Don Marcello Cozzi di Libera ha denunciato strani incontri fra pm e agenti del Sisde
Liberainformazione - Lo sapevate che sull’omicidio di Elisa Claps vige il segreto di Stato? Noi no. L’abbiamo appreso qualche giorno fa da Fabio Amendolara, giornalista della Gazzetta del Mezzogiorno, uno dei cronisti più documentati sulla incredibile vicenda della ragazza di Potenza scomparsa a Potenza il 12 settembre 1993 e ritrovata cadavere nel 2010 all’interno della chiesa della Santissima Trinitá della sua città. Fabio Amendolara, come ha raccontato a Matteo Finco, ha saputo solo il 23 gennaio scorso di essere sospettato di avere violato il segreto di Stato. Lo ha appreso da un ordine di perquisizione sulle sue cose: nella sua casa, nella sua automobile, nella sua redazione. "Non sapevo – ha commentato – che sul caso Claps fosse stato imposto questo segreto. Nessuno della mia redazione della Gazzetta del Mezzogiorno di Potenza lo sapeva". Se non lo sapevano lui e gli altri giornalisti che da quasi 19 anni seguono passo passo la vicenda, chi poteva saperlo? Fabio Amendolara ha 33 anni. Si occupa della sparizione della ragazza di Potenza da almeno dieci anni. E’ un giornalista tenace, scrupoloso, curioso. Non si accontenta di fare un collage dei comunicati ufficiali. Lui studia tutte le carte, cerca di capire, ascolta protagonisti e testimoni e pubblica articoli ben informati. Così è incappato nella rete appiccicosa e invisibile del segreto di Stato.
Nell’arco di un anno è stato sottoposto due volte a interrogatori stringenti e perquisizioni invasive ordinate dalla Procura di Salerno, l’ultima il 23 gennaio scorso. Fabio Amendolara non è formalmente indagato per rivelazione di segreto di Stato, ma è stato interrogato e perquisito perché è sospettato di aver commesso questo reato: è stato ascoltato come persona informata dei fatti dai magistrati, che vogliono sapere chi gli ha passato certe informazioni sull’operato di agenti dei servizi segreti. Gli stessi magistrati, per le stesse ragioni, un anno fa lo avevano già iscritto nel registro degli indagati per il reato di rilevazione del segreto d’ufficio. Le indagini sono ancora in corso.
“Chi le ha passato queste informazioni?”, hanno chiesto i magistrati ad Amendolara. Poiché il giornalista ha invocato il segreto professionale, hanno sequestrato i suoi appunti, il suo archivio, per cercare di scoprire chi gli passa certe informazioni: informazioni che mettono in dubbio il corretto operato della procura lucana nella prima fase delle indagini e come tali hanno un interesse generale, interessano cittadini e istituzioni. I magistrati hanno sfogliato gli appunti di Fabio poi glieli hanno restituiti tutti senza essere venuti a capo di nulla.
Non è bello, non è tranquillizzante subire interrogatori e perquisizioni, essere pressati per rivelare nomi e cognomi di persone che hanno fornito informazioni ponendo come condizione l’anonimato, si può parlare in tutta segretezza con un giornalista come con un prete che ti confessa, come con l’avvocato che ti assiste legalmente. Sapendo che il segreto professionale del giornalista è protetto da un articolo del codice penale. I giornalisti però sanno per esperienza che quell’articolo non è uno scudo impenetrabile e perciò quando un pm insiste in ragione della sua indagine per avere una determinata informazione, rischiano in proprio: di essere incriminati, di essere arrestati.
Certo, anche i magistrati devono fare il loro mestiere, e perciò sarebbe bene avere finalmente anche nel nostro paese, come nei paesi civili più avanzati, norme e confini chiari per il segreto professionale. E intanto è bene limitare l’uso invasivo e strumenti di indagine coercitivi. Interrogatori e perquisizioni ripetuti a volte sono necessari anche nei confronti dei giornalisti. A volte sono atti dovuti, ma hanno sempre un effetto intimidatorio, anche al di là delle intenzioni. Tanto più se interferiscono con la raccolta di notizie di rilevante interesse per i cittadini e se nella vita di un giornalista si sommano ad altre iniziative formalmente corrette che gli fanno sentire il fiato sul collo mentre fa il lavoro di cronaca. Ancora più discutibili sono le iniziative giudiziarie che senza aggiungere nulla alla ricerca della verità “bruciano” le fonti di un cronista.
