Cacciato Gheddafi, la Libia vive un lungo momento di transizione, tra diatribe etniche e troppe armi in giro. E l’Europa sta a guardare
Città Nuova - Gheddafi era un incubo per i libici. Ora non c’è più, e non è un male, ma gli incubi non sono cessati in Libia. Sono però cambiati. Hanno il suono delle sparatorie che continuano a udirsi, soprattutto nelle serate e nelle notti trascorse al riparo della propria casa. La gente comincia addirittura a chiedersi se una normalità di vita potrà mai esistere. Eppure qualche segno di normalità ricomincia a far capolino, come il ritorno di tanti filippini che lavorano soprattutto negli ospedali, come infermieri e portantini; o come l’attività produttiva petrolifera, che ha raggiunto il 70 per cento dei livelli precedenti al conflitto, anche se le grandi imprese multinazionali inviano i loro tecnici solo per un mese alla volta, vivono nei bunker e sono protetti da robuste pattuglie di vigilantes; le merci hanno fatto la loro ricomparsa sulle scansie dei negozi, si trova di tutto, ma i prezzi sono lievitati; gli ospedali cominciano a funzionare come si deve, erano un fiore all’occhiello del regime del rais.
Conversando con amici che vivono a Tripoli, emerge un panorama assai contradditorio. Sirte, Misurata e Tawarga – luoghi dove i fedelissimi di Gheddafi si erano rinchiusi fino alla resa – sono città-fantasma. Solo a Sirte la vita riprende poco alla volta, riapre qualche negozietto, si riaccendono delle luci nelle case sforacchiate di proiettili. Ma la situazione è instabile. A Bengasi un comitato di ribelli non ben identificato reclama l’indipendenza della Cirenaica dalla Tripolitania, dando fiato a quello che tanti, tantissimi pensano ma non dicono, dopo la guerra: che cioè le due parti storicamente forti della Libia debbono andare ognuna per la propria strada, la Cirenaica gonfia di petrolio, la Tripolitania ricca di commerci.
I partiti cercano di trovare una loro credibilità: finora solo gli islamici moderati – simili ai Fratelli musulmani egiziani o all’Hennada dei tunisini – riescono ad avere un loro riconoscimento popolare. Finirà probabilmente in Libia come in Marocco, in Tunisia, in Egitto, con la vittoria alle elezioni dei musulmani della galassia dei Fratelli musulmani. Ma in Libia i partiti debbono fare i conti con le divisioni tribali: basti l’esempio di Zentan, che ha offerto il sangue di molti “martiri” alla guerra contro Gheddafi, e ora reclama la giusta mercede, vuole la sua fetta di potere. I gheddafiani non si mostrano, ovviamente; ogni tanto si viene a conoscenza della vendetta che colpisce l’uno o l’altro, qualcuno scompare, qualcun altro viene incarcerato. I tribunali sono molto severi coi gheddafiani, che però sono ancora molto più numerosi di quanto non si pensi.
E il governo provvisorio? Cerca di farsi spazio, di acquistare credibilità agli occhi dei cittadini, ma fa fatica. Non si è abituati alle libertà da queste parti. Gli appelli al disarmo, a restituire le armi, si moltiplicano, ma rimangono praticamente sempre disattesi. La realtà è che il potere è parcellizzato, ogni fazione, ogni tribù, ogni partito cerca di accaparrarsi una fetta di potere, col risultato di una grande insicurezza e di una forte incertezza nell’avvenire. Il governo cerca altresì di concedere alle popolazioni un po’ di libertà, goccia a goccia, per non far saltare la pentola delle rivolte sociali. Non esiste ancora una vera e propria polizia, ci si basa sulle bande “arruolate” dal governo. Si circola senza targhe, o con targhe contraffatte o modificate. Si cerca di sopravvivere e di farsi largo nel nuovo panorama che si sta aprendo. Le infiltrazioni qaediste paiono preoccupare soprattutto in Cirenaica, meno in Tripolitania.
I cattolici continuano la loro vita. La comunità resiste: nessuna chiesa è stata profanata, né oggetto di raffiche di mitra, né di alcunché di violento. Un miracolo, secondo alcuni esponenti della comunità di Tripoli. Solo la chiesa copto-ortodossa della capitale è stata danneggiata, ma indirettamente: un attentato aveva distrutto una contigua caserma. La comunità s’è ricomposta, tornano i migranti africani e asiatici. Ma si celebrano le messe solo la mattina, meglio essere ancora prudenti.
Appare evidente, ora più che mai, come la rivoluzione araba di un anno fa sia stata solo un pretesto per lo scoppio di interessi contrapposti e di regolamenti di conti tra bande rivali, alcune cresciute all’ombra dello stesso regime gheddafiano. Una cosa pare soddisfare tutti: la nuova libertà, anche se spesso i libici non sanno che farsene di questa improvvisa libertà, non sanno gestirla. Ma i libici, c’è da starne certi, sono fieri di questa libertà conquistata. Questo è l’unico minimo comune denominatore del Paese uscito dalla guerra.
