Luisa Deponti (CSERPE) ci parla dell’incontro a Bruxelles
Bruxelles centro politico di un’Europa secolarizzata e, al tempo stesso, multireligiosa: proprio qui si è svolto in marzo l’incontro annuale per i responsabili e gli operatori della Pastorale dei Migranti nelle Grandi Città d’Europa con rappresentanti provenienti da Milano, Torino, Barcellona, Valencia, Madrid (Getafe), Friburgo (Svizzera), Basilea, Vienna e Bruxelles. Quest’anno il convegno aveva come tema: “La religiosità dei migranti in una società secolarizzata” e comprendeva le relazioni di due professori dell’Università Cattolica di Lovanio, alcune testimonianze di comunità cattoliche immigrate nella capitale belga, la presentazione da parte dei rappresentanti delle città di brevi relazioni sulle loro realtà locali e lavori di gruppo.
Da un primo scambio di esperienze è emerso che nei vari paesi europei le comunità di immigrati cattolici portano con sé forme tradizionali o nuove di religiosità popolare che, in alcuni casi, acquistano anche una dimensione pubblica: processioni, feste comunitarie in onore di patroni nazionali, pellegrinaggi… Ciò è in contrasto con la tendenza, più evidente nelle grandi città, ad una progressiva scomparsa della religione cristiana dallo spazio pubblico e alla riduzione della pratica religiosa per quanto riguarda le comunità locali.
Le due relazioni dei prof. Philippe Weber e Arnaud Join-Lambert hanno permesso di considerare in modo più approfondito il ruolo che tali forme di religiosità hanno nel mantenimento e nella crescita della fede in emigrazione e l’apporto che esse possono dare alla chiesa locale.
Gli immigrati cattolici che arrivano da altri continenti o si spostano da paesi dell’Europa meridionale e orientale verso aree dove il processo di secolarizzazione è più avanzato sperimentano, dal punto di vista religioso, un doppio sradicamento. In primo luogo si trovano a vivere la loro fede in un nuovo contesto ecclesiale, caratterizzato da una lingua e da una mentalità diverse. Il secondo shock culturale a cui vanno incontro riguarda, però, un altro aspetto: ovvero l’evoluzione che sta avvenendo nel rapporto tra cristianesimo e società europea. È finita l’epoca dell’identificazione tra società e religione cristiana che ha caratterizzato l’Europa per secoli. In buona parte si va interrompendo la linea di trasmissione tradizionale della fede da una generazione all’altra e che dava origine ad un cristianesimo etnico ricevuto come eredità e per il quale essere europeo voleva dire essere cristiano. La religione diviene una scelta libera e non mancano persone che abbracciano con rinnovata consapevolezza la fede cristiana. D’altra parte, però, aumenta il pluralismo religioso o la non appartenenza ad alcuna religione. A soffrirne di più dal punto di vista numerico e strutturale sono proprio le chiese storiche del continente: quella cattolica, quelle protestanti e ortodosse che sono chiamate a ridefinire il loro rapporto con una società globale pluralista post-cristiana e a ripensare alle loro forme di presenza e di testimonianza sul territorio.
I migranti che arrivano e vivono già di per sé una crisi di identità anche religiosa, legata all’esperienza migratoria, si trovano di fronte a comunità cristiane locali, che a loro volta sono in un travaglio di trasformazione non di poco conto.
È comprensibile che i fedeli immigrati cerchino di recuperare anche forme di religiosità popolare che li facciano sentire a casa lontano dal proprio paese. Ciò li aiuta a dare continuità alla loro esperienza religiosa anche in emigrazione, contribuendo alla ricostruzione della loro identità nel nuovo contesto e all’esperienza di comunità, di cui sentono un forte bisogno. Il mantenimento delle tradizioni religiose – così come l'utilizzo della lingua di origine d'altra parte – non è fine a se stesso e dovrebbe avere come obbiettivo la crescita della fede in Gesù Cristo e della vita cristiana dei migranti nel nuovo ambiente in cui si trovano a vivere. Per tanto sono necessari l’accompagnamento e la formazione da parte dei responsabili della pastorale. Se ciò avviene, questo patrimonio spirituale diventa una grande risorsa per i migranti stessi, ma anche per la chiesa locale, la quale viene arricchita dalla presenza di cristiani maturi e autentici, capaci di diventare a loro volta testimoni e annunciatori del Vangelo. Se, invece, si tagliano o si mortificano anzitempo queste radici, si corre il pericolo di impedire ai migranti questo processo di sintesi e di maturazione, che richiede anche la rielaborazione dell’esperienza migratoria.
D’altra parte, come hanno sottolineato gli esperti e i responsabili della pastorale migratoria intervenuti a Bruxelles, anche queste comunità “oasi”, sono chiamate prima o poi a fare i conti con i processi di trasformazione religiosa che avvengono nella società in cui sono inserite. Al più tardi ciò avviene nel momento in cui si pone la questione della trasmissione della fede ai figli degli immigrati, che crescono immersi nel nuovo contesto e portano in sé diverse appartenenze culturali e anche religiose: quelle della famiglia di origine e quelle della società secolarizzata in cui vivono.
A quel punto conservare o riadattare al nuovo ambiente le tradizioni religiose famigliari ed etniche, sebbene rimanga importante, