E' un Paese dall'animo diviso quello che oggi celebra il primo anniversario della rivolta che ha portato alla caduta di Gheddafi, con la sobrietà osservata del governo transitorio in memoria delle vittime che fa da contraltare all'esultanza spontanea registrata in molte città, senza poi dimenticare il malcontento degli sconfitti.
Radio Vaticana - A Bengasi, città-simbolo della Libia dove le contestazioni ebbero inizio, si è svolta stamani una breve cerimonia pubblica, mentre per domani, è programmata la Festa nazionale. Massimiliano Menichetti ha chiesto un commento sull'attuale situazione libica a Cristiano Tinazzi, giornalista testimone della primavera araba in questi giorni in Libia: ascolta
R. – Sia a Tripoli che a Bengasi, è ancora tutto fermo. Lo scenario è tutto da ricostruire ma sono tutti ottimisti e fiduciosi, anche se stanno ancora vivendo questa “ubriacatura” della vittoria e forse non pensano con chiarezza e con lucidità a quello che sarà il loro futuro. Gli scontri tribali stanno comunque continuando, perché non esiste più un governo centrale o comunque, essendo ancora un governo molto debole, non esiste una polizia nazionale o un esercito nazionale forte. Soprattutto al sud, continuano le prevaricazioni di una tribù sull’altra e ci sono anche delle città - come quelle del Jebel Garbi, che sono di origine berbera - che sono state tagliate fuori dal gioco politico più importante, nonostante abbiano dato un fortissimo contributo alla caduta del regime di Gheddafi.
D. – Ci sono notizie preoccupanti che affermano che decine di migliaia di ex ribelli, che hanno combattuto contro le forze di Gheddafi, ora formano potenti brigate che difendono un proprio territorio. E’ così?
R. – Da una parte, sì. Non voglio esagerare, ma le brigate più potenti – che sono quelle di Misurata e Zintan – dettano un po’ legge nel loro territorio. E’ lo stesso motivo per cui le milizie non vanno via da Tripoli, per cui le milizie di Zintan occupano l’aeroporto, così come quelle di Misurata occupano altre zone della città. E’ un problema che dovevano risolvere entro il 15 febbraio, perché era l’ultima data per la registrazione di tutti gli ex ribelli e la consegna delle armi. Quindi, la scelta da parte delle migliaia di ribelli di una carriera – se continuare gli studi, entrare nella polizia o nell’esercito – in realtà non è stata ancora fatta e le armi non vengono consegnate.
D. – L’ultimo Rapporto di Human Rights Watch, quello del 2012, denuncia che sono in aumento i casi di attacchi di rappresaglia contro chi è sospettato di aver sostenuto Gheddafi. E, nel mirino, ci sarebbero proprio le milizie di Misurata…
R. – Sì. Tra l’altro c’è la ferita, ancora aperta, della cittadina di Tauarga – che si trova a pochi chilometri da Misurata – che era apertamente filo-gheddafiana. Questa città viene periodicamente depredata e vengono sistematicamente distrutte tutte le case. Prima c’era un cartello con l’indicazione: “Tauarga – 30 km da Misurata” ed ora qualcuno ha scritto “150 mila chilometri”, come a voler dire che bisogna dimenticarsi di questa città, perché non esisterà più sulla carta geografica della Libia.
D. – L’intervento della comunità internazionale fu decisivo per la caduta di Gheddafi. Tu che ora sei in Libia, hai percezione di pressioni internazionali, della presenza internazionale in questa ricostruzione del Paese, oppure come viene visto l’Occidente?
R. – L’Occidente viene visto in senso positivo. La gente, chiaramente, desidera che vengano puniti quei Paesi – come Russia e Cina – che hanno in qualche modo frenato l’intervento internazionale. C’è un fortissimo attivismo da parte francese, ma la ricostruzione non è ancora partita. Tutte le grandi costruzioni, che erano in mano alle aziende straniere, sono ancora bloccate.
D. – Qual è la situazione sul fronte umanitario?
R. – All’interno della Libia, ci sono alcune situazioni di questo tipo: si parla di decine di migliaia di persone che sono state portate in una sorta di "campo profughi" a Tripoli, ci sono alcune tribù delle montagne che sono state cacciate dalle zone delle montagne del Jebel Nafusa e ci sono africani che si trovano ancora nel campo profughi di Shousha, che si trova al confine con la Tunisia. E poi, c’è più di un milione di persone uscito durante la guerra e che non è più rientrato. Erano lavoratori stranieri che si trovavano nel Paese.
D. – Solo pochi giorni fa, il leader del Cnt, Jalil, ha ribadito che la caduta del Consiglio nazionale di transizione sarebbe la fine per la Libia. Cosa dovrà fare per ricompattare il Paese?
