venerdì, febbraio 03, 2012
Ricette opposte sulla riforma del mercato del lavoro che non possono tacere sul dramma della precarietà e sulle forme contrattuali che in qualche modo la consentono

Cittanuova - Cambierà a breve la disciplina dei rapporti di lavoro. Aziende e studi di consulenza cercano di capire quale sarà l’esito finale del confronto tra le parti sociali e il governo tecnico. Si tornerà ad assumere? Oppure si interromperanno i contratti a progetto per trasformarli in tante partite Iva? Proprio la lettera “segreta” della Bce all’Italia toccava la riforma del mercato del lavoro come uno dei punti cardine (nella foto Pietro Ichino).

Le dimensioni del fenomeno A prescindere dalle ricette di soluzione proposte, tutti sono d’accordo nel riconoscere la precarietà come un dramma. Ma le dimensioni del fenomeno, forse, non sono conosciute da tutti. «Esistono interi comparti dell’economia italiana, nei quali solo un lavoratore su dieci è assunto con un contratto di lavoro tradizionale (subordinato a tempo indeterminato)» spiega il giuslavorista Pietro Ichino. Gli esempi più evidenti sono quelli dell’editoria, dei giornali, le case di cura e l’edilizia. La realtà ci consegna, quindi, dei cantieri con tanti muratori che lavorano assieme sui ponteggi, ma sono classificati come lavoratori autonomi a partita Iva.

In campo informatico è più semplice individuare il tipo di contratto del singolo operatore. Nelle grandi sale dell’helpdesk si riconoscono gli interni dagli esterni in base al colore del cordoncino che regge il badge di accesso in azienda. Si vive tutti assieme, si fanno magari le stesse cose ma qualcuno è un dipendente della casa madre e gli altri una serie di consulenti esterni “affittati” da altre società con diversi tipi di contratti. Difficile mantenere, in queste condizioni, il senso di appartenenza comune. Qualcuno può scomparire da un momento all’altro perché scade il contratto di fornitura. Il cartellino magnetico d’accesso smette di funzionare ai tornelli d’entrata e l’addetto alla sorveglianza, anch’egli con altro contratto di altra diversa azienda che copre il servizio di guardiania, ha il compito di far rispettare l’ordine.

Il diritto che non esiste più Gli ispettori del lavoro, tra ministero, Inps e Inail, sono meno di cinque mila in Italia, con strumenti non sempre adeguati, di fronte a milioni di casi di evasione e ed elusione. «Di fatto, – spiega Ichino –, riescono a colpire solo un caso irregolare ogni diecimila. Solo due su diecimila si rivolgono all’autorità giudiziaria per far valere la violazione di un diritto. In vaste zone del tessuto produttivo italiano il diritto del lavoro non c’è più o è lasciato alla discrezione del datore di lavoro».

L’altro giurista del lavoro, Piergiovanni Alleva giunge invece a conclusioni ben diverse. Secondo Alleva, il «settanta, ottanta per cento delle assunzioni avviene ormai con contratti precari, oppure sotto la forma di un finto rapporto autonomo». La situazione di illegalità diffusa e ostentata è tale che «non ho mai visto un contratto a termine, un contratto a progetto o un contratto di lavoro somministrato che non fosse impugnabile» denuncia l’avvocato. La tolleranza di questa illegalità non si spiega solo con il minor costo del lavoratore precario ma si somma alla «possibilità di mantenere il lavoratore in una condizione di paura, di sottomissione, di timore».

Lavoratori di serie A, B,C,D... Su questa fascia meno tutelata la perdita dell’occupazione è una delle conseguenze più evidenti della crisi. Sono «i lavori di «serie B» (dipendenti di aziendine appaltatrici di piccole dimensioni), o «di serie C» (contratti a termine o «a progetto»), o addirittura «di serie D» (partite iva fasulle, falsi stagisti e lavoro nero)» continua Ichino. In questo contesto anche le lettura dei dati Istat può ingannare: ci sono 5 milioni e 440 mila addetti che lavorano presso le piccole aziende (quelle sotto le 15 unità) ma che restano classificati come autonomi. In otto casi su dieci svolgono attività solo per un committente e le stesse “aziendine o cooperative” gestiscono in appalto servizi per le società più grandi. Basta disdire un contratto di fornitura e non c’è contratto di lavoro che tenga perché l’impresa chiude per mancanza di commesse.

Si comprende il terrore legato alla parola “esternalizzazione”, perchè un gruppo di lavoratori di un settore di una grande azienda, dove vigono regole e garanzie, sono ceduti talvolta ad un’ “aziendina” che stipula un contratto di appalto di due o tre anni, al massimo, e dopo il nulla. Metà dei diciotto milioni di persone in attività in Italia si trova in condizioni simili. Questo il quadro impietoso offerto in tante analisi. Cosa può fare la legge? Quale è il compito dello Stato? Le risposte a queste domande sono diverse, ma non possono dividere i lavoratori: la percezione per tutti è quella di vivere su una nave in pericolo e nessuno si salva a priori.

di Carlo Cefaloni

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