Nell’indice di sviluppo umano il Paese occupa ancora l’ultimo gradino della classifica mondiale
L’operazione militare in Afghanistan è nata 10 anni fa, all’indomani all’attacco alle Torri Gemelle, con un’intenzione chiara, quella di fare giustizia, anzi ‘infinita giustizia’. La sua denominazione originaria era infatti "Operation Infinite Justice", che portava con sé un implicito riferimento alla giustizia divina, ma poi è stata modificata per non offendere i mussulmani, perché solo Allah dispensa infinita giustizia (in realtà anche per noi cristiani l’ espressione è infelice, ma non siamo mai destinatari di simili tutele).
Il nome è diventato quindi "Operation Enduring Freedom” (operazione libertà durevole). L'obiettivo primario dell'operazione era quello di catturare Osama Bin Laden , ritenuto responsabile degli attentati dell’11 settembre. In questa ottica, l'operazione ha avuto successo: il regime dei talebani è stato rovesciato, Bin Laden è stato ucciso, le forze di sicurezza afgane sono state formate, un governo democratico è stato costituito.
Tutto questo però è avvenuto senza aver guadagnato il cuore della gente e ad un costo di vite umane altissimo, e il timido spiraglio di democratizzazione nel paese è avvenuto senza che sostanzialmente sia cambiata la condizione di vita quotidiana per la maggior parte della popolazione. Alla sanità, alla sicurezza e all’istruzione (gli alunni spesso hanno la possibilità di studiare ma non hanno gli insegnanti o un tetto per ospitarli) è stata destinata solo una misura infinitesimale dei fondi spesi per gli armamenti, e lo stesso per le infrastrutture e per la società civile.
E’ facile immaginarsi se sia stato conquistato il cuore dei 3.000.000 di sfollati o delle 500.000 persone abbandonate dal governo e dai donatori internazionali che sopravvivono nella miseria e a rischio di morte in ripari di fortuna attorno alle città del paese, a partire dalla cintura attorno a Kabul; se sia stato conquistato il cuore di chi sopravvive con l’aspettativa di vita di soli 44 anni; se sia stato conquistato il cuore di quelle madri che vedono morire così spesso i propri figli in un paese che ha ancora il triste primato della più alta mortalità infantile nel mondo (1 bambino su 5 non arriva al quinto anno d’età).
Ad aggravare tutto questo un clima di permanente insicurezza, vivere tra due fuochi: quello degli agguati e degli attentati dei talebani da una parte e quello delle reazioni dell’ISAF dall’altra. Ha destato scalpore il fatto che le ospiti di una prigione femminile costruita dall’Esercito Italiano a Herat (un centinaio di donne detenute per reati che vanno dall'abbandono del tetto coniugale, all'adulterio, all'uxoricidio, ma anche per aver disobbedito ad un matrimonio comandato e per tale colpa costrette a scontare decine di anni) giudicano la loro qualità di vita (dedita allo studio e a semplici lavori di sartoria) migliore in prigione che fuori. Questo episodio dà un indice di quanto alta sia la domanda di cambiamento. Mentre le 27.000 tonnellate di bombe sganciate nel solo 2010 non sono valse a destare altrettanto desiderio di riscatto e di libertà. Vaste zone del paese sono ancora sotto il controllo delle milizie armate ed interi paesi sono distrutti dai bombardamenti.
A tutto questo si aggiungono dati paradossali, come quelli della coltivazione di oppio, che è raddoppiata dal 2001 raggiungendo il 90% della coltivazione mondiale: è l’unico record del paese.
Come si viva in Afghanistan da soldato ce lo ricordano i 18 suicidi che avvengono ogni giorno negli USA tra i reduci tornati da Iraq e Afghanistan e i 500.000 ex-combattenti che soffrono di malattie da disturbo post-traumatico da stress (PTSD) per l’esperienza scioccante della guerra. Accanto all’episodio di cronaca del soldato americano che impazzisce ed uccide 16 afgani, bastava riportare questi semplici e terribili dati per far capire che esiste un problema sottaciuto, il problema che ancora una volta si è immaginato, come oggi spesso accade, qualcosa di diverso per la vita degli uomini, non partendo da quello che l’uomo è.
Non è avere gli strumenti per vincere che libera dalla responsabilità di chiedersi se è lecito usare tali strumenti e se può essere giustificato un così alto prezzo di vite umane innocenti. In Afghanistan, come altrove, abbiamo sempre visto che esperienze di incontro e di condivisione hanno ridestato negli uomini la coscienza di un destino comune. Solo quelle esigenze di costruzione dell’umano rendono degna la vita di essere vissuta e possono sperare di far rinascere un paese. Dovremmo capire tutti che le ‘strategie’ e le ‘corrette procedure’ che sottomettono la dignità dell’uomo generano solo utopie, e soprattutto generano quelle stesse ingiustizie che si è invece venuti ad eliminare.
