La fecondazione in vitro tra considerazioni di carattere bioetico e antropologico. Una tecnica davvero rispettosa della vita umana e della dignità della procreazione?
Nell’udienza tenuta il 25 febbraio presso il Palazzo apostolico vaticano in occasione della XVIII Assemblea generale della Pontificia accademia per la vita, il Papa, affrontando il delicato tema dell’infertilità e della sterilità nella coppia, ha ribadito l’insegnamento tradizionale della Chiesa, secondo cui "la procreazione non consiste in un 'prodotto', ma nel suo legame con l'atto coniugale, espressione dell'amore dei coniugi, della loro unione non solo biologica, ma anche spirituale". L’intervento costituisce l’occasione per tornare a riflettere sugli aspetti etici e antropologici legati alle tecniche di fecondazione artificiale. Una delle più diffuse tecniche di fecondazione artificiale è rappresentata dalla Fivet (ossia dalla fecondazione in vitro con successivo trasferimento dell’embrione nell’utero della donna), la quale, a seconda che i gameti provengano dalla coppia o da donatori esterni, si distinguerà in omologa o eterologa. Della fecondazione artificiale eterologa (comprensiva tanto della Fivet quanto dell’inseminazione artificiale eterologa) ho già trattato in un precedente articolo: essa pone invero dei problemi peculiari, legati al rispetto dei doveri di fedeltà dei coniugi e dell’unità del matrimonio (per cui i coniugi hanno il diritto di diventare genitori soltanto l’uno attraverso l’altro) nonché al rispetto del diritto del concepito a conoscere e ad instaurare una relazione filiale con le sue origini parentali. Problemi di questo tipo non si pongono ovviamente con riguardo alle tecniche di fecondazione artificiale omologa: queste, tuttavia, mettono sul tappeto altre e non meno rilevanti questioni di carattere morale e bioetico, che sarà bene adesso esaminare.
Dal punto di vista più specificamente bioetico, le tecniche di fecondazione in vitro (tanto omologa quanto eterologa) sollevano non poche obiezioni legate al rispetto della vita umana. Il successo di queste tecniche dipende non a caso dalla distruzione di un considerevole numero di embrioni umani. Infatti, normalmente accade che solo alcuni degli embrioni coltivati in vitro vengano trasferiti nelle vie genitali della donna: gli altri embrioni, c. d. “soprannumerari”, vengono o distrutti o congelati in vista di ulteriori impianti (qualora il primo intervento di impianto nell’utero della donna dovesse fallire). Il solo criterio seguito dal medico nella scelta degli embrioni da impiantare è di tipo utilitaristico: la vita di esseri umani nello stadio iniziale del loro sviluppo è quindi legata unicamente all’esigenza di assicurare il successo della procedura. La persona umana, da fine, viene ridotta a mezzo per il perseguimento di finalità altre, con conseguente negazione del principio stesso della dignità umana. Gli embrioni prodotti in vitro sono inoltre esposti ad ogni tipo di abuso e di arbitrio, che rende la loro esistenza estremamente precaria: potrebbero infatti verificarsi delle complicanze che rendono impossibile il successivo impianto o semplicemente la donna potrebbe cambiare idea e revocare il consenso originariamente prestato, prima che gli embrioni prodotti siano trasferiti nel suo utero.
La separazione tra procreazione e sessualità conduce inevitabilmente ad esiti di questo tipo, certo non rispettosi della dignità della persona umana. La fecondazione in vitro (in questa sede tralasciamo di trattare dell’inseminazione artificiale, la quale pone problematiche affatto diverse), sia essa omologa sia essa eterologa, solleva problemi etici analoghi a quelli suscitati dalle procedure abortive, sovente dando luogo a forme di “aborto preuterino”, tanto più gravi (dal punto di vista morale) in quanto – a differenza dell’aborto propriamente detto – quell’esigenza di contemperare il diritto alla vita (o alla salute) della madre con il corrispondente diritto alla vita (o alla salute) del figlio o manca del tutto o si fa estremamente remota (in qualche caso addirittura ipotetica). Inoltre, anche quando un effettivo pericolo alla salute della donna dovesse derivare dall’impianto dell’embrione coltivato in vitro, non si può certo sostenere che il pericolo non sia stato preveduto e, in qualche misura, accettato, data l’intrinseca pericolosità della procedura utilizzata.