Nel 2010 Fabio Amendolara ha pubblicato un’informativa della squadra mobile di Potenza, redatta nel 2008, dalla quale si capisce che i servizi segreti italiani nel corso degli anni hanno svolto una indagine parallela a quella della magistratura lucana sui retroscena della scomparsa della studentessa di Potenza. L’inchiesta giudiziaria nel 2010 è sfociata nella scoperta del cadavere, al fatto che era stata uccisa, alla responsabilità di Danilo Restivo e, a novembre del 2011, alla sua condanna a trenta anni di reclusione per omicidio. Si intuisce che alcune risultanze dell’inchiesta parallela avrebbero potuto permettere alla magistratura di chiedere l’arresto di Danilo Restivo, da sempre il principale sospettato, anni prima che fosse arrestato dalla magistratura inglese per un altro omicidio e per il sospetto coinvolgimento nell’uccisione della studentessa di Potenza.
Partendo dalla vicenda di Fabio Amendolara i deputati radicali hanno chiesto una ispezione negli uffici giudiziari di Potenza. Il 7 febbraio 2012 il deputato radicale Maurizio Turco lo ha chiesto al presidente del Consiglio Mario Monti con una interrogazione parlamentare che collega questi fatti ad altri che hanno già sollevato analoghi interrogativi: in particolare le indagini sull’assassinio dei coniugi Gianfredi, uccisi a Potenza il 29 aprile del 1997, in un agguato che gli investigatori hanno definito «di stampo mafioso».
I FATTI – La vicenda di Fabio Amendolara è ricostruita nell’interrogazione parlamentare in questi termini: su disposizione della procura di Salerno, è stato sottoposto due volte a perquisizioni e sequestro di documenti sul caso Claps, e interrogato come «persona informata dei fatti», cioè senza essere indagato. La prima volta, l’8 gennaio 2011. La seconda volta, il 23 gennaio 2012. In questa occasione è stato trattenuto in questura per sei ore per essere interrogato su una presunta violazione del segreto di Stato mentre venivano effettuate perquisizioni nella sua redazione e nella sua abitazione privata.
Quattro giorni prima dell’ultimo interrogatorio, il 19 gennaio scorso, Amendolara ha pubblicato sulla Gazzetta del Mezzogiorno un articolo dal titolo «Un’intercettazione fa “riemergere” il verbale dimenticato». L’articolo riporta il contenuto di una informativa della polizia giudiziaria che evidenzia una testimonianza importante che il pubblico ministero avrebbe inspiegabilmente escluso dal fascicolo. L’articolo si conclude con queste parole: Ecco cosa ricostruiscono gli investigatori della Squadra mobile: «Marranghino, all’epoca giornalista della Rai di Potenza, nel corso della conversazione, comunica a Cervone (Nicheo Cervone, ex agente dei servizi segreti, ndr) che sarebbe stata trasmessa una sua intervista che riguardava proprio la vicenda della scomparsa di Elisa Claps e del processo che vedeva imputati Eris Gega e Restivo per il reato di falsa testimonianza. Rappresentava, inoltre, che nel corso del primo processo, durante una pausa, aveva avuto modo di notare un incontro avvenuto tra Eris Gega e Restivo. Marranghino – si legge nell’informativa della polizia – avrebbe verbalizzato la circostanza davanti agli ufficiali di polizia giudiziaria della polizia di Stato ma il pubblico ministero non avrebbe ammesso la testimonianza al processo. Quanto riferito da Marranghino nel corso delle conversazioni telefoniche in argomento – secondo gli investigatori – trova ampiamente riscontro negli atti di cui questo ufficio è in possesso, acquisiti nell’ambito delle indagini riguardanti la scomparsa della giovane Elisa Claps». Toccherà agli investigatori di Salerno accertare in quale ingranaggio della macchina giudiziaria si è inceppata anche quella testimonianza”.
