In una settimana tre manifestazioni pacifiche si sono concluse nel sangue. Pechino, terrorizzata dall’aumento delle proteste, reagisce con il pugno di ferro e lancia una campagna di disinformazione per convincere il mondo che la colpa è del Dalai Lama. Una fonte buddista ad AsiaNews: “E’ la reazione all’esodo di 6mila tibetani, che senza paura delle conseguenze sono andati in India ad ascoltare gli insegnamenti del nostro leader religioso”.
AsiaNews - Arresti, omicidi sommari, guerra dell’informazione: Pechino non si ferma davanti a nulla pur di fermare l’ondata di manifestazioni anti-cinesi che stanno colpendo in questi giorni il Tibet e le province cinesi a maggioranza tibetana. Mentre il numero di auto-immolazioni arriva a 16, infatti, si registrano soltanto in questa settimana tre dimostrazioni finite nel sangue. Secondo una fonte di AsiaNews “è la reazione alla sfida lanciata da 6mila tibetani, che sono andati in India a sentire il Dalai Lama senza paura delle conseguenze”.
L’ultimo episodio di violenza risale a ieri, quando la polizia della prefettura autonoma di Ngaba ha cercato di arrestare un giovane manifestante di nome Tharpa che, in mattinata, aveva distribuito dei volantini nella piazza di Barma chiedendo il ritorno del Dalai Lama e la libertà religiosa per il Tibet. Appena gli agenti si sono avvicinati alla sua abitazione, una folla li ha circondati per impedire l’arresto: la polizia lo ha trascinato via lo stesso e ha aperto il fuoco contro le persone riunite sul posto. Un giovane di 20 anni, Urgen, è morto sul colpo: era compagno di scuola dell’arrestato. Decine i feriti.
Tra il 23 e il 24 gennaio la violenza è esplosa invece nella contea di Draggo, nella provincia centrale del Sichuan. Gli abitanti del luogo hanno iniziato a manifestare in silenzio a sostegno dei religiosi buddisti che si sono uccisi con il fuoco per protestare contro la repressione cinese. Alcuni dei presenti avevano in mano le fotografie dei defunti. La polizia è intervenuta e ha portato via alcuni manifestanti, ma la folla li ha seguiti ed ha attaccato la stazione di pubblica sicurezza.
Lo scorso 23 gennaio, infine, un migliaio di persone si sono riunite a Meruma, nella contea di Ngaba, per protestare contro l’arresto sommario di un ragazzo che il giorno prima aveva manifestato per chiedere il ritorno del Dalai Lama e la libertà religiosa in Tibet. Gli agenti di pubblica sicurezza hanno interrotto la manifestazione e caricato su diversi camion circa 100 persone: FreeTibet, una ong che monitora la situazione della zona, ha pubblicato le fotografie di 3 detenuti (vedi ) chiedendo il rilascio di tutto il gruppo.
Ma la Cina non si ferma agli omicidi e agli arresti sommari. Pechino, terrorizzata da un aumento delle proteste sociali e religiose in Tibet, ha lanciato anche una massiccia campagna di disinformazione per convincere la comunità internazionale che nella provincia non sta succedendo nulla. Lo stesso FreeTibet ha pubblicato per errore una fotografia del 2008 indicandola come uno scatto preso dalle manifestazioni di Draggo: la fotografia è stata ritirata con le scuse del gruppo per la svista, ma per il governo cinese si è trattato di una “provocazione”.
Allo stesso modo, la Xinhua – agenzia di stampa di Pechino – ha dato la colpa di tutte le violenze alla “cricca del Dalai Lama” ed ai “nemici della Cina e del popolo”. Secondo un lungo articolo apparso questa mattina, le proteste in Tibet “non sono mai pacifiche” e “sono animate da provocatori che cercano in ogni modo lo scontro con la polizia”. Questa campagna è preparatoria alla visita che il vicepresidente cinese Xi Jinping sta per compiere negli Stati Uniti: il regime non vuole avere punti deboli che Washington possa attaccare.
Secondo una fonte di AsiaNews, questo aumento di violenza “nasce dalla paura di Pechino, che vede nei tibetani un popolo che non si china più senza reagire ai loro soprusi. Alla fine di dicembre, sfidando la repressione e senza paura delle conseguenze, un gruppo di 6mila fedeli buddisti ha lasciato il Tibet ed è andato in India a seguire la Bhodigaya, una grande festa religiosa guidata dal Dalai Lama. In questo modo hanno dimostrato il loro amore per la libertà religiosa e hanno detto che non hanno paura della Cina”.
