha fornito il suo aiuto ai Paesi in via di sviluppo nel loro adattamento al cambiamento climatico, principalmente attraverso il commercio e gli investimenti verdi, la cooperazione nella tecnologia ecologica, dei progetti di energia pulita e la formazione delle risorse umane».
Anche se ieri a Durban la delegazione cinese ha confermato a nome del Basic (Brasile, India Sudafrica, Cina) il pieno sostegno alla prosecuzione del Protocollo di Kyoto, dato già per defunto da Usa, Giappone e Canada e per moribondo da Ue ed Australia, il sospetto di una pastetta tra i due più grandi emettitori di gas serra del pianeta, di una specie di teatrino tra Cina e Usa, che capeggiano gli schieramenti contrapposti per impedire un accordo sul clima in tempo di crisi economica galoppante, è sempre più forte.
Uno dei primi ad avanzare questa ipotesi è sto Jean Paul Maréchal, un economista dell'università francese di Rennes, nel suo libro "Chine/USA, le climat en jeu", che analizza questa situazione economico-politica, che vede protagonista quello che chiama il "G2" e che condizionerebbe i negoziati sul clima. In una recente intervista a Novethic, Maréchal spiega che «Prima, bisogna precisare che anche se io utilizzo questa espressione nel mio libro, il "G2" è una denominazione esterna che la Cina rifiuta. Una volta fatto questo, possiamo dire che il "G2" è diventato importante da circa 3 anni, a partire dal momento in cui la Cina è diventata la terza e poi la seconda economia mondiale, mentre parallelamente diventava il primo emettitore mondiale di gas serra, davanti agli Usa, e che si cominciava a prevedere il proseguimento del Protocollo di Kyoto che giungerà alla sua conclusione nel 2012. Questo ha considerevolmente cambiato i dati, perché all'epoca della messa in atto di quest'ultimo, la Cina, che aveva ratificato il Protocollo, non era nell'Annesso 1 e quindi non era sottoposta all'obbligo di riduzioni. Contava molto meno di oggi per le emissioni di gas serra (2,2 miliardi di tonnellate contro i 4,8 miliardi degli Usa nel 1990 ed I 6,5 della Cina contro i 5,5 per gli Usa di oggi). Gli Usa non avevano ratificato il protocollo all'epoca e non contano di farlo oggi».
Con un'economia mondiale dominata da due Paesi ad uno stadio economico molto diverso, un caso assolutamente nuovo dall'inizio della rivoluzione industriale, Usa e Cina si trovano ad essere sia rivali che interdipendenti e secondo l'economista francese «I cinesi hanno bisogno dei consumatori americani ed i consumatori americani della Cina per finanziare il loro credito. Questa situazione interdipendente conduce al fatto che il clima è stato preso in ostaggio dal G2. Nessuna soluzione sostenibile è pensabile senza l'impegno degli Usa e della Cina, che rappresentano il 40% delle emissioni di gas serra mondiali. Allo stesso tempo, nessuno dei due ha interesse a muoversi se l'altro non si muove. E se non partono, nessuno sembra pronto a muoversi. E' quel che in economia si chiama il dilemma del prigioniero».
Questo non significa che statunitensi e cinesi non facciano niente per ridurre il loro inquinamento, soprattutto in Cina, dove si parla di 50.000 manifestazioni di protesta ogni anno strettamente legate a problemi ambientali, «Però - dice Maréchal - se i cinesi sono molto pronti a spiegare che vogliono migliorare la loro intensità energetica, bisogna anche capire che si tratta semplicemente di buon senso economico e che questo si verifica in tutti i Paesi che si industrializzano, anche se viene fatto meno rapidamente che in Cina. Il previsto miglioramento della loro intensità energetica (-17% entro il 2015) non è commisurato all'aumento del Pil (moltiplicato per 4 entro 20 anni). Ora, quello che ha impatto sul clima è l'emissione del volume di CO2. Quanto agli Usa, vediamo emergere quel che qualcuno chiama "federalismo climatico", con la messa in atto di misure di efficienza energetica o di riduzione delle emissioni in grandi municipalità come New York o in Stati come la California ma anche l'Arizona».
Questa "alleanza di fatto" sembra aver stretto in mezzo l'Europa ed i suoi virtuosi impegni di riduzione delle emissioni infatti, anche se l'Ue rappresenta un terzo delle emissioni mondiali, «Bisogna sapere che in questo tipo di negoziati chi ha più potere è chi è il meno esemplare - spiega amaramente Maréchal - La posizione dell'Europa è diventata complicata per diverse ragioni. All'inizio, se la sua strategia è stata coronata da successo negli anni 2000, è perché si inscriveva nel Protocollo di Kyoto e perché la ratifica russa nel 2005 aveva permesso che quello acquisisse un valore vincolante. All'epoca gli Usa erano isolati. Ma oggi il dato è cambiato: mentre di tratta di mettersi d'accordo su un nuovo testo internazionale, né la Cina né gli Usa vogliono legarsi le mani con un testo vincolante. Di fronte a questa situazione, un certo numero di grandi Paesi, come il Giappone, il Canada e la Russia hanno già annunciato che, in questo caso, non si impegneranno in un secondo periodo. Aggiungiamo a questo che siamo in un contesto di crisi e che gli obiettivi di riduzione devono essere molto più importanti di 5 anni fa: nel Protocollo di Kyoto, si trattava di abbassare le emissioni del 5,2% nel 2012 in rapporto a quelle del 1990, il che non era irraggiungibile. La prova è che l'Europa l'ha fatto. Qui si tratta di dividerle per 4 o per 5 entro qualche decennio, non è affatto lo stesso ordine di grandezza».
Inoltre anche la retorica cinese sulle responsabilità comune ma differenziata mostra la corda, Maréchal fa notare che le emissioni pro-capite cinesi (6,8 tonnellate/persona) sono superiori a quelle francesi (5,9 t/persona), «Anche in un quadro di giustizia internazionale, la Cina non può quindi nascondersi dietro questo argomento. E in queste condizioni perché uno "smicard" (Salaire miniminum interprofessionnel de croissance) francese dovrebbe pagare l'aggiustamento climatico e un miliardario cinese no?».
Per quanto riguarda la Cop17 Unfccc di Durban l'economista francese non nutre grandi speranze: «Bisogna rendersi conto che la questione climatica non è, nelle relazioni sino-americane, che un elemento di negoziato tra ben altri (la moneta, l'influenza cinese nel Mar della Cina, ecc.). Non è né il più importante, né il più urgente. Così, dopo Copenhagen, dove gli Usa si sono sentiti umiliati dalla Cina, l'amministrazione americana ha ricevuto il Dalaï Lama alla Casa Bianca ed autorizzato, nelle settimane seguenti, l'esportazione di materiale militare di punta a Taïwan. Inoltre, il calendario politico aggiunge difficoltà a questi negoziati: non credo che Obama si impegnerà in qualcosa prima delle elezioni presidenziali del 2012 e anche la Cina, dove ci si sta preparando ad un rinnovamento del governo...».
di Umberto Mazzantini
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