Sacerdote ambrosiano, don Isidoro Meschi è stato uno stimato educatore, un ricercato terapeuta dello spirito, un fine intellettuale, un martire della carità. Egli incontra la morte per mano di un amico, un ragazzo psicolabile di cui da anni si prendeva cura nel tentativo di riabilitarlo. Nella parrocchia di Busto Arsizio, dove si svolge quasi interamente il suo mandato pastorale, don Isidoro ha fondato una comunità di recupero di tossicodipendenti che ancora oggi si serve del metodo riabilitativo messo a punto dal sacerdote.
di Cristina Tessaro
Isidoro Meschi nasce il 7 giugno del 1945 a Merate, cittadina del lecchese. Il padre Guido è molto stimato tra i suoi concittadini per l’impegno come contabile dell’ospedale e della parrocchia, attività che presta gratuitamente, e come militante della Democrazia Cristiana. A Isidoro, fin da piccolo soprannominato Lolo, Gesù si manifesta a sei anni, durante la lezione di catechismo della maestra di scuola: il bimbo se ne innamora, tanto da maturare presto, “con un fulgore da non lasciare dubbio alcuno”, il desiderio di servirlo come sacerdote. La messa del mattino prima di scuola e la recita del Rosario diventano abitudini quotidiane per il piccolo Lolo, che a 14 anni entra nel seminario di Seveso.
Pochi mesi dopo, però, il padre Guido si ammala gravemente e nel giro di pochi mesi muore a soli 46 anni. La madre vorrebbe riportare Isidoro a casa con sé e con i due fratelli più piccoli, ma il ragazzo la convince a lasciarlo continuare gli studi. È così che nel 1969 Isidoro giunge all’ordinazione sacerdotale. Il suo primo incarico è nel seminario di Venegono Inferiore come vicerettore. Nel non facile clima di contestazione seguito al Sessantotto, con i ragazzi egli dimostra una rigorosa coerenza unita a una straordinaria capacità di comprensione e accoglienza.
Dopo tre anni, Isidoro viene assegnato alla basilica di San Giovanni a Busto Arsizio, in provincia di Varese. La sua vita pastorale è piena di impegni: educatore in oratorio nei primi anni, insegnante di religione nel liceo classico cittadino, membro del consiglio presbiterale diocesano, direttore del settimanale diocesano “Luce” nell’edizione dell’Alto milanese. Isidoro è molto apprezzato per le sue fini qualità intellettuali, ma è soprattutto sull’altare e nel confessionale che esprime il suo valore: è una guida spirituale instancabile e illuminata, le sue omelie lasciano il segno e il suo rapimento durante la celebrazione eucaristica ne rivelano la fede granitica e feconda. Nonostante i suoi molteplici impegni, infatti, Lolo è sempre pronto a visitare gli ammalati e le persone sole e a prendersi a cuore gli sbandati. Tra loro c’è un ragazzo psicolabile, Maurizio, che don Isidoro cerca in tutti i modi di riabilitare facendolo anche assumere nella redazione del “Luce”.
Anche il suo stile di vita ricalca i dettami evangelici: don Isidoro è astemio e si ciba solo dell’indispensabile, il suo abbigliamento è decoroso ma usurato dal tempo, all’auto preferisce la bicicletta, che usa anche per tenersi in forma, difficilmente accetta regali e rifiuta persino i caffè, tiene per sé solo il necessario e regala ai poveri tutto ciò di cui dispone: denaro, cibo, maglioni, persino il pigiama.
Negli anni Ottanta il dilagare dell’eroina tra i giovani non lo lascia indifferente: per loro apre un punto di ascolto e poi, confidando solo sulle forze proprie e di altri volontari, ristruttura una cascina per farne il centro di recupero “Marco Riva”. Rubando il tempo al sonno, studia libri di psicologia ed elabora un metodo di riabilitazione condensato nel volume: “Dallo sballo all’empatia”, ancora oggi alla base del lavoro della comunità.
La notte del 14 febbraio 1991 Maurizio, geloso delle attenzioni che il sacerdote riservava agli altri bisognosi, va a cercare Lolo alla “Marco Riva” armato di coltello. Il sacerdote viene messo in guardia dalla madre del ragazzo, ma lo affronta comunque da solo, per non mettere in pericolo gli altri. Una pugnalata al cuore gli è fatale: don Lolo muore a 46 anni, come aveva spesso profetizzato agli amici, pochi mesi dopo aver scritto il suo testamento spirituale, un vero capolavoro di religiosità.
La cerimonia funebre è celebrata da 150 sacerdoti e due vescovi e vi partecipa una folla immensa, stimata dalle cronache giornalistiche intorno alle 20mila persone. Alla messa di suffragio che l’aveva preceduta, il cardinale Carlo Maria Martini, allora arcivescovo della diocesi di Milano, aveva detto: “Chissà che un giorno questa morte non possa essere un segno per tutta la Chiesa e fare parte della santità della Chiesa.”.