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AsiaNews - Arresti, omicidi sommari, guerra dell’informazione: Pechino non si ferma davanti a nulla pur di fermare l’ondata di manifestazioni anti-cinesi che stanno colpendo in questi giorni il Tibet e le province cinesi a maggioranza tibetana. Mentre il numero di auto-immolazioni arriva a 16, infatti, si registrano soltanto in questa settimana tre dimostrazioni finite nel sangue. Secondo una fonte di AsiaNews “è la reazione alla sfida lanciata da 6mila tibetani, che sono andati in India a sentire il Dalai Lama senza paura delle conseguenze”.
L’ultimo episodio di violenza risale a ieri, quando la polizia della prefettura autonoma di Ngaba ha cercato di arrestare un giovane manifestante di nome Tharpa che, in mattinata, aveva distribuito dei volantini nella piazza di Barma chiedendo il ritorno del Dalai Lama e la libertà religiosa per il Tibet. Appena gli agenti si sono avvicinati alla sua abitazione, una folla li ha circondati per impedire l’arresto: la polizia lo ha trascinato via lo stesso e ha aperto il fuoco contro le persone riunite sul posto. Un giovane di 20 anni, Urgen, è morto sul colpo: era compagno di scuola dell’arrestato. Decine i feriti.
Tra il 23 e il 24 gennaio la violenza è esplosa invece nella contea di Draggo, nella provincia centrale del Sichuan. Gli abitanti del luogo hanno iniziato a manifestare in silenzio a sostegno dei religiosi buddisti che si sono uccisi con il fuoco per protestare contro la repressione cinese. Alcuni dei presenti avevano in mano le fotografie dei defunti. La polizia è intervenuta e ha portato via alcuni manifestanti, ma la folla li ha seguiti ed ha attaccato la stazione di pubblica sicurezza.
Lo scorso 23 gennaio, infine, un migliaio di persone si sono riunite a Meruma, nella contea di Ngaba, per protestare contro l’arresto sommario di un ragazzo che il giorno prima aveva manifestato per chiedere il ritorno del Dalai Lama e la libertà religiosa in Tibet. Gli agenti di pubblica sicurezza hanno interrotto la manifestazione e caricato su diversi camion circa 100 persone: FreeTibet, una ong che monitora la situazione della zona, ha pubblicato le fotografie di 3 detenuti (vedi ) chiedendo il rilascio di tutto il gruppo.
Ma la Cina non si ferma agli omicidi e agli arresti sommari. Pechino, terrorizzata da un aumento delle proteste sociali e religiose in Tibet, ha lanciato anche una massiccia campagna di disinformazione per convincere la comunità internazionale che nella provincia non sta succedendo nulla. Lo stesso FreeTibet ha pubblicato per errore una fotografia del 2008 indicandola come uno scatto preso dalle manifestazioni di Draggo: la fotografia è stata ritirata con le scuse del gruppo per la svista, ma per il governo cinese si è trattato di una “provocazione”.
Allo stesso modo, la Xinhua – agenzia di stampa di Pechino – ha dato la colpa di tutte le violenze alla “cricca del Dalai Lama” ed ai “nemici della Cina e del popolo”. Secondo un lungo articolo apparso questa mattina, le proteste in Tibet “non sono mai pacifiche” e “sono animate da provocatori che cercano in ogni modo lo scontro con la polizia”. Questa campagna è preparatoria alla visita che il vicepresidente cinese Xi Jinping sta per compiere negli Stati Uniti: il regime non vuole avere punti deboli che Washington possa attaccare.
Secondo una fonte di AsiaNews, questo aumento di violenza “nasce dalla paura di Pechino, che vede nei tibetani un popolo che non si china più senza reagire ai loro soprusi. Alla fine di dicembre, sfidando la repressione e senza paura delle conseguenze, un gruppo di 6mila fedeli buddisti ha lasciato il Tibet ed è andato in India a seguire la Bhodigaya, una grande festa religiosa guidata dal Dalai Lama. In questo modo hanno dimostrato il loro amore per la libertà religiosa e hanno detto che non hanno paura della Cina”.
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