Domenica della Trasfigurazione del Signore. Alla messa della nostra comunità di italiani emigrati, al Padre nostro, salgono attorno all’altare dei ragazzi. Il senso di una festa…
Alcuni sono italiani, altri, dal bel colore olivastro, eritrei. Sono dodici, portano sul palmo un lumino appena acceso al cero pasquale, tra il silenzio e lo sguardo della gente che li accompagna fin sopra i gradini. Consegnato, infatti, all’entrata, era rimasto a lungo un punto interrogativo. Ma poi dopo l’omelia capiscono che essi stessi ricordano i primi discepoli e milioni di altri ancora, che hanno fatto lo stesso cammino di passione e di morte del Maestro. Una vita paradossale, un fallimento apparente. Trasfigurati ora come lui: una luce.
L’assemblea di migranti che ritrovo nella chiesa a Londra di Brixton Road lo sa: è il loro stesso cammino, un calvario o una via crucis, come si voglia chiamarlo. La vita di ogni migrante lo è. Anche se lentamente poi si trasforma, si trasfigura e si illumina. Da tragedia sa diventare spesso una luce per tutti. Sa entrare negli occhi e nel cuore degli altri.
Così, nelle nostre celebrazioni interviene di solito un simbolo. “La parola è un libro chiuso, ma il simbolo è un libro aperto...” suggeriva l’altro giorno qualcuno. Per una comunità di migranti un gesto simbolico, un simbolo o un oggetto della loro vita messo in valore parla al cuore dell’assemblea più di ogni parola. L’altra domenica era stato un bambino di sei anni. Durante la lettura del vangelo del lebbroso guarito - l’emarginato per eccellenza - saliva dritto dal fondo della chiesa fino all’ambone con una maschera inespressiva, completamente bianca, sul volto. Camminava con passo ritmato, serio, sembrava caduto da un altro mondo. Arrivato alla fine del brano di vangelo, il prete gli toglieva dolcemente la maschera e lo sollevava il più alto possibile. Un bellissimo volto ricciuto, allora, sorrideva in aria come il sole. Ricordando ad ognuno quanto siamo abituati a emarginare l’altro, a paralizzarlo nelle sue paure. A rinchiuderlo nei suoi limiti, nelle sue fragilità o nella sua differenza. Quando, invece, potremmo insegnargli a far emergere il meglio di sè, ed è quello, in fondo, che ognuno segretamente domanda.
E così, nel pomeriggio della festa della Trasfigurazione accompagno Elena a visitare Leo, il marito, in una casa di riposo. Nella sua casa, distribuite dappertutto, guardo a lungo foto sorridenti di lui, dal sorriso meridionale smagliante, nel suo lavoro di doorman in un grande hotel di Londra per ben 45 anni. Lo si ammira in foto con attori o attrici famosi, perfino lo si ritrova nel depliant ufficiale dell’hotel, sempre all’ingresso, personaggio di accoglienza con la sua bombetta, bastone e vestito d’eleganza.”Tutto ha sacrificato per la famiglia!” sussurra la moglie, aggiungendo che per vederlo lei doveva correre all’hotel, trattenuto là dalle 5 del mattino a mezzanotte!
Oggi, alla nursing home, appena lo incontriamo, bloccato in un lettino, con lo sguardo sperduto,“Voglio morire!” comincia a piangere forte e insiste per avere una bicicletta, proprio lui che non l’ha mai usata. “Non ti preoccupare, o my love!” gli fa Elena, accarezzandolo. Li lascio soli, dopo un istante di preghiera. Ma mi accompagna la riflessione che una vita che può sembrare un fallimento, se è stata un dono per gli altri, sarà trasfigurata da Dio. Questa è la luce che il Cristo ha acceso oggi sul Tabor, per noi migranti. E è una speranza grande, immensa.
Alcuni sono italiani, altri, dal bel colore olivastro, eritrei. Sono dodici, portano sul palmo un lumino appena acceso al cero pasquale, tra il silenzio e lo sguardo della gente che li accompagna fin sopra i gradini. Consegnato, infatti, all’entrata, era rimasto a lungo un punto interrogativo. Ma poi dopo l’omelia capiscono che essi stessi ricordano i primi discepoli e milioni di altri ancora, che hanno fatto lo stesso cammino di passione e di morte del Maestro. Una vita paradossale, un fallimento apparente. Trasfigurati ora come lui: una luce.
L’assemblea di migranti che ritrovo nella chiesa a Londra di Brixton Road lo sa: è il loro stesso cammino, un calvario o una via crucis, come si voglia chiamarlo. La vita di ogni migrante lo è. Anche se lentamente poi si trasforma, si trasfigura e si illumina. Da tragedia sa diventare spesso una luce per tutti. Sa entrare negli occhi e nel cuore degli altri.
Così, nelle nostre celebrazioni interviene di solito un simbolo. “La parola è un libro chiuso, ma il simbolo è un libro aperto...” suggeriva l’altro giorno qualcuno. Per una comunità di migranti un gesto simbolico, un simbolo o un oggetto della loro vita messo in valore parla al cuore dell’assemblea più di ogni parola. L’altra domenica era stato un bambino di sei anni. Durante la lettura del vangelo del lebbroso guarito - l’emarginato per eccellenza - saliva dritto dal fondo della chiesa fino all’ambone con una maschera inespressiva, completamente bianca, sul volto. Camminava con passo ritmato, serio, sembrava caduto da un altro mondo. Arrivato alla fine del brano di vangelo, il prete gli toglieva dolcemente la maschera e lo sollevava il più alto possibile. Un bellissimo volto ricciuto, allora, sorrideva in aria come il sole. Ricordando ad ognuno quanto siamo abituati a emarginare l’altro, a paralizzarlo nelle sue paure. A rinchiuderlo nei suoi limiti, nelle sue fragilità o nella sua differenza. Quando, invece, potremmo insegnargli a far emergere il meglio di sè, ed è quello, in fondo, che ognuno segretamente domanda.
E così, nel pomeriggio della festa della Trasfigurazione accompagno Elena a visitare Leo, il marito, in una casa di riposo. Nella sua casa, distribuite dappertutto, guardo a lungo foto sorridenti di lui, dal sorriso meridionale smagliante, nel suo lavoro di doorman in un grande hotel di Londra per ben 45 anni. Lo si ammira in foto con attori o attrici famosi, perfino lo si ritrova nel depliant ufficiale dell’hotel, sempre all’ingresso, personaggio di accoglienza con la sua bombetta, bastone e vestito d’eleganza.”Tutto ha sacrificato per la famiglia!” sussurra la moglie, aggiungendo che per vederlo lei doveva correre all’hotel, trattenuto là dalle 5 del mattino a mezzanotte!
Oggi, alla nursing home, appena lo incontriamo, bloccato in un lettino, con lo sguardo sperduto,“Voglio morire!” comincia a piangere forte e insiste per avere una bicicletta, proprio lui che non l’ha mai usata. “Non ti preoccupare, o my love!” gli fa Elena, accarezzandolo. Li lascio soli, dopo un istante di preghiera. Ma mi accompagna la riflessione che una vita che può sembrare un fallimento, se è stata un dono per gli altri, sarà trasfigurata da Dio. Questa è la luce che il Cristo ha acceso oggi sul Tabor, per noi migranti. E è una speranza grande, immensa.
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