Tanti auguri e stupende cartoline di augurio in questi giorni, dall’Italia e dalla Francia: ciò ha rallegrato e inquietato, allo stesso tempo...
L’augurio è sempre qualcosa di bello e di grande che accompagna un avvenimento, lo rende esplicito, lo fa particolare, accompagnando il vostro stesso modo di viverlo. Dall’Italia erano auguri dipinti in gran parte con la tavolozza della nostra tipica sensibilità culturale: auguri dal registro poetico ampio, arioso, astratto, un po’ retorico. Dalla Francia, invece, un augurio sempre accompagnato da qualche riga veloce di riassunto di ciò che il mittente ultimamente ha vissuto: occasione di una rapida e amichevole condivisione, di rinfrescare la memoria, i legami di vita, oltre che il cuore.
Per la nostra terra italiana - un mondo, forse, diventato prosaico e duro da vivere - un’oasi di poesia si rivela benefica. Tuttavia, ormai immerso in un mondo inglese, un popolo di mare attento ai dettagli e alla loro concretezza, mi sento più sensibile a qualcosa di “ancorato alla realtà”. Non tanto all’astrattezza della poesia che inebria e si inserisce nella vita come una parentesi.
Così, vi trovavo l’augurio di serenità e di pace, valori eterni che scendono quasi dal cielo, come la cometa sulla grotta. Nessuno, invece, si chinava e trovava il tempo di raccogliere da una vita diventata ormai una sfida l’augurio di coraggio, di fiducia e speranza da ritrovare. Un augurio vero, in fondo, che ossigeni e incoraggi... Quello poetico accarezza l’animo e dura un istante.
Il Natale, d’altronde, contiene la vera rivoluzione copernicana della religione cristiana. Una originalità assoluta nel campo delle religioni. Dio non è solo apparso fuggitivamente, ma si è rivestito del corpo stesso dell’uomo, per viverne intensamente e interamente l’esistenza. Mistero dell’incarnazione. Una sacralità inverosimile del corpo umano viene qui esaltata e grida vendetta di fronte ai nostri modi abituali di comportamento.
Trovandomi quest’estate nel Maghreb, chiedevo a dei giovani perchè le donne musulmane si vestono così tanto da far affiorare a volte solo due bei occhi neri. La loro risposta fu una domanda impertinente, ma seria: “E perchè la vostra cultura cristiana le espone in pubblico svestite o nude come animali?”. Proveniente dall’islam - dove non esiste la sacralità del corpo umano e del mistero dell’amore - l’interrogativo mi coglieva di sorpresa. Per noi, questo è uno dei messaggi capitali del Natale, il suo augurio più vero: il corpo umano santificato. Se si guarda a partire dall’altra sponda del Mediterraneo, la decadenza e la corruzione del senso sacro della nostra corporeità appaiono qui flagranti. Basta ricordare l’ultima stagione politica italiana e la leggerezza al proposito, nonchè la sorprendente imperturbabilità di tanti. Imparare a leggere il mistero di Dio con gli occhi puntati sulla realtà vissuta (e la sua distanza, a volte infinita, da quello) è fondamentale.
Un’altra festa, un altro mistero è l’Epifania. Suggerisce la forza straordinaria del messaggio di condivisione vissuto dagli stranieri. «Ma, allora, i re magi siamo noi!» esclamano sempre orgogliosi i nostri emigrati italiani, appena terminata la messa. Come per una rivelazione improvvisa, traducono in termini quotidiani, spiccioli, con personaggi nostrani la dinamica dei re magi. Venire da lontano, trovarsi perduto, condividere ciò che si ha di più caro, di tipico o di prezioso, ammirare la vita in qualcosa di povero, di dignitoso e di essenziale incontrato. Infine, essere un re nel proprio paese, ridursi a un nomade nella terra degli altri...
I nostri emigranti italiani all’estero, è vero, sono dei re magi in carne e ossa per questa terra straniera, travestiti tuttavia da pastori: quante umiliazioni agli inizi! «È stata la nostra guerra di resistenza!», commenta Umberto, sulla settantina, con un mezzo sorriso da vecchio combattente. “Quando incontri un uomo lo giudichi dai vestiti, quando te ne separi lo giudichi dal cuore», recita qui un vecchio proverbio. All’addio ad ogni emigrante, infatti, nella sua messa di funerale, sono tanti i volti inglesi che compaiono d’incanto in chiesa: hanno capito che questi emigranti hanno condiviso qui la giovinezza, i figli, le energie migliori, grandi qualità morali e un bel pezzo di vita. Tesori aperti e condivisi con un popolo all’inizio sconosciuto.
Il Paese è cresciuto con loro e attraverso di loro: hanno fatto cose prodigiose, umilmente, con tenacia e pazienza: per questo la loro preghiera migliore è il canto del magnificat. “Se ne accorgono in patria i nostri italiani - a volte si domandano – quando pensano a chi vive oggi la nostra stessa sorte di emigranti di una volta?”. Per questo, l’Epifania è la nostra festa. Ma anche l’augurio più vero agli italiani rimasti laggiù.