L’operazione militare in Afghanistan è nata 10 anni fa, all’indomani all’attacco alle Torri Gemelle, con un’intenzione chiara, quella di fare giustizia, anzi ‘infinita giustizia’. La sua denominazione originaria era infatti "Operation Infinite Justice", che portava con sé un implicito riferimento alla giustizia divina, ma poi è stata modificata per non offendere i mussulmani, perché solo Allah dispensa infinita giustizia (in realtà anche per noi cristiani l’ espressione è infelice, ma non siamo mai destinatari di simili tutele).
Il nome è diventato quindi "Operation Enduring Freedom” (operazione libertà durevole). L'obiettivo primario dell'operazione era quello di catturare Osama Bin Laden , ritenuto responsabile degli attentati dell’11 settembre. In questa ottica, l'operazione ha avuto successo: il regime dei talebani è stato rovesciato, Bin Laden è stato ucciso, le forze di sicurezza afgane sono state formate, un governo democratico è stato costituito.
Tutto questo però è avvenuto senza aver guadagnato il cuore della gente e ad un costo di vite umane altissimo, e il timido spiraglio di democratizzazione nel paese è avvenuto senza che sostanzialmente sia cambiata la condizione di vita quotidiana per la maggior parte della popolazione. Alla sanità, alla sicurezza e all’istruzione (gli alunni spesso hanno la possibilità di studiare ma non hanno gli insegnanti o un tetto per ospitarli) è stata destinata solo una misura infinitesimale dei fondi spesi per gli armamenti, e lo stesso per le infrastrutture e per la società civile.
E’ facile immaginarsi se sia stato conquistato il cuore dei 3.000.000 di sfollati o delle 500.000 persone abbandonate dal governo e dai donatori internazionali che sopravvivono nella miseria e a rischio di morte in ripari di fortuna attorno alle città del paese, a partire dalla cintura attorno a Kabul; se sia stato conquistato il cuore di chi sopravvive con l’aspettativa di vita di soli 44 anni; se sia stato conquistato il cuore di quelle madri che vedono morire così spesso i propri figli in un paese che ha ancora il triste primato della più alta mortalità infantile nel mondo (1 bambino su 5 non arriva al quinto anno d’età).
Ad aggravare tutto questo un clima di permanente insicurezza, vivere tra due fuochi: quello degli agguati e degli attentati dei talebani da una parte e quello delle reazioni dell’ISAF dall’altra. Ha destato scalpore il fatto che le ospiti di una prigione femminile costruita dall’Esercito Italiano a Herat (un centinaio di donne detenute per reati che vanno dall'abbandono del tetto coniugale, all'adulterio, all'uxoricidio, ma anche per aver disobbedito ad un matrimonio comandato e per tale colpa costrette a scontare decine di anni) giudicano la loro qualità di vita (dedita allo studio e a semplici lavori di sartoria) migliore in prigione che fuori. Questo episodio dà un indice di quanto alta sia la domanda di cambiamento. Mentre le 27.000 tonnellate di bombe sganciate nel solo 2010 non sono valse a destare altrettanto desiderio di riscatto e di libertà. Vaste zone del paese sono ancora sotto il controllo delle milizie armate ed interi paesi sono distrutti dai bombardamenti.
A tutto questo si aggiungono dati paradossali, come quelli della coltivazione di oppio, che è raddoppiata dal 2001 raggiungendo il 90% della coltivazione mondiale: è l’unico record del paese.
Come si viva in Afghanistan da soldato ce lo ricordano i 18 suicidi che avvengono ogni giorno negli USA tra i reduci tornati da Iraq e Afghanistan e i 500.000 ex-combattenti che soffrono di malattie da disturbo post-traumatico da stress (PTSD) per l’esperienza scioccante della guerra. Accanto all’episodio di cronaca del soldato americano che impazzisce ed uccide 16 afgani, bastava riportare questi semplici e terribili dati per far capire che esiste un problema sottaciuto, il problema che ancora una volta si è immaginato, come oggi spesso accade, qualcosa di diverso per la vita degli uomini, non partendo da quello che l’uomo è.
Non è avere gli strumenti per vincere che libera dalla responsabilità di chiedersi se è lecito usare tali strumenti e se può essere giustificato un così alto prezzo di vite umane innocenti. In Afghanistan, come altrove, abbiamo sempre visto che esperienze di incontro e di condivisione hanno ridestato negli uomini la coscienza di un destino comune. Solo quelle esigenze di costruzione dell’umano rendono degna la vita di essere vissuta e possono sperare di far rinascere un paese. Dovremmo capire tutti che le ‘strategie’ e le ‘corrette procedure’ che sottomettono la dignità dell’uomo generano solo utopie, e soprattutto generano quelle stesse ingiustizie che si è invece venuti ad eliminare.
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