Storia di un artista iraniano che non imprigionerà i suoi sogni
Il regista iraniano Jafar Panahi sogna che un giorno potrà tornare a realizzare liberamente i suoi film. Per ora deve scontare una pena ingiusta decisa dal governo di Ahmadinejad che lo accusa di aver tramato contro la Repubblica Islamica e di aver messo in pericolo il popolo iraniano. Panahi, invece, ha aderito il 2 marzo del 2010 ad una manifestazione di protesta contro il regime rappresentando una popolazione che vive in un evidente stato di insoddisfazione. Nei suoi film - “Il palloncino bianco” (1995), “Lo specchio” (1997), “Il cerchio” (2000) - Panahai ha raccontato la dura realtà della sua terra suscitando il malcontento dei governanti, che hanno censurato altri suoi due film, “Oro rosso” e “Offside”. La visione è stata proibita solo in patria ma il resto del mondo ha potuto vedere e apprezzare la maestria del filmaker iraniano.
Il 24 maggio del 2010 Panahi viene rilasciato dal carcere di Evine col pagamento della cauzione e grazie ad un estenuante sciopero della fame, ma il 20 dicembre dello stesso anno la sentenza lo condanna a 6 anni di reclusione e gli impone il divieto, per 20 anni, di scrivere e produrre film, viaggiare e rilasciare interviste sia all’interno del paese che all’estero. Nonostante questa pena che deteriora l’anima dell’artista, Jafar Panahi registra un lungometraggio “This is not a film” che esce clandestinamente dall’Iran per mezzo di una chiavetta USB e approda al Festival di Cannes. La pellicola è fuori concorso ma viene presentata come evento speciale e la sua proiezione attira l’attenzione degli spettatori. Il film racconta i giorni di reclusione di Panahi trascorsi fra le mura di un appartamento a Teheran e descrive il malessere che prova nel dover sopportare una pena ingiusta.
Ma il “regista fantasma” continua a non perdere la speranza e si dimostra fiducioso verso il futuro. Lo dichiara lui stesso in una lettera letta in pubblico, a Roma, da Bernardo Bertolucci. Nelle parole commoventi e toccanti, il grande artista scrive che continua a realizzare dei film con l’immaginazione perché è l’unica cosa che nessuno potrà mai negargli. Si augura di poter vedere, fra 20 anni, un nuovo Paese da raccontare dove azeri, curdi, arabi e turkmeni potranno essere tolleranti tra di loro. Confida nella speranza dei giovani iraniani perché è lì che risiede la speranza dell’Iran.
I suoi colleghi artisti, compreso il team organizzativo del Festival di Berlino e di Cannes, si sono prodigati in favore di Jafar Panahi sensibilizzando l’opinione pubblica al problema. Persino il Museo del Cinema di Teheran ospita una grande teca a lui dedicata. Tuttavia sembra impossibile smuovere lo stato iraniano che non dà tregua ai mezzi di informazione. Le autorità, infatti, hanno revocato la licenza di stampa al quotidiano “Etemad – E Melli” perché sostiene la politica del leader riformista Mehdi Karroubi e ha vietato la pubblicazione di due settimanali, “Jina” e “Iran Dokht”, quest’ultimo già punito con l’arresto del suo direttore Akbar Montajabi.
Il regista iraniano Jafar Panahi sogna che un giorno potrà tornare a realizzare liberamente i suoi film. Per ora deve scontare una pena ingiusta decisa dal governo di Ahmadinejad che lo accusa di aver tramato contro la Repubblica Islamica e di aver messo in pericolo il popolo iraniano. Panahi, invece, ha aderito il 2 marzo del 2010 ad una manifestazione di protesta contro il regime rappresentando una popolazione che vive in un evidente stato di insoddisfazione. Nei suoi film - “Il palloncino bianco” (1995), “Lo specchio” (1997), “Il cerchio” (2000) - Panahai ha raccontato la dura realtà della sua terra suscitando il malcontento dei governanti, che hanno censurato altri suoi due film, “Oro rosso” e “Offside”. La visione è stata proibita solo in patria ma il resto del mondo ha potuto vedere e apprezzare la maestria del filmaker iraniano.
Il 24 maggio del 2010 Panahi viene rilasciato dal carcere di Evine col pagamento della cauzione e grazie ad un estenuante sciopero della fame, ma il 20 dicembre dello stesso anno la sentenza lo condanna a 6 anni di reclusione e gli impone il divieto, per 20 anni, di scrivere e produrre film, viaggiare e rilasciare interviste sia all’interno del paese che all’estero. Nonostante questa pena che deteriora l’anima dell’artista, Jafar Panahi registra un lungometraggio “This is not a film” che esce clandestinamente dall’Iran per mezzo di una chiavetta USB e approda al Festival di Cannes. La pellicola è fuori concorso ma viene presentata come evento speciale e la sua proiezione attira l’attenzione degli spettatori. Il film racconta i giorni di reclusione di Panahi trascorsi fra le mura di un appartamento a Teheran e descrive il malessere che prova nel dover sopportare una pena ingiusta.
Ma il “regista fantasma” continua a non perdere la speranza e si dimostra fiducioso verso il futuro. Lo dichiara lui stesso in una lettera letta in pubblico, a Roma, da Bernardo Bertolucci. Nelle parole commoventi e toccanti, il grande artista scrive che continua a realizzare dei film con l’immaginazione perché è l’unica cosa che nessuno potrà mai negargli. Si augura di poter vedere, fra 20 anni, un nuovo Paese da raccontare dove azeri, curdi, arabi e turkmeni potranno essere tolleranti tra di loro. Confida nella speranza dei giovani iraniani perché è lì che risiede la speranza dell’Iran.
I suoi colleghi artisti, compreso il team organizzativo del Festival di Berlino e di Cannes, si sono prodigati in favore di Jafar Panahi sensibilizzando l’opinione pubblica al problema. Persino il Museo del Cinema di Teheran ospita una grande teca a lui dedicata. Tuttavia sembra impossibile smuovere lo stato iraniano che non dà tregua ai mezzi di informazione. Le autorità, infatti, hanno revocato la licenza di stampa al quotidiano “Etemad – E Melli” perché sostiene la politica del leader riformista Mehdi Karroubi e ha vietato la pubblicazione di due settimanali, “Jina” e “Iran Dokht”, quest’ultimo già punito con l’arresto del suo direttore Akbar Montajabi.
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