Accanto alle obiezioni di carattere squisitamente bioetico prima accennate, altre e non meno rilevanti di tipo antropologico potrebbero essere sollevate, dal momento che le tecniche di fecondazione artificiale che, come la Fivet, permettono di prescindere del tutto dall’atto coniugale, finiscono con l’alterare la stessa nozione di genitorialità e di filiazione. Come ha sapientemente rilevato il Magistero della Chiesa (vedi in particolare l’istruzione “Donum vitae” redatta dalla Congregazione per la dottrina della fede nel 1987 e approvata da Giovanni Paolo II), la Fivet, ancorché omologa, “è attuata al di fuori del corpo dei coniugi mediante gesti di terze persone la cui competenza e attività tecnica determinano il successo dell’intervento; essa affida la vita e l’identità dell’embrione al potere dei medici e dei biologi e instaura un dominio della tecnica sull’origine e sul destino della persona umana”. Dominio in sé contrario alla dignità e all’eguaglianza che deve essere comune a genitori e figli. I figli non possono essere ridotti a mero prodotto della tecnica: quando ciò accade l’eguaglianza in dignità che dovrebbe caratterizzare la relazione tra genitori e figli viene inevitabilmente compromessa. Se la vita umana viene concepita come prodotto della tecnica, le conseguenze sul piano antropologico possono essere devastanti: un prodotto può infatti essere creato quando serve, consumato e poi distrutto quando non è più di utilità alcuna. Il dominio crescente della tecnica sul momento iniziale e su quello finale dell’esistenza sta provocando nell’uomo contemporaneo un vero e proprio delirio di onnipotenza, con conseguente desacralizzazione della vita umana.
Ci sono due modi invero di concepire la vita umana e i figli: come dono del cielo o come prodotto. Quando dalla logica del dono si passa a quella del prodotto, diventa impossibile perfino comprendere il valore della persona umana e le ragioni della sua dignità. Ma non è forse questa la direzione verso cui l’occidente secolarizzato si è incamminato?
Nell’udienza tenuta il 25 febbraio presso il Palazzo apostolico vaticano in occasione della XVIII Assemblea generale della Pontificia accademia per la vita, il Papa, affrontando il delicato tema dell’infertilità e della sterilità nella coppia, ha ribadito l’insegnamento tradizionale della Chiesa, secondo cui "la procreazione non consiste in un 'prodotto', ma nel suo legame con l'atto coniugale, espressione dell'amore dei coniugi, della loro unione non solo biologica, ma anche spirituale". L’intervento costituisce l’occasione per tornare a riflettere sugli aspetti etici e antropologici legati alle tecniche di fecondazione artificiale. Una delle più diffuse tecniche di fecondazione artificiale è rappresentata dalla Fivet (ossia dalla fecondazione in vitro con successivo trasferimento dell’embrione nell’utero della donna), la quale, a seconda che i gameti provengano dalla coppia o da donatori esterni, si distinguerà in omologa o eterologa. Della fecondazione artificiale eterologa (comprensiva tanto della Fivet quanto dell’inseminazione artificiale eterologa) ho già trattato in un precedente articolo: essa pone invero dei problemi peculiari, legati al rispetto dei doveri di fedeltà dei coniugi e dell’unità del matrimonio (per cui i coniugi hanno il diritto di diventare genitori soltanto l’uno attraverso l’altro) nonché al rispetto del diritto del concepito a conoscere e ad instaurare una relazione filiale con le sue origini parentali. Problemi di questo tipo non si pongono ovviamente con riguardo alle tecniche di fecondazione artificiale omologa: queste, tuttavia, mettono sul tappeto altre e non meno rilevanti questioni di carattere morale e bioetico, che sarà bene adesso esaminare.
