venerdì, febbraio 03, 2012
Storia dei reclusi del Pademba Road: figli di una delle battaglia africane più cruente e violente

di Paola Bisconti

I 1307 detenuti nel Pademba road, a Freetwon, capitale della Sierra Leone, non sono tutti criminali. La gran parte di loro sono figli di una guerra civile iniziata nel 1991 per volere di Gheddafi, comandata da Charles Taylor, presidente della vicina Liberia, e combattuta da Sankoh Foday, leader e fondatore del RUF, il Fronte Unito Rivoluzionario. A difendere il popolo c’era Monsignor Giorgio Biguzzi, personaggio fondamentale negli accordi del 1999, e a curare le loro ferite c’erano i medici di Emergency.

La struttura penitenziaria è un complesso dominato da quattro grandi edifici, dove vivono uomini e molti minori in condizioni al limite della dignità umana. Soffrono di scabbia, una forte dermatosi contagiosa, e nella loro disperazione gioiscono della stagione delle piogge, perché consente a tutti di fare la doccia ed essere alleviati dal costante prurito della pelle. Ognuno di loro ha una storia differente, ma sono tutti accomunati dai tragici eventi che hanno visto uno stato ricco di risorse naturali come la Sierra Leone diventare scenario di una sanguinosa guerra.
Dietro lo scenario del conflitto agiva il dittatore Gheddafi, che seminava paura tramite il supporto di personaggi come il presidente Charles Taylor, interessato alle miniere di diamanti di cui la Sierra Leone è particolarmente ricca. Per impossessarsene attuò una politica feroce e sanguinaria attraverso l’esercito del RUF comandato da Sankoh Foday. Furono compiute pratiche brutali e atroci amputazioni, nonché il reclutamento di un nuovo esercito, quello composto dai “bambini soldato”. La storia diventò la trama di un celebre film intitolato “Blood diamond” con Leonardo Di Caprio, vincitore di 5 premi Oscar.

Sankoh Foday fu detenuto presso il Pademba road di Freetwon per sette anni in seguito all’espulsione da un addestramento militare nel Regno Unito. Ritornò in carcere, nel 2000, con l’accusa di avere compiuto gravi reati contro l’umanità. Qui morì senza avere una sentenza, perché venne colto da un’emorragia. A pregare per tutte le anime c’era Monsignor Giorgio Biguzzi, il missionario italiano che per trent’anni ha aiutato la popolazione in difficoltà rischiando spesso la vita: è stato catturato dai ribelli, poi liberato e poi nuovamente preso in ostaggio, per essere infine rilasciato al servizio della povera gente.

Nel 1999, Monsignor Biguzzi partecipò agli accordi di Lomè, che miravano alla pace, ma nonostante il nobile tentativo i massacri continuarono e il sovraffollamento del carcere di Pademba road ne è una conseguenza. Il vescovo, tuttavia, continua a diffondere i suoi messaggi di pace, che vengono accolti dai cristiani ma anche dai musulmani. Le scene viste nel carcere lo dimostrano e a raccontarcelo sono stati il giornalista britannico, John Carlin, insieme al fotografo spagnolo, Fernando Moreles, in un reportage pubblicato su “Internazionale” nell’aprile del 2011. Il servizio fotografico ha vinto il secondo premio al World Press Photo nella categoria quotidiana. I due reporter raccontano come prigionieri appartenenti a religioni differenti si rallegrino durante le celebrazioni eucaristiche, vissute come un vero spettacolo fra canti e balli. È attraverso la fede che riacquistano una dignità negata, e la religione diventa l’unica via di fuga dai tormenti del passato.

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