L’interrogazione dei deputati radicali cita un successivo articolo di Fabio Amendolara, del 4 febbraio 2012, dal titolo: «Coperture di Stato per gli omicidi Claps e Gianfredi». Si tratta di una intervista a don Marcello Cozzi, referente lucano dell’associazione antimafia «Libera». Don Marcello rispondendo alle domande del giornalista chiede: «Perché è stata bruciata l’informativa del Sisde del 1997 sul caso Claps? E chi ha fatto, in quello stesso anno, la telefonata in Questura per dire che l’omicidio Gianfredi era stato uno sbaglio (una persona dall’accento calabrese chiamò al centralino della Questura e disse che l’intento era quello di uccidere un pentito siciliano che si pensava fosse nascosto a Potenza, ndr)? Erano entrambi depistaggi?. (…) Abbiamo notato che ogni qual volta i due casi vengono accostati c’è più di una persona che perde le staffe. C’è chi si arrabbia, tanto da avere manifestazioni strane e scomposte. E questo insospettirebbe chiunque. Ritengo, inoltre, che i due casi vadano inseriti in un contesto più ampio. È da tempo che in Basilicata pezzi dello Stato finiscono in inchieste su sospetti tentativi di condizionare l’attività giudiziaria. Cosa è accaduto in quegli anni nei palazzi di giustizia?».
«A proposito di queste inchieste – chiede Fabio Amendolara – è di qualche giorno fa la notizia di una strana indagine condotta dalla Procura di Potenza di cui si è occupato il procuratore aggiunto di Catanzaro Giuseppe Borrelli nell’inchiesta bis sulle toghe lucane. Lei è parte offesa». Don Marcello commenta: «Mi pare di capire, dagli articoli di giornale, che ci sia stato un tentativo di fermare me e la fondazione antiusura con metodi per nulla ordinari. Mi chiedo perché il pubblico ministero Claudia De Luca s’incontrasse con un ex agente del Sisde e con carabinieri e agenti della Guardia di finanza a San Nicola di Pietragalla. C’era un ufficio distaccato della Procura? O una Procura parallela?». «Ora ci diranno che era solo un incontro casuale.», incalza Amendolara. «Con tanto di relazione di servizio? E – risponde don Marcello – con la successiva convocazione di una vittima di usura che da noi è stata aiutata, ma che ha ottenuto il finanziamento solo dal ministero. Cosa avrebbero voluto che dicesse?».
Liberainformazione - Lo sapevate che sull’omicidio di Elisa Claps vige il segreto di Stato? Noi no. L’abbiamo appreso qualche giorno fa da Fabio Amendolara, giornalista della Gazzetta del Mezzogiorno, uno dei cronisti più documentati sulla incredibile vicenda della ragazza di Potenza scomparsa a Potenza il 12 settembre 1993 e ritrovata cadavere nel 2010 all’interno della chiesa della Santissima Trinitá della sua città. Fabio Amendolara, come ha raccontato a Matteo Finco, ha saputo solo il 23 gennaio scorso di essere sospettato di avere violato il segreto di Stato. Lo ha appreso da un ordine di perquisizione sulle sue cose: nella sua casa, nella sua automobile, nella sua redazione. "Non sapevo – ha commentato – che sul caso Claps fosse stato imposto questo segreto. Nessuno della mia redazione della Gazzetta del Mezzogiorno di Potenza lo sapeva". Se non lo sapevano lui e gli altri giornalisti che da quasi 19 anni seguono passo passo la vicenda, chi poteva saperlo? Fabio Amendolara ha 33 anni. Si occupa della sparizione della ragazza di Potenza da almeno dieci anni. E’ un giornalista tenace, scrupoloso, curioso. Non si accontenta di fare un collage dei comunicati ufficiali. Lui studia tutte le carte, cerca di capire, ascolta protagonisti e testimoni e pubblica articoli ben informati. Così è incappato nella rete appiccicosa e invisibile del segreto di Stato.
Nell’arco di un anno è stato sottoposto due volte a interrogatori stringenti e perquisizioni invasive ordinate dalla Procura di Salerno, l’ultima il 23 gennaio scorso. Fabio Amendolara non è formalmente indagato per rivelazione di segreto di Stato, ma è stato interrogato e perquisito perché è sospettato di aver commesso questo reato: è stato ascoltato come persona informata dei fatti dai magistrati, che vogliono sapere chi gli ha passato certe informazioni sull’operato di agenti dei servizi segreti. Gli stessi magistrati, per le stesse ragioni, un anno fa lo avevano già iscritto nel registro degli indagati per il reato di rilevazione del segreto d’ufficio. Le indagini sono ancora in corso.