Dal punto di vista più specificamente bioetico, le tecniche di fecondazione in vitro (tanto omologa quanto eterologa) sollevano non poche obiezioni legate al rispetto della vita umana. Il successo di queste tecniche dipende non a caso dalla distruzione di un considerevole numero di embrioni umani. Infatti, normalmente accade che solo alcuni degli embrioni coltivati in vitro vengano trasferiti nelle vie genitali della donna: gli altri embrioni, c. d. “soprannumerari”, vengono o distrutti o congelati in vista di ulteriori impianti (qualora il primo intervento di impianto nell’utero della donna dovesse fallire). Il solo criterio seguito dal medico nella scelta degli embrioni da impiantare è di tipo utilitaristico: la vita di esseri umani nello stadio iniziale del loro sviluppo è quindi legata unicamente all’esigenza di assicurare il successo della procedura. La persona umana, da fine, viene ridotta a mezzo per il perseguimento di finalità altre, con conseguente negazione del principio stesso della dignità umana. Gli embrioni prodotti in vitro sono inoltre esposti ad ogni tipo di abuso e di arbitrio, che rende la loro esistenza estremamente precaria: potrebbero infatti verificarsi delle complicanze che rendono impossibile il successivo impianto o semplicemente la donna potrebbe cambiare idea e revocare il consenso originariamente prestato, prima che gli embrioni prodotti siano trasferiti nel suo utero.
La separazione tra procreazione e sessualità conduce inevitabilmente ad esiti di questo tipo, certo non rispettosi della dignità della persona umana. La fecondazione in vitro (in questa sede tralasciamo di trattare dell’inseminazione artificiale, la quale pone problematiche affatto diverse), sia essa omologa sia essa eterologa, solleva problemi etici analoghi a quelli suscitati dalle procedure abortive, sovente dando luogo a forme di “aborto preuterino”, tanto più gravi (dal punto di vista morale) in quanto – a differenza dell’aborto propriamente detto – quell’esigenza di contemperare il diritto alla vita (o alla salute) della madre con il corrispondente diritto alla vita (o alla salute) del figlio o manca del tutto o si fa estremamente remota (in qualche caso addirittura ipotetica). Inoltre, anche quando un effettivo pericolo alla salute della donna dovesse derivare dall’impianto dell’embrione coltivato in vitro, non si può certo sostenere che il pericolo non sia stato preveduto e, in qualche misura, accettato, data l’intrinseca pericolosità della procedura utilizzata.
Accanto alle obiezioni di carattere squisitamente bioetico prima accennate, altre e non meno rilevanti di tipo antropologico potrebbero essere sollevate, dal momento che le tecniche di fecondazione artificiale che, come la Fivet, permettono di prescindere del tutto dall’atto coniugale, finiscono con l’alterare la stessa nozione di genitorialità e di filiazione. Come ha sapientemente rilevato il Magistero della Chiesa (vedi in particolare l’istruzione “Donum vitae” redatta dalla Congregazione per la dottrina della fede nel 1987 e approvata da Giovanni Paolo II), la Fivet, ancorché omologa, “è attuata al di fuori del corpo dei coniugi mediante gesti di terze persone la cui competenza e attività tecnica determinano il successo dell’intervento; essa affida la vita e l’identità dell’embrione al potere dei medici e dei biologi e instaura un dominio della tecnica sull’origine e sul destino della persona umana”. Dominio in sé contrario alla dignità e all’eguaglianza che deve essere comune a genitori e figli. I figli non possono essere ridotti a mero prodotto della tecnica: quando ciò accade l’eguaglianza in dignità che dovrebbe caratterizzare la relazione tra genitori e figli viene inevitabilmente compromessa. Se la vita umana viene concepita come prodotto della tecnica, le conseguenze sul piano antropologico possono essere devastanti: un prodotto può infatti essere creato quando serve, consumato e poi distrutto quando non è più di utilità alcuna. Il dominio crescente della tecnica sul momento iniziale e su quello finale dell’esistenza sta provocando nell’uomo contemporaneo un vero e proprio delirio di onnipotenza, con conseguente desacralizzazione della vita umana.
Ci sono due modi invero di concepire la vita umana e i figli: come dono del cielo o come prodotto. Quando dalla logica del dono si passa a quella del prodotto, diventa impossibile perfino comprendere il valore della persona umana e le ragioni della sua dignità. Ma non è forse questa la direzione verso cui l’occidente secolarizzato si è incamminato?
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