Città Nuova - Gheddafi era un incubo per i libici. Ora non c’è più, e non è un male, ma gli incubi non sono cessati in Libia. Sono però cambiati. Hanno il suono delle sparatorie che continuano a udirsi, soprattutto nelle serate e nelle notti trascorse al riparo della propria casa. La gente comincia addirittura a chiedersi se una normalità di vita potrà mai esistere. Eppure qualche segno di normalità ricomincia a far capolino, come il ritorno di tanti filippini che lavorano soprattutto negli ospedali, come infermieri e portantini; o come l’attività produttiva petrolifera, che ha raggiunto il 70 per cento dei livelli precedenti al conflitto, anche se le grandi imprese multinazionali inviano i loro tecnici solo per un mese alla volta, vivono nei bunker e sono protetti da robuste pattuglie di vigilantes; le merci hanno fatto la loro ricomparsa sulle scansie dei negozi, si trova di tutto, ma i prezzi sono lievitati; gli ospedali cominciano a funzionare come si deve, erano un fiore all’occhiello del regime del rais.
Conversando con amici che vivono a Tripoli, emerge un panorama assai contradditorio. Sirte, Misurata e Tawarga – luoghi dove i fedelissimi di Gheddafi si erano rinchiusi fino alla resa – sono città-fantasma. Solo a Sirte la vita riprende poco alla volta, riapre qualche negozietto, si riaccendono delle luci nelle case sforacchiate di proiettili. Ma la situazione è instabile. A Bengasi un comitato di ribelli non ben identificato reclama l’indipendenza della Cirenaica dalla Tripolitania, dando fiato a quello che tanti, tantissimi pensano ma non dicono, dopo la guerra: che cioè le due parti storicamente forti della Libia debbono andare ognuna per la propria strada, la Cirenaica gonfia di petrolio, la Tripolitania ricca di commerci.
I partiti cercano di trovare una loro credibilità: finora solo gli islamici moderati – simili ai Fratelli musulmani egiziani o all’Hennada dei tunisini – riescono ad avere un loro riconoscimento popolare. Finirà probabilmente in Libia come in Marocco, in Tunisia, in Egitto, con la vittoria alle elezioni dei musulmani della galassia dei Fratelli musulmani. Ma in Libia i partiti debbono fare i conti con le divisioni tribali: basti l’esempio di Zentan, che ha offerto il sangue di molti “martiri” alla guerra contro Gheddafi, e ora reclama la giusta mercede, vuole la sua fetta di potere. I gheddafiani non si mostrano, ovviamente; ogni tanto si viene a conoscenza della vendetta che colpisce l’uno o l’altro, qualcuno scompare, qualcun altro viene incarcerato. I tribunali sono molto severi coi gheddafiani, che però sono ancora molto più numerosi di quanto non si pensi.
E il governo provvisorio? Cerca di farsi spazio, di acquistare credibilità agli occhi dei cittadini, ma fa fatica. Non si è abituati alle libertà da queste parti. Gli appelli al disarmo, a restituire le armi, si moltiplicano, ma rimangono praticamente sempre disattesi. La realtà è che il potere è parcellizzato, ogni fazione, ogni tribù, ogni partito cerca di accaparrarsi una fetta di potere, col risultato di una grande insicurezza e di una forte incertezza nell’avvenire. Il governo cerca altresì di concedere alle popolazioni un po’ di libertà, goccia a goccia, per non far saltare la pentola delle rivolte sociali. Non esiste ancora una vera e propria polizia, ci si basa sulle bande “arruolate” dal governo. Si circola senza targhe, o con targhe contraffatte o modificate. Si cerca di sopravvivere e di farsi largo nel nuovo panorama che si sta aprendo. Le infiltrazioni qaediste paiono preoccupare soprattutto in Cirenaica, meno in Tripolitania.
I cattolici continuano la loro vita. La comunità resiste: nessuna chiesa è stata profanata, né oggetto di raffiche di mitra, né di alcunché di violento. Un miracolo, secondo alcuni esponenti della comunità di Tripoli. Solo la chiesa copto-ortodossa della capitale è stata danneggiata, ma indirettamente: un attentato aveva distrutto una contigua caserma. La comunità s’è ricomposta, tornano i migranti africani e asiatici. Ma si celebrano le messe solo la mattina, meglio essere ancora prudenti.
Appare evidente, ora più che mai, come la rivoluzione araba di un anno fa sia stata solo un pretesto per lo scoppio di interessi contrapposti e di regolamenti di conti tra bande rivali, alcune cresciute all’ombra dello stesso regime gheddafiano. Una cosa pare soddisfare tutti: la nuova libertà, anche se spesso i libici non sanno che farsene di questa improvvisa libertà, non sanno gestirla. Ma i libici, c’è da starne certi, sono fieri di questa libertà conquistata. Questo è l’unico minimo comune denominatore del Paese uscito dalla guerra.
Michele Zanzucchi
Tweet |
Sono presenti 0 commenti
Inserisci un commento
Gentile lettore, i commenti contententi un linguaggio scorretto e offensivo verranno rimossi.