Oggi, a distanza di 21 anni dalla sua morte, il ricordo di don Isidoro è ancora vivo e fecondo, non solo in chi ha avuto il privilegio di conoscerlo personalmente, ma anche in molti di coloro che si imbattono nel sito www.donisidoro.org o leggono la biografia di recente pubblicata dalle Paoline: “Don Isidoro Meschi. Un «prete felice»”.
di Cristina Tessaro
Isidoro Meschi nasce il 7 giugno del 1945 a Merate, cittadina del lecchese. Il padre Guido è molto stimato tra i suoi concittadini per l’impegno come contabile dell’ospedale e della parrocchia, attività che presta gratuitamente, e come militante della Democrazia Cristiana. A Isidoro, fin da piccolo soprannominato Lolo, Gesù si manifesta a sei anni, durante la lezione di catechismo della maestra di scuola: il bimbo se ne innamora, tanto da maturare presto, “con un fulgore da non lasciare dubbio alcuno”, il desiderio di servirlo come sacerdote. La messa del mattino prima di scuola e la recita del Rosario diventano abitudini quotidiane per il piccolo Lolo, che a 14 anni entra nel seminario di Seveso.
Pochi mesi dopo, però, il padre Guido si ammala gravemente e nel giro di pochi mesi muore a soli 46 anni. La madre vorrebbe riportare Isidoro a casa con sé e con i due fratelli più piccoli, ma il ragazzo la convince a lasciarlo continuare gli studi. È così che nel 1969 Isidoro giunge all’ordinazione sacerdotale. Il suo primo incarico è nel seminario di Venegono Inferiore come vicerettore. Nel non facile clima di contestazione seguito al Sessantotto, con i ragazzi egli dimostra una rigorosa coerenza unita a una straordinaria capacità di comprensione e accoglienza.
Dopo tre anni, Isidoro viene assegnato alla basilica di San Giovanni a Busto Arsizio, in provincia di Varese. La sua vita pastorale è piena di impegni: educatore in oratorio nei primi anni, insegnante di religione nel liceo classico cittadino, membro del consiglio presbiterale diocesano, direttore del settimanale diocesano “Luce” nell’edizione dell’Alto milanese. Isidoro è molto apprezzato per le sue fini qualità intellettuali, ma è soprattutto sull’altare e nel confessionale che esprime il suo valore: è una guida spirituale instancabile e illuminata, le sue omelie lasciano il segno e il suo rapimento durante la celebrazione eucaristica ne rivelano la fede granitica e feconda. Nonostante i suoi molteplici impegni, infatti, Lolo è sempre pronto a visitare gli ammalati e le persone sole e a prendersi a cuore gli sbandati. Tra loro c’è un ragazzo psicolabile, Maurizio, che don Isidoro cerca in tutti i modi di riabilitare facendolo anche assumere nella redazione del “Luce”.
Anche il suo stile di vita ricalca i dettami evangelici: don Isidoro è astemio e si ciba solo dell’indispensabile, il suo abbigliamento è decoroso ma usurato dal tempo, all’auto preferisce la bicicletta, che usa anche per tenersi in forma, difficilmente accetta regali e rifiuta persino i caffè, tiene per sé solo il necessario e regala ai poveri tutto ciò di cui dispone: denaro, cibo, maglioni, persino il pigiama.
Negli anni Ottanta il dilagare dell’eroina tra i giovani non lo lascia indifferente: per loro apre un punto di ascolto e poi, confidando solo sulle forze proprie e di altri volontari, ristruttura una cascina per farne il centro di recupero “Marco Riva”. Rubando il tempo al sonno, studia libri di psicologia ed elabora un metodo di riabilitazione condensato nel volume: “Dallo sballo all’empatia”, ancora oggi alla base del lavoro della comunità.
La notte del 14 febbraio 1991 Maurizio, geloso delle attenzioni che il sacerdote riservava agli altri bisognosi, va a cercare Lolo alla “Marco Riva” armato di coltello. Il sacerdote viene messo in guardia dalla madre del ragazzo, ma lo affronta comunque da solo, per non mettere in pericolo gli altri. Una pugnalata al cuore gli è fatale: don Lolo muore a 46 anni, come aveva spesso profetizzato agli amici, pochi mesi dopo aver scritto il suo testamento spirituale, un vero capolavoro di religiosità.
La cerimonia funebre è celebrata da 150 sacerdoti e due vescovi e vi partecipa una folla immensa, stimata dalle cronache giornalistiche intorno alle 20mila persone. Alla messa di suffragio che l’aveva preceduta, il cardinale Carlo Maria Martini, allora arcivescovo della diocesi di Milano, aveva detto: “Chissà che un giorno questa morte non possa essere un segno per tutta la Chiesa e fare parte della santità della Chiesa.”.
Oggi, a distanza di 21 anni dalla sua morte, il ricordo di don Isidoro è ancora vivo e fecondo, non solo in chi ha avuto il privilegio di conoscerlo personalmente, ma anche in molti di coloro che si imbattono nel sito www.donisidoro.org o leggono la biografia di recente pubblicata dalle Paoline: “Don Isidoro Meschi. Un «prete felice»”.
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