R. – Dosare, a livello millesimale, ogni competenza e distribuzione per riequilibrare quello che, in fondo, aveva fatto Gheddafi. Il suo era comunque un regime in cui il potere era in mano alla famiglia Gheddafi e al suo clan, ma era anche distribuito alle varie tribù, proprio per cercare di compattare e creare un equilibrio all’interno dello Stato. Questo equilibrio è stato distrutto ed ora dev’essere ricostruito, altrimenti potrebbe esserci il caos. (vv)
Radio Vaticana - A Bengasi, città-simbolo della Libia dove le contestazioni ebbero inizio, si è svolta stamani una breve cerimonia pubblica, mentre per domani, è programmata la Festa nazionale. Massimiliano Menichetti ha chiesto un commento sull'attuale situazione libica a Cristiano Tinazzi, giornalista testimone della primavera araba in questi giorni in Libia: ascolta
R. – Sia a Tripoli che a Bengasi, è ancora tutto fermo. Lo scenario è tutto da ricostruire ma sono tutti ottimisti e fiduciosi, anche se stanno ancora vivendo questa “ubriacatura” della vittoria e forse non pensano con chiarezza e con lucidità a quello che sarà il loro futuro. Gli scontri tribali stanno comunque continuando, perché non esiste più un governo centrale o comunque, essendo ancora un governo molto debole, non esiste una polizia nazionale o un esercito nazionale forte. Soprattutto al sud, continuano le prevaricazioni di una tribù sull’altra e ci sono anche delle città - come quelle del Jebel Garbi, che sono di origine berbera - che sono state tagliate fuori dal gioco politico più importante, nonostante abbiano dato un fortissimo contributo alla caduta del regime di Gheddafi.
D. – Ci sono notizie preoccupanti che affermano che decine di migliaia di ex ribelli, che hanno combattuto contro le forze di Gheddafi, ora formano potenti brigate che difendono un proprio territorio. E’ così?
R. – Da una parte, sì. Non voglio esagerare, ma le brigate più potenti – che sono quelle di Misurata e Zintan – dettano un po’ legge nel loro territorio. E’ lo stesso motivo per cui le milizie non vanno via da Tripoli, per cui le milizie di Zintan occupano l’aeroporto, così come quelle di Misurata occupano altre zone della città. E’ un problema che dovevano risolvere entro il 15 febbraio, perché era l’ultima data per la registrazione di tutti gli ex ribelli e la consegna delle armi. Quindi, la scelta da parte delle migliaia di ribelli di una carriera – se continuare gli studi, entrare nella polizia o nell’esercito – in realtà non è stata ancora fatta e le armi non vengono consegnate.
D. – L’ultimo Rapporto di Human Rights Watch, quello del 2012, denuncia che sono in aumento i casi di attacchi di rappresaglia contro chi è sospettato di aver sostenuto Gheddafi. E, nel mirino, ci sarebbero proprio le milizie di Misurata…
R. – Sì. Tra l’altro c’è la ferita, ancora aperta, della cittadina di Tauarga – che si trova a pochi chilometri da Misurata – che era apertamente filo-gheddafiana. Questa città viene periodicamente depredata e vengono sistematicamente distrutte tutte le case. Prima c’era un cartello con l’indicazione: “Tauarga – 30 km da Misurata” ed ora qualcuno ha scritto “150 mila chilometri”, come a voler dire che bisogna dimenticarsi di questa città, perché non esisterà più sulla carta geografica della Libia.
D. – L’intervento della comunità internazionale fu decisivo per la caduta di Gheddafi. Tu che ora sei in Libia, hai percezione di pressioni internazionali, della presenza internazionale in questa ricostruzione del Paese, oppure come viene visto l’Occidente?
R. – L’Occidente viene visto in senso positivo. La gente, chiaramente, desidera che vengano puniti quei Paesi – come Russia e Cina – che hanno in qualche modo frenato l’intervento internazionale. C’è un fortissimo attivismo da parte francese, ma la ricostruzione non è ancora partita. Tutte le grandi costruzioni, che erano in mano alle aziende straniere, sono ancora bloccate.
D. – Qual è la situazione sul fronte umanitario?
R. – All’interno della Libia, ci sono alcune situazioni di questo tipo: si parla di decine di migliaia di persone che sono state portate in una sorta di "campo profughi" a Tripoli, ci sono alcune tribù delle montagne che sono state cacciate dalle zone delle montagne del Jebel Nafusa e ci sono africani che si trovano ancora nel campo profughi di Shousha, che si trova al confine con la Tunisia. E poi, c’è più di un milione di persone uscito durante la guerra e che non è più rientrato. Erano lavoratori stranieri che si trovavano nel Paese.
D. – Solo pochi giorni fa, il leader del Cnt, Jalil, ha ribadito che la caduta del Consiglio nazionale di transizione sarebbe la fine per la Libia. Cosa dovrà fare per ricompattare il Paese?
R. – Dosare, a livello millesimale, ogni competenza e distribuzione per riequilibrare quello che, in fondo, aveva fatto Gheddafi. Il suo era comunque un regime in cui il potere era in mano alla famiglia Gheddafi e al suo clan, ma era anche distribuito alle varie tribù, proprio per cercare di compattare e creare un equilibrio all’interno dello Stato. Questo equilibrio è stato distrutto ed ora dev’essere ricostruito, altrimenti potrebbe esserci il caos. (vv)
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