Tradizioni rispettate nel chiuso delle case e delle chiese. Alberi addobbati e presepi nascosti da spesse tende alle finestre. La Santa Messa di giorno per motivi di sicurezza. La costante paura nel cuore e la fede incrollabile.
Il segretariato italiano di Aiuto alla Chiesa che Soffre dedica la sua annuale campagna natalizia ai cristiani iracheni e racconta il loro «Natale sotto assedio» attraverso le testimonianze di vescovi, parroci e semplici fedeli.
«Ogni iracheno lascerebbe il Paese se solo ne avesse la possibilità» afferma don Robert Jarjis, parroco di “Santa Maria Assunta in Cielo” a Bagdad. La situazione è drammatica per tutti ma per un cristiano la vita è insostenibile. All’inizio della guerra la comunità contava un milione e duecentomila fedeli, oggi appena trecentomila. Chi ha potuto è emigrato in America e in Europa oppure in Libano, Siria, Turchia e Giordania.
Chi aveva poche disponibilità economiche ha cercato un po’ di tranquillità nel Nord iracheno: in Kurdistan o nella piana delle Ninive. Chi è rimasto non ha nulla e convive quotidianamente con la paura e l’incertezza. «I fedeli sono continuamente derubati delle loro terre, del loro denaro, vengono uccisi e le donne violentate. E molti sono disoccupati perché nessuno è disposto ad assumere un cristiano» racconta monsignor Yousif Mansur Abba, arcivescovo di Bagdad dei Siri. E Joseph Kassab, presidente della Federazione dei Caldei d’America, spiega che «i nostri valori cristiani, quali il perdono e il rifiuto della violenza, ci rendono facili obiettivi per gli estremisti».
Molti negozi cristiani sono stati saccheggiati o distrutti dai fondamentalisti che pretendono il pagamento della jizya, la tassa imposta dalla maggioranza islamica ai non musulmani durante l’impero ottomano e reintrodotta dalle milizie islamiche. E le pressioni hanno costretto i negozianti a rimuovere qualsiasi icona o simbolo della propria fede. Il timore di uscire da casa è forte e sono in molti a rinunciare alla Messa domenicale. «Un cristiano in strada è facilmente identificabile» fa notare monsignor Amel Nona, vescovo caldeo di Mosul. Alcune donne indossano perfino un foulard per confondersi tra gli hijàb delle musulmane.
La tensione aumenta e la situazione degenera quando dall’Occidente giungono voci di critiche all’Islam. «Ogni volta – dice ad ACS-Italia monsignor Georges Casmoussa, arcivescovo emerito di Mosul dei Siri – i gruppi estremisti si servono di questi pretesti: ci identificano con gli occidentali e sfogano su di noi la loro rabbia». Monsignor Jean Benjamin Sleiman, arcivescovo di Bagdad dei Latini, riferisce alla Fondazione pontificia che in alcune zone le condizioni di vita dei cristiani sono piuttosto tranquille, ma fuori da queste «isole di convivenza» i fedeli sono considerati dhimmi e quindi giuridicamente e socialmente inferiori.
Nel 2010 il Natale è stato segnato dal tragico attentato del 31 ottobre nella Chiesa di Saydat-al-Najat (Nostra Signora della Salvezza) a Bagdad. «Quel giorno ci hanno colpiti – racconta padre Rufail Qutaimi, vicario emerito della cattedrale siro-cattolica sopravvissuto alla strage - ma la persecuzione ha rafforzato la nostra fede». E come lo scorso anno - nonostante l’esodo continui a decimare la comunità - i cristiani iracheni parteciperanno coraggiosamente alle celebrazioni liturgiche, tutte di giorno per maggiore sicurezza. Ma come sempre sarà un Natale dimesso, che non attiri troppo l’attenzione.
«Oltre alla Messa di mezzanotte - spiega monsignor Luis Sako, arcivescovo di Kirkuk dei Caldei – anche le grandi feste con amici e familiari sono ormai sogni irrealizzabili». Le tradizioni natalizie sono onorate, ma nel chiuso delle case e delle chiese e il tipico falò del 25 dicembre è rispettato solo dalle parrocchie con un cortile interno. Nelle proprie cucine – riferisce don Aysar Saeed, sacerdote della diocesi di Bagdad dei Siri - le donne irachene cucinano ancora i piatti tradizionali e sfornano i kleicha, i tipici dolci ripieni di datteri che si mangiano esclusivamente nelle festività. E le famiglie continuano ad addobbare l’albero e allestire il presepe, ma sempre con le dovute cautele. Perché come racconta Seif, giovane ingegnere informatico della parrocchia Santa Maria Assunta in Cielo di Bagdad, «In Iraq per festeggiare il Natale devi prima chiudere bene la porta».
Intervistato dalla Fondazione pontificia, il nunzio apostolico monsignor Giorgio Lingua afferma che «i cristiani iracheni soffrono la loro impotenza, ma la loro speranza non si spegne». E dalle testimonianze raccolte da ACS-Italia questa speranza emerge con forza assieme ad una fede incrollabile, malgrado l’insicurezza e l’incertezza. Padre Amir Jaje, superiore dei Domenicani di Bagdad e vicario provinciale per il mondo arabo, la paragona ad una piccola candela che, seppur flebilmente, continua a bruciare in un tunnel buio. «E il nostro Natale è credere in questa speranza».
