E’ da qualche giorno entrato il 2012 e sembra quasi che, terminato l’anno vecchio, siano cessati con esso i dibattiti sull’ondata di rivolte che ha caratterizzato e modificato la geopolitica del mondo nord-africano, mediorientale e non solo.
di Mariangela Laviano, arabista
Ci si domanda dove sia finita la “primavera araba”. Ma poi, è veramente finita? A pochi mesi dalla smania rivoluzionaria che ha fatto crollare i regimi al potere, ritenuti quasi incrollabili, c’è chi considera la “primavera araba” una stagione ormai conclusa, un evento terminato. Per molti, non è stato altro che una mobilitazione di massa scaturita da un forte contagio, che ha provocato così un effetto domino. Nessuno aveva previsto nulla sino a poco prima dello scoppio di queste rivolte e nessuno, credo, potrà prevederne gli sviluppi, proprio perché ogni realtà è diversa dall’altra.
Ma il vero elemento di novità, politicamente parlando, è l’ascesa al potere dei partiti islamisti, che è poi ciò che intimorisce il mondo occidentale: secondo molti, le speranze di una svolta democratica per questi paesi, dal Marocco all’Egitto, sarebbero già sprofondate nelle ultime elezioni. La perdita di speranze sembra appoggiarsi sulla convinzione che una società fondata sui valori di giustizia, libertà e democrazia sia naturalmente estranea al mondo musulmano, poiché in esso la religione, considerata monolitica e priva di cambiamenti, permea tutta la vita sociale, politica e culturale; si sa inoltre che l’Islam, per i più, è spesso sinonimo di estremismo e terrorismo.
Questo circolo vizioso, in cui stereotipi ed equivoci si sono alimentati e consolidati, ci rende ciechi anche davanti ad un evento storico come quello della “primavera araba”, il quale ci pone ancora una volta di fronte all’interrogativo se uno stato islamico, più che l’Islam, sia compatibile con la democrazia. Condividendo il pensiero del professore Massimo Campanini, docente di “Storia contemporanea dell’Islam e dei paesi arabi” all’Università di Napoli, per rispondere a questo quesito è necessario tenere presente due concetti chiave dai quali non si può prescindere: il primo è che nell’Islam la fonte del potere è Dio e non il popolo, il secondo è che nell’Islam il popolo è inteso come comunità dei credenti, quindi in base ad un vincolo di tipo religioso (e non territoriale, come avviene in uno stato moderno dell’occidente).
Le rivolte di piazza hanno dimostrato, invece, che qualcosa sta cambiando in nome della inarrestabile affermazione dell’individuo, del popolo. Bisognerebbe leggere questa rivoluzione come la chiave di volta di una rivoluzione politica, concettuale ma soprattutto culturale. Ci troviamo di fronte un popolo che, ormai stanco di subire la propria storia fatta da altri, si rivolta per dare un nuovo volto alla propria identità, abbattendo i pregiudizi di cui, volente o nolente, è stato vittima. Vi sembra un cambiamento che possa concludersi in una sola stagione?
di Mariangela Laviano, arabista
Ci si domanda dove sia finita la “primavera araba”. Ma poi, è veramente finita? A pochi mesi dalla smania rivoluzionaria che ha fatto crollare i regimi al potere, ritenuti quasi incrollabili, c’è chi considera la “primavera araba” una stagione ormai conclusa, un evento terminato. Per molti, non è stato altro che una mobilitazione di massa scaturita da un forte contagio, che ha provocato così un effetto domino. Nessuno aveva previsto nulla sino a poco prima dello scoppio di queste rivolte e nessuno, credo, potrà prevederne gli sviluppi, proprio perché ogni realtà è diversa dall’altra.
Ma il vero elemento di novità, politicamente parlando, è l’ascesa al potere dei partiti islamisti, che è poi ciò che intimorisce il mondo occidentale: secondo molti, le speranze di una svolta democratica per questi paesi, dal Marocco all’Egitto, sarebbero già sprofondate nelle ultime elezioni. La perdita di speranze sembra appoggiarsi sulla convinzione che una società fondata sui valori di giustizia, libertà e democrazia sia naturalmente estranea al mondo musulmano, poiché in esso la religione, considerata monolitica e priva di cambiamenti, permea tutta la vita sociale, politica e culturale; si sa inoltre che l’Islam, per i più, è spesso sinonimo di estremismo e terrorismo.
Questo circolo vizioso, in cui stereotipi ed equivoci si sono alimentati e consolidati, ci rende ciechi anche davanti ad un evento storico come quello della “primavera araba”, il quale ci pone ancora una volta di fronte all’interrogativo se uno stato islamico, più che l’Islam, sia compatibile con la democrazia. Condividendo il pensiero del professore Massimo Campanini, docente di “Storia contemporanea dell’Islam e dei paesi arabi” all’Università di Napoli, per rispondere a questo quesito è necessario tenere presente due concetti chiave dai quali non si può prescindere: il primo è che nell’Islam la fonte del potere è Dio e non il popolo, il secondo è che nell’Islam il popolo è inteso come comunità dei credenti, quindi in base ad un vincolo di tipo religioso (e non territoriale, come avviene in uno stato moderno dell’occidente).
Le rivolte di piazza hanno dimostrato, invece, che qualcosa sta cambiando in nome della inarrestabile affermazione dell’individuo, del popolo. Bisognerebbe leggere questa rivoluzione come la chiave di volta di una rivoluzione politica, concettuale ma soprattutto culturale. Ci troviamo di fronte un popolo che, ormai stanco di subire la propria storia fatta da altri, si rivolta per dare un nuovo volto alla propria identità, abbattendo i pregiudizi di cui, volente o nolente, è stato vittima. Vi sembra un cambiamento che possa concludersi in una sola stagione?
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È presente 1 commento
Non può esserci democrazia autentica senza rispetto dei diritti umani, a partire dai diritti delle minoranze religiose. Soprattutto in Egitto abbiamo assistito, dopo la caduta del regime, al riprendere delle violenze contro le minoranze cristiane copte. Non so se la primavera araba si sia conclusa, ma la via della democrazia mi sembra francamente lunga.
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