“Chi le ha passato queste informazioni?”, hanno chiesto i magistrati ad Amendolara. Poiché il giornalista ha invocato il segreto professionale, hanno sequestrato i suoi appunti, il suo archivio, per cercare di scoprire chi gli passa certe informazioni: informazioni che mettono in dubbio il corretto operato della procura lucana nella prima fase delle indagini e come tali hanno un interesse generale, interessano cittadini e istituzioni. I magistrati hanno sfogliato gli appunti di Fabio poi glieli hanno restituiti tutti senza essere venuti a capo di nulla.
Non è bello, non è tranquillizzante subire interrogatori e perquisizioni, essere pressati per rivelare nomi e cognomi di persone che hanno fornito informazioni ponendo come condizione l’anonimato, si può parlare in tutta segretezza con un giornalista come con un prete che ti confessa, come con l’avvocato che ti assiste legalmente. Sapendo che il segreto professionale del giornalista è protetto da un articolo del codice penale. I giornalisti però sanno per esperienza che quell’articolo non è uno scudo impenetrabile e perciò quando un pm insiste in ragione della sua indagine per avere una determinata informazione, rischiano in proprio: di essere incriminati, di essere arrestati.
Certo, anche i magistrati devono fare il loro mestiere, e perciò sarebbe bene avere finalmente anche nel nostro paese, come nei paesi civili più avanzati, norme e confini chiari per il segreto professionale. E intanto è bene limitare l’uso invasivo e strumenti di indagine coercitivi. Interrogatori e perquisizioni ripetuti a volte sono necessari anche nei confronti dei giornalisti. A volte sono atti dovuti, ma hanno sempre un effetto intimidatorio, anche al di là delle intenzioni. Tanto più se interferiscono con la raccolta di notizie di rilevante interesse per i cittadini e se nella vita di un giornalista si sommano ad altre iniziative formalmente corrette che gli fanno sentire il fiato sul collo mentre fa il lavoro di cronaca. Ancora più discutibili sono le iniziative giudiziarie che senza aggiungere nulla alla ricerca della verità “bruciano” le fonti di un cronista.
Nel 2010 Fabio Amendolara ha pubblicato un’informativa della squadra mobile di Potenza, redatta nel 2008, dalla quale si capisce che i servizi segreti italiani nel corso degli anni hanno svolto una indagine parallela a quella della magistratura lucana sui retroscena della scomparsa della studentessa di Potenza. L’inchiesta giudiziaria nel 2010 è sfociata nella scoperta del cadavere, al fatto che era stata uccisa, alla responsabilità di Danilo Restivo e, a novembre del 2011, alla sua condanna a trenta anni di reclusione per omicidio. Si intuisce che alcune risultanze dell’inchiesta parallela avrebbero potuto permettere alla magistratura di chiedere l’arresto di Danilo Restivo, da sempre il principale sospettato, anni prima che fosse arrestato dalla magistratura inglese per un altro omicidio e per il sospetto coinvolgimento nell’uccisione della studentessa di Potenza.
Partendo dalla vicenda di Fabio Amendolara i deputati radicali hanno chiesto una ispezione negli uffici giudiziari di Potenza. Il 7 febbraio 2012 il deputato radicale Maurizio Turco lo ha chiesto al presidente del Consiglio Mario Monti con una interrogazione parlamentare che collega questi fatti ad altri che hanno già sollevato analoghi interrogativi: in particolare le indagini sull’assassinio dei coniugi Gianfredi, uccisi a Potenza il 29 aprile del 1997, in un agguato che gli investigatori hanno definito «di stampo mafioso».
I FATTI – La vicenda di Fabio Amendolara è ricostruita nell’interrogazione parlamentare in questi termini: su disposizione della procura di Salerno, è stato sottoposto due volte a perquisizioni e sequestro di documenti sul caso Claps, e interrogato come «persona informata dei fatti», cioè senza essere indagato. La prima volta, l’8 gennaio 2011. La seconda volta, il 23 gennaio 2012. In questa occasione è stato trattenuto in questura per sei ore per essere interrogato su una presunta violazione del segreto di Stato mentre venivano effettuate perquisizioni nella sua redazione e nella sua abitazione privata.