Il segretariato italiano di Aiuto alla Chiesa che Soffre dedica la sua annuale campagna natalizia ai cristiani iracheni e racconta il loro «Natale sotto assedio» attraverso le testimonianze di vescovi, parroci e semplici fedeli.
«Ogni iracheno lascerebbe il Paese se solo ne avesse la possibilità» afferma don Robert Jarjis, parroco di “Santa Maria Assunta in Cielo” a Bagdad. La situazione è drammatica per tutti ma per un cristiano la vita è insostenibile. All’inizio della guerra la comunità contava un milione e duecentomila fedeli, oggi appena trecentomila. Chi ha potuto è emigrato in America e in Europa oppure in Libano, Siria, Turchia e Giordania.
Chi aveva poche disponibilità economiche ha cercato un po’ di tranquillità nel Nord iracheno: in Kurdistan o nella piana delle Ninive. Chi è rimasto non ha nulla e convive quotidianamente con la paura e l’incertezza. «I fedeli sono continuamente derubati delle loro terre, del loro denaro, vengono uccisi e le donne violentate. E molti sono disoccupati perché nessuno è disposto ad assumere un cristiano» racconta monsignor Yousif Mansur Abba, arcivescovo di Bagdad dei Siri. E Joseph Kassab, presidente della Federazione dei Caldei d’America, spiega che «i nostri valori cristiani, quali il perdono e il rifiuto della violenza, ci rendono facili obiettivi per gli estremisti».
Molti negozi cristiani sono stati saccheggiati o distrutti dai fondamentalisti che pretendono il pagamento della jizya, la tassa imposta dalla maggioranza islamica ai non musulmani durante l’impero ottomano e reintrodotta dalle milizie islamiche. E le pressioni hanno costretto i negozianti a rimuovere qualsiasi icona o simbolo della propria fede. Il timore di uscire da casa è forte e sono in molti a rinunciare alla Messa domenicale. «Un cristiano in strada è facilmente identificabile» fa notare monsignor Amel Nona, vescovo caldeo di Mosul. Alcune donne indossano perfino un foulard per confondersi tra gli hijàb delle musulmane.
La tensione aumenta e la situazione degenera quando dall’Occidente giungono voci di critiche all’Islam. «Ogni volta – dice ad ACS-Italia monsignor Georges Casmoussa, arcivescovo emerito di Mosul dei Siri – i gruppi estremisti si servono di questi pretesti: ci identificano con gli occidentali e sfogano su di noi la loro rabbia». Monsignor Jean Benjamin Sleiman, arcivescovo di Bagdad dei Latini, riferisce alla Fondazione pontificia che in alcune zone le condizioni di vita dei cristiani sono piuttosto tranquille, ma fuori da queste «isole di convivenza» i fedeli sono considerati dhimmi e quindi giuridicamente e socialmente inferiori.
Nel 2010 il Natale è stato segnato dal tragico attentato del 31 ottobre nella Chiesa di Saydat-al-Najat (Nostra Signora della Salvezza) a Bagdad. «Quel giorno ci hanno colpiti – racconta padre Rufail Qutaimi, vicario emerito della cattedrale siro-cattolica sopravvissuto alla strage - ma la persecuzione ha rafforzato la nostra fede». E come lo scorso anno - nonostante l’esodo continui a decimare la comunità - i cristiani iracheni parteciperanno coraggiosamente alle celebrazioni liturgiche, tutte di giorno per maggiore sicurezza. Ma come sempre sarà un Natale dimesso, che non attiri troppo l’attenzione.
«Oltre alla Messa di mezzanotte - spiega monsignor Luis Sako, arcivescovo di Kirkuk dei Caldei – anche le grandi feste con amici e familiari sono ormai sogni irrealizzabili». Le tradizioni natalizie sono onorate, ma nel chiuso delle case e delle chiese e il tipico falò del 25 dicembre è rispettato solo dalle parrocchie con un cortile interno. Nelle proprie cucine – riferisce don Aysar Saeed, sacerdote della diocesi di Bagdad dei Siri - le donne irachene cucinano ancora i piatti tradizionali e sfornano i kleicha, i tipici dolci ripieni di datteri che si mangiano esclusivamente nelle festività. E le famiglie continuano ad addobbare l’albero e allestire il presepe, ma sempre con le dovute cautele. Perché come racconta Seif, giovane ingegnere informatico della parrocchia Santa Maria Assunta in Cielo di Bagdad, «In Iraq per festeggiare il Natale devi prima chiudere bene la porta».
Intervistato dalla Fondazione pontificia, il nunzio apostolico monsignor Giorgio Lingua afferma che «i cristiani iracheni soffrono la loro impotenza, ma la loro speranza non si spegne». E dalle testimonianze raccolte da ACS-Italia questa speranza emerge con forza assieme ad una fede incrollabile, malgrado l’insicurezza e l’incertezza. Padre Amir Jaje, superiore dei Domenicani di Bagdad e vicario provinciale per il mondo arabo, la paragona ad una piccola candela che, seppur flebilmente, continua a bruciare in un tunnel buio. «E il nostro Natale è credere in questa speranza».
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È presente 1 commento
l'occidente opulento (ops..ex..) ha da sempre abbandonato i cristiani d'oriente alla loro sorte, annullati dalla montante marea islamico-fondamentalista... bisognerebbe organizzare gli ultimi cristiani in comunità di autodifesa passiva...ma dubito che a qualcuno stia a cuore tale realtà, anche perchè no ci sono idrocarburi da sfruttare,,eh eh
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