In Italia continua a tenere banco la crisi economica
Radio Vaticana - Incontro oggi a Palazzo Chigi tra Governo e parti sociali sulla riforma del mercato del lavoro. Ieri sera, in un’intervista televisiva, il premier Monti ha sollecitato i giovani ad accettare la sfida della flessibilità. Il servizio di Giampiero Guadagni: ascolta. Come abbiamo sentito, l’art. 18, dunque, non è più un tabù ha detto il premier Monti; una dichiarazione importante che giunge in un momento particolarmente delicato sul fronte della disoccupazione, salita all’8,9% e con un picco del 30% per quanto riguarda i giovani. Ma come si può definire una società, come quella italiana, che non riesce ad investire sui propri giovani? Ne abbiamo parlato con Domenico De Masi, docente di Sociologia del Lavoro presso l’Università La Sapienza di Roma: ascolta.
R. – Il problema non è la società che non riesce a investire sui propri giovani; diciamo questo da 20, 30 anni, e da 20, 30 anni la disoccupazione in tutti i Paesi ricchi non fa che aumentare, soprattutto quella giovanile: significa che il problema non è congiunturale, è un problema strutturale, cioè è un problema che deriva da due cause: la tecnologia, che progredisce di giorno in giorno, togliendo lavoro agli esseri umani, e la globalizzazione, per cui mentre prima noi vendevamo i nostri prodotti alla Cina, all’India, adesso questi Paesi – per fortuna – sanno fare da soli queste merci. Quindi, più va avanti la società post-industriale e meno lavoro si ha. E’ come se noi avessimo "x" acqua e "y" persone che vogliono bere: l’acqua diminuisce e quelli che vogliono bere aumentano.
D. – Come si può risolvere questo problema, secondo lei?
R. – Soltanto riducendo il lavoro. In questo momento i genitori lavorano dieci ore al giorno; io, lei, lavoriamo dieci ore al giorno e i nostri figli, magari, sono completamente disoccupati. Quando lei ha una torta e aumentano le persone che debbono mangiarla, non può fare altro che ridurre le porzioni. Non c’è altro! Possono capirlo persino gli economisti. Non è una cosa complicatissima.
D. - Ovviamente, quello della disoccupazione è un fenomeno che, come diceva lei, coinvolge pressoché tutti i Paesi industrializzati, con percentuali più o meno alte. Quali ripercussioni si sono avute nei diversi Paesi e come hanno reagito?
R. – Le ripercussioni si vedono dovunque, tranne in quei Paesi che hanno situazioni del tutto particolari, tipo l’Olanda e così via, ma si tratta di Paesi piccoli o Paesi come la Germania che hanno colto gli aspetti positivi della situazione. Il mondo cresce di tre punti all’anno circa di ricchezza, ma non tutti crescono allo stesso modo. Ci sono i Paesi poveri che, per fortuna, cominciano ad andare avanti, e ci sono i Paesi ricchi che non possono pretendere di arricchirsi all’infinito, perché i Paesi poveri non sono più disposti a farsi rapinare. In questo momento l’Italia ha 35 mila dollari pro capite di ricchezza, mentre in Cina solo 3700 dollari. Ora, possiamo pensare di continuare a crescere noi, facendo arrestare la Cina, facendola fermare a 3700 dollari? Questo non è possibile. Abbiamo pregato per secoli il buon Dio, perché eliminasse la povertà. Ora il buon Dio ci sta ascoltando e per fortuna molti Paesi poveri – dalla Cina all’India, al Brasile – stanno migliorando un po’ la loro condizione. E se migliora la loro, non può continuare a migliorare la nostra. Noi dovremo abituarci, secondo i miei calcoli, entro dieci anni, a ridurre di almeno il 15 per cento il nostro potere di acquisto. Questo significa che, invece di spendere 35 mila dollari pro capite, spenderemo 30 mila dollari pro capite. Quindi, non è la fine del mondo. Saremo comunque 8, 9, 10 volte più ricchi di ciascun cinese o di ciascun indiano.