L’augurio è sempre qualcosa di bello e di grande che accompagna un avvenimento, lo rende esplicito, lo fa particolare, accompagnando il vostro stesso modo di viverlo. Dall’Italia erano auguri dipinti in gran parte con la tavolozza della nostra tipica sensibilità culturale: auguri dal registro poetico ampio, arioso, astratto, un po’ retorico. Dalla Francia, invece, un augurio sempre accompagnato da qualche riga veloce di riassunto di ciò che il mittente ultimamente ha vissuto: occasione di una rapida e amichevole condivisione, di rinfrescare la memoria, i legami di vita, oltre che il cuore.
Per la nostra terra italiana - un mondo, forse, diventato prosaico e duro da vivere - un’oasi di poesia si rivela benefica. Tuttavia, ormai immerso in un mondo inglese, un popolo di mare attento ai dettagli e alla loro concretezza, mi sento più sensibile a qualcosa di “ancorato alla realtà”. Non tanto all’astrattezza della poesia che inebria e si inserisce nella vita come una parentesi.
Così, vi trovavo l’augurio di serenità e di pace, valori eterni che scendono quasi dal cielo, come la cometa sulla grotta. Nessuno, invece, si chinava e trovava il tempo di raccogliere da una vita diventata ormai una sfida l’augurio di coraggio, di fiducia e speranza da ritrovare. Un augurio vero, in fondo, che ossigeni e incoraggi... Quello poetico accarezza l’animo e dura un istante.
Il Natale, d’altronde, contiene la vera rivoluzione copernicana della religione cristiana. Una originalità assoluta nel campo delle religioni. Dio non è solo apparso fuggitivamente, ma si è rivestito del corpo stesso dell’uomo, per viverne intensamente e interamente l’esistenza. Mistero dell’incarnazione. Una sacralità inverosimile del corpo umano viene qui esaltata e grida vendetta di fronte ai nostri modi abituali di comportamento.
Trovandomi quest’estate nel Maghreb, chiedevo a dei giovani perchè le donne musulmane si vestono così tanto da far affiorare a volte solo due bei occhi neri. La loro risposta fu una domanda impertinente, ma seria: “E perchè la vostra cultura cristiana le espone in pubblico svestite o nude come animali?”. Proveniente dall’islam - dove non esiste la sacralità del corpo umano e del mistero dell’amore - l’interrogativo mi coglieva di sorpresa. Per noi, questo è uno dei messaggi capitali del Natale, il suo augurio più vero: il corpo umano santificato. Se si guarda a partire dall’altra sponda del Mediterraneo, la decadenza e la corruzione del senso sacro della nostra corporeità appaiono qui flagranti. Basta ricordare l’ultima stagione politica italiana e la leggerezza al proposito, nonchè la sorprendente imperturbabilità di tanti. Imparare a leggere il mistero di Dio con gli occhi puntati sulla realtà vissuta (e la sua distanza, a volte infinita, da quello) è fondamentale.
Un’altra festa, un altro mistero è l’Epifania. Suggerisce la forza straordinaria del messaggio di condivisione vissuto dagli stranieri. «Ma, allora, i re magi siamo noi!» esclamano sempre orgogliosi i nostri emigrati italiani, appena terminata la messa. Come per una rivelazione improvvisa, traducono in termini quotidiani, spiccioli, con personaggi nostrani la dinamica dei re magi. Venire da lontano, trovarsi perduto, condividere ciò che si ha di più caro, di tipico o di prezioso, ammirare la vita in qualcosa di povero, di dignitoso e di essenziale incontrato. Infine, essere un re nel proprio paese, ridursi a un nomade nella terra degli altri...
I nostri emigranti italiani all’estero, è vero, sono dei re magi in carne e ossa per questa terra straniera, travestiti tuttavia da pastori: quante umiliazioni agli inizi! «È stata la nostra guerra di resistenza!», commenta Umberto, sulla settantina, con un mezzo sorriso da vecchio combattente. “Quando incontri un uomo lo giudichi dai vestiti, quando te ne separi lo giudichi dal cuore», recita qui un vecchio proverbio. All’addio ad ogni emigrante, infatti, nella sua messa di funerale, sono tanti i volti inglesi che compaiono d’incanto in chiesa: hanno capito che questi emigranti hanno condiviso qui la giovinezza, i figli, le energie migliori, grandi qualità morali e un bel pezzo di vita. Tesori aperti e condivisi con un popolo all’inizio sconosciuto.
Il Paese è cresciuto con loro e attraverso di loro: hanno fatto cose prodigiose, umilmente, con tenacia e pazienza: per questo la loro preghiera migliore è il canto del magnificat. “Se ne accorgono in patria i nostri italiani - a volte si domandano – quando pensano a chi vive oggi la nostra stessa sorte di emigranti di una volta?”. Per questo, l’Epifania è la nostra festa. Ma anche l’augurio più vero agli italiani rimasti laggiù.
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