Quattro giorni prima dell’ultimo interrogatorio, il 19 gennaio scorso, Amendolara ha pubblicato sulla Gazzetta del Mezzogiorno un articolo dal titolo «Un’intercettazione fa “riemergere” il verbale dimenticato». L’articolo riporta il contenuto di una informativa della polizia giudiziaria che evidenzia una testimonianza importante che il pubblico ministero avrebbe inspiegabilmente escluso dal fascicolo. L’articolo si conclude con queste parole: Ecco cosa ricostruiscono gli investigatori della Squadra mobile: «Marranghino, all’epoca giornalista della Rai di Potenza, nel corso della conversazione, comunica a Cervone (Nicheo Cervone, ex agente dei servizi segreti, ndr) che sarebbe stata trasmessa una sua intervista che riguardava proprio la vicenda della scomparsa di Elisa Claps e del processo che vedeva imputati Eris Gega e Restivo per il reato di falsa testimonianza. Rappresentava, inoltre, che nel corso del primo processo, durante una pausa, aveva avuto modo di notare un incontro avvenuto tra Eris Gega e Restivo. Marranghino – si legge nell’informativa della polizia – avrebbe verbalizzato la circostanza davanti agli ufficiali di polizia giudiziaria della polizia di Stato ma il pubblico ministero non avrebbe ammesso la testimonianza al processo. Quanto riferito da Marranghino nel corso delle conversazioni telefoniche in argomento – secondo gli investigatori – trova ampiamente riscontro negli atti di cui questo ufficio è in possesso, acquisiti nell’ambito delle indagini riguardanti la scomparsa della giovane Elisa Claps». Toccherà agli investigatori di Salerno accertare in quale ingranaggio della macchina giudiziaria si è inceppata anche quella testimonianza”.
L’interrogazione dei deputati radicali cita un successivo articolo di Fabio Amendolara, del 4 febbraio 2012, dal titolo: «Coperture di Stato per gli omicidi Claps e Gianfredi». Si tratta di una intervista a don Marcello Cozzi, referente lucano dell’associazione antimafia «Libera». Don Marcello rispondendo alle domande del giornalista chiede: «Perché è stata bruciata l’informativa del Sisde del 1997 sul caso Claps? E chi ha fatto, in quello stesso anno, la telefonata in Questura per dire che l’omicidio Gianfredi era stato uno sbaglio (una persona dall’accento calabrese chiamò al centralino della Questura e disse che l’intento era quello di uccidere un pentito siciliano che si pensava fosse nascosto a Potenza, ndr)? Erano entrambi depistaggi?. (…) Abbiamo notato che ogni qual volta i due casi vengono accostati c’è più di una persona che perde le staffe. C’è chi si arrabbia, tanto da avere manifestazioni strane e scomposte. E questo insospettirebbe chiunque. Ritengo, inoltre, che i due casi vadano inseriti in un contesto più ampio. È da tempo che in Basilicata pezzi dello Stato finiscono in inchieste su sospetti tentativi di condizionare l’attività giudiziaria. Cosa è accaduto in quegli anni nei palazzi di giustizia?».
«A proposito di queste inchieste – chiede Fabio Amendolara – è di qualche giorno fa la notizia di una strana indagine condotta dalla Procura di Potenza di cui si è occupato il procuratore aggiunto di Catanzaro Giuseppe Borrelli nell’inchiesta bis sulle toghe lucane. Lei è parte offesa». Don Marcello commenta: «Mi pare di capire, dagli articoli di giornale, che ci sia stato un tentativo di fermare me e la fondazione antiusura con metodi per nulla ordinari. Mi chiedo perché il pubblico ministero Claudia De Luca s’incontrasse con un ex agente del Sisde e con carabinieri e agenti della Guardia di finanza a San Nicola di Pietragalla. C’era un ufficio distaccato della Procura? O una Procura parallela?». «Ora ci diranno che era solo un incontro casuale.», incalza Amendolara. «Con tanto di relazione di servizio? E – risponde don Marcello – con la successiva convocazione di una vittima di usura che da noi è stata aiutata, ma che ha ottenuto il finanziamento solo dal ministero. Cosa avrebbero voluto che dicesse?».
Alberto Spampinato
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