E se il fenomeno disoccupazione è stato affrontato dal punto di vista dei numeri, delle percentuali e delle tendenze, poco, invece, si è detto sulle ricadute psicologiche; perdere il lavoro o non trovarlo affatto, quanto influisce sull’integrità della persona? Salvatore Sabatino lo ha chiesto ad Antonio Tundo, direttore della Scuola di Psicipatologia di Roma.
R. – Indubbiamente l’influenza è molto alta perché ormai il lavoro è anche vissuto come elemento che determina l’autostima, il proprio valore, il proprio ruolo sociale. Quindi non avere lavoro può intaccare tutto questo e mettere in crisi profondamente una persona, portandola a tematiche di autosvalutazione e di sensazione di non essere all’altezza, di non essere capace, di non essere coinvolto e integrato nella società.
D. – Questa disoccupazione così alta può essere alla base in qualche modo dell’imbarbarimento della società? L’aumento della criminalità, delle violenze in famiglia, del gioco d’azzardo, sono fenomeni causati dall’instabilità di una società?
R. – Più che causati, possiamo dire che vanno di pari passo. Io non credo che una persona disoccupata, diventi un criminale o giochi d’azzardo. Sicuramente persone che potrebbero essere recuperate attraverso il lavoro, attraverso un’integrazione, nel rapporto con gli altri, lasciate a se stesse - quindi il discorso dell’imbarbarimento della società e dell’impoverimento della rete di protezione sociale - possono invece prendere queste strade un po’ devianti e quindi compensare attraverso il gioco d’azzardo, che diventa una modalità auto-premiante oppure peggio andare verso il discorso della criminalità.
D. - Non trovare lavoro a 20 anni e perderlo a 40 causa problemi differenti dal punto di vista psicologico?
R. – Per alcuni versi, problemi comuni, quelli che ricordavo prima: la perdita di autostima, l’avvilimento, la demoralizzazione. Per altri differenti: a 20 anni c’è comunque la speranza, la certezza di riuscire a trovare una strada, una soluzione; a 40 comincia l’angoscia, l’incubo di non riuscire più a recuperare, quindi di avere un futuro già tracciato in termini negativi. Quindi è decisamente più pesante perdere un lavoro a 40 che non trovarlo a 20.
D. - Qual è il giusto modo per affrontare questo tipo di problemi?
R. - Un modo dovrebbe essere mettere degli aiuti sociali a disposizione delle persone che si trovano in queste condizioni. Non è un problema solo economico. Poter creare, per esempio, la possibilità di impegnare il loro tempo nel volontariato, in attesa di trovare un lavoro remunerativo; ritrovare la possibilità di creare una rete di attività sportiva, di attività sociale. Non lasciare la persona sola: questo è fondamentale perché non vada alla deriva.
D. - Forse ci vorrebbe anche l’aiuto di una squadra di psicologi, di psichiatri, che possono aiutare queste persone a superare questo momento così difficile?
R. – Sicuramente. Quando la condizione diventa non più demoralizzazione ma depressione, quando lo scoraggiamento è tale – l’abbiamo letto e lo leggiamo tutti i giorni sui giornali - per cui le persone in questa situazione cominciano a pensare al suicidio, cominciano a lasciarsi andare, quando c’è qualcosa che va oltre, che rompe l’equilibrio, un intervento tecnico - che sia di uno psicologo o di uno psichiatra per le forme più gravi - diventa indispensabile perché non basta più la rete sociale ma c’è bisogno proprio di un sostegno ad personam per recuperare.
Radio Vaticana - Incontro oggi a Palazzo Chigi tra Governo e parti sociali sulla riforma del mercato del lavoro. Ieri sera, in un’intervista televisiva, il premier Monti ha sollecitato i giovani ad accettare la sfida della flessibilità. Il servizio di Giampiero Guadagni: ascolta. Come abbiamo sentito, l’art. 18, dunque, non è più un tabù ha detto il premier Monti; una dichiarazione importante che giunge in un momento particolarmente delicato sul fronte della disoccupazione, salita all’8,9% e con un picco del 30% per quanto riguarda i giovani. Ma come si può definire una società, come quella italiana, che non riesce ad investire sui propri giovani? Ne abbiamo parlato con Domenico De Masi, docente di Sociologia del Lavoro presso l’Università La Sapienza di Roma: ascolta.
