martedì, febbraio 21, 2012
L’allarme lanciato dalla Corte dei Conti ha suscitato clamore per l'entità di mazzette che circolano nel Paese. Due imprenditori calabresi hanno detto no.

Cittanuova - Probabilmente è vero che la relazione del presidente della Corte dei Conti, che ha definito la corruzione ancora «dilagante» nel nostro Paese e l’ha valutata in circa 60 milioni di euro l’anno, non ha sorpreso molti. Secondo l’osservatorio internazionale Transparency international, che pubblica annualmente delle ricerche sul livello di corruzione percepita – e quindi rende l’idea non tanto del tasso effettivo, quanto del sentire della gente – l’Italia non se la passa troppo bene: si colloca infatti al 69° posto, in compagnia del Ghana, con un indice di 3,9 (su una scala da 1 a 10, dove 10 sta per il livello di corruzione minimo).

Anche in quanto a propensione alla corruzione da parte delle aziende siamo al 15° posto su 28 Paesi censiti, con un punteggio di 7,6. Secondo un sondaggio condotto dalla stessa associazione, il 62 per cento degli italiani ritiene che la corruzione sia aumentata negli ultimi tre anni, il 59 per cento giudica insufficiente l’operato del governo nel contrastarla, e il 14 per cento ammette candidamente di aver pagato una mazzetta negli ultimi 12 mesi. Il soggetto percepito come più corrotto sono i partiti politici, con un indice di 4,4 su 5, e il Parlamento, con 4.

Tuttavia, gli italiani non disperano: secondo il 67 per cento degli intervistati i cittadini comuni possono fare la differenza. Un’opera quotidiana che va oltre il rifiuto della sola corruzione, ma anche dell’evasione, della scarsa trasparenza e dell’illegalità al largo. Le storie in questo senso sono tante, a conferma che l’opinione di questo 67 per cento non è campata in aria.

Tra queste, quella di due imprenditori calabresi, Gaetano Gabriele e Luca Aceti, che lavorano nel campo delle energie rinnovabili. Usciti da esperienze lavorative deludenti, in cui i rapporti tra dipendenti non erano rosei e il pagare in nero gli operai non era tabù, hanno deciso di creare ciascuno la propria società e unire poi le forze, dividendosi i lavori al 50 per cento. «Volevamo dare una risposta sotto il profilo occupazionale – spiega Gabriele – e buttare un seme qui nella nostra terra, per un senso di responsabilità verso le generazioni future».

Una scelta non facile: «Quando lavoravo nel campo dell’eolico per una grossa azienda nazionale – prosegue – diverse volte ci hanno tranciato i cavi dello strumento che serve per misurare il vento, tanto che alla fine quest’impresa se n’è andata dalla Calabria». Così, una volta capito che per continuare in quel settore avrebbe dovuto cercare appoggi poco trasparenti, Gabriele si è lanciato sul fotovoltaico insieme al socio. Dopo due anni di lavoro comune, pur con due società separate, un mese fa le due attività si sono fuse in una nuova azienda, la Solare Etica: «Al di là del fare tutto in regola – spiega Gabriele – la nostra volontà è quella di creare un tipo di azienda diversa, dove anche i dipendenti sono coinvolti nelle scelte da fare: ad esempio, abbiamo deciso insieme di rinunciare agli utili per comprare un furgone». Un’avventura appena cominciata, ma che parte da una solida base condivisa.

Certo rimane il fatto che «dobbiamo essere competitivi e confrontarci con società che hanno fatto scelte diverse», ma pare che questa filosofia di lavoro – al di là della spesso denunciata “concorrenza sleale” di chi non fa le cose alla luce del sole – paghi: «Siamo stati premiati da una delle più grosse riviste mondiali di fotovoltaico nel marzo 2011 per la qualità del nostro lavoro – riferisce –, e le banche, avendo fiducia nel nostro modo di operare, ci hanno finanziato in alcuni casi anche al cento per cento». Non poco, in tempi di stretta creditizia.

di Chiara Andreola

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