R. – Il problema non è la società che non riesce a investire sui propri giovani; diciamo questo da 20, 30 anni, e da 20, 30 anni la disoccupazione in tutti i Paesi ricchi non fa che aumentare, soprattutto quella giovanile: significa che il problema non è congiunturale, è un problema strutturale, cioè è un problema che deriva da due cause: la tecnologia, che progredisce di giorno in giorno, togliendo lavoro agli esseri umani, e la globalizzazione, per cui mentre prima noi vendevamo i nostri prodotti alla Cina, all’India, adesso questi Paesi – per fortuna – sanno fare da soli queste merci. Quindi, più va avanti la società post-industriale e meno lavoro si ha. E’ come se noi avessimo "x" acqua e "y" persone che vogliono bere: l’acqua diminuisce e quelli che vogliono bere aumentano.
D. – Come si può risolvere questo problema, secondo lei?
R. – Soltanto riducendo il lavoro. In questo momento i genitori lavorano dieci ore al giorno; io, lei, lavoriamo dieci ore al giorno e i nostri figli, magari, sono completamente disoccupati. Quando lei ha una torta e aumentano le persone che debbono mangiarla, non può fare altro che ridurre le porzioni. Non c’è altro! Possono capirlo persino gli economisti. Non è una cosa complicatissima.
D. - Ovviamente, quello della disoccupazione è un fenomeno che, come diceva lei, coinvolge pressoché tutti i Paesi industrializzati, con percentuali più o meno alte. Quali ripercussioni si sono avute nei diversi Paesi e come hanno reagito?
R. – Le ripercussioni si vedono dovunque, tranne in quei Paesi che hanno situazioni del tutto particolari, tipo l’Olanda e così via, ma si tratta di Paesi piccoli o Paesi come la Germania che hanno colto gli aspetti positivi della situazione. Il mondo cresce di tre punti all’anno circa di ricchezza, ma non tutti crescono allo stesso modo. Ci sono i Paesi poveri che, per fortuna, cominciano ad andare avanti, e ci sono i Paesi ricchi che non possono pretendere di arricchirsi all’infinito, perché i Paesi poveri non sono più disposti a farsi rapinare. In questo momento l’Italia ha 35 mila dollari pro capite di ricchezza, mentre in Cina solo 3700 dollari. Ora, possiamo pensare di continuare a crescere noi, facendo arrestare la Cina, facendola fermare a 3700 dollari? Questo non è possibile. Abbiamo pregato per secoli il buon Dio, perché eliminasse la povertà. Ora il buon Dio ci sta ascoltando e per fortuna molti Paesi poveri – dalla Cina all’India, al Brasile – stanno migliorando un po’ la loro condizione. E se migliora la loro, non può continuare a migliorare la nostra. Noi dovremo abituarci, secondo i miei calcoli, entro dieci anni, a ridurre di almeno il 15 per cento il nostro potere di acquisto. Questo significa che, invece di spendere 35 mila dollari pro capite, spenderemo 30 mila dollari pro capite. Quindi, non è la fine del mondo. Saremo comunque 8, 9, 10 volte più ricchi di ciascun cinese o di ciascun indiano.
E se il fenomeno disoccupazione è stato affrontato dal punto di vista dei numeri, delle percentuali e delle tendenze, poco, invece, si è detto sulle ricadute psicologiche; perdere il lavoro o non trovarlo affatto, quanto influisce sull’integrità della persona? Salvatore Sabatino lo ha chiesto ad Antonio Tundo, direttore della Scuola di Psicipatologia di Roma.
R. – Indubbiamente l’influenza è molto alta perché ormai il lavoro è anche vissuto come elemento che determina l’autostima, il proprio valore, il proprio ruolo sociale. Quindi non avere lavoro può intaccare tutto questo e mettere in crisi profondamente una persona, portandola a tematiche di autosvalutazione e di sensazione di non essere all’altezza, di non essere capace, di non essere coinvolto e integrato nella società.
D. – Questa disoccupazione così alta può essere alla base in qualche modo dell’imbarbarimento della società? L’aumento della criminalità, delle violenze in famiglia, del gioco d’azzardo, sono fenomeni causati dall’instabilità di una società?
R. – Più che causati, possiamo dire che vanno di pari passo. Io non credo che una persona disoccupata, diventi un criminale o giochi d’azzardo. Sicuramente persone che potrebbero essere recuperate attraverso il lavoro, attraverso un’integrazione, nel rapporto con gli altri, lasciate a se stesse - quindi il discorso dell’imbarbarimento della società e dell’impoverimento della rete di protezione sociale - possono invece prendere queste strade un po’ devianti e quindi compensare attraverso il gioco d’azzardo, che diventa una modalità auto-premiante oppure peggio andare verso il discorso della criminalità.
D. - Non trovare lavoro a 20 anni e perderlo a 40 causa problemi differenti dal punto di vista psicologico?
R. – Per alcuni versi, problemi comuni, quelli che ricordavo prima: la perdita di autostima, l’avvilimento, la demoralizzazione. Per altri differenti: a 20 anni c’è comunque la speranza, la certezza di riuscire a trovare una strada, una soluzione; a 40 comincia l’angoscia, l’incubo di non riuscire più a recuperare, quindi di avere un futuro già tracciato in termini negativi. Quindi è decisamente più pesante perdere un lavoro a 40 che non trovarlo a 20.
D. - Qual è il giusto modo per affrontare questo tipo di problemi?
R. - Un modo dovrebbe essere mettere degli aiuti sociali a disposizione delle persone che si trovano in queste condizioni. Non è un problema solo economico. Poter creare, per esempio, la possibilità di impegnare il loro tempo nel volontariato, in attesa di trovare un lavoro remunerativo; ritrovare la possibilità di creare una rete di attività sportiva, di attività sociale. Non lasciare la persona sola: questo è fondamentale perché non vada alla deriva.
D. - Forse ci vorrebbe anche l’aiuto di una squadra di psicologi, di psichiatri, che possono aiutare queste persone a superare questo momento così difficile?
R. – Sicuramente. Quando la condizione diventa non più demoralizzazione ma depressione, quando lo scoraggiamento è tale – l’abbiamo letto e lo leggiamo tutti i giorni sui giornali - per cui le persone in questa situazione cominciano a pensare al suicidio, cominciano a lasciarsi andare, quando c’è qualcosa che va oltre, che rompe l’equilibrio, un intervento tecnico - che sia di uno psicologo o di uno psichiatra per le forme più gravi - diventa indispensabile perché non basta più la rete sociale ma c’è bisogno proprio di un sostegno ad personam per recuperare.
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Sono presenti 3 commenti
Questa é la fine di un'epoca. Italia allo sbando come i suoi giovani senza futuro certo.
Forse che l'esimio prof. Monti ha trovato monotoni gli anni del suo lavoro alla Bocconi?
Perchè non é andato altrove per fare un lavoro diverso? Sono stupita dalle sue affermazioni. Sembrerebbe una registrazione di Berlusconi. No?
E' vero, la sua affermazione lascia perplessa anche me. D'altra parte credo che la flessibilità sia sicuramente migliore del "non lavorare affatto". Se queste sono le condizioni per lavorare, ben vengano... Forse le persone di altri tempi non possono capire, ma io, giovane studentessa, preferirei trovare un impiego, anche a tempo determinato, piuttosto che il niente. I tempi sono cambiati e la flessibilità è divenuta l'unica speranza di lavoro.
Quindi Berlusca e' stato un incompreso...sara' li' a fregarsi le mani, in attesa di ritornare al posto di Monti e licenziare tutti gli italiani!! partita IVA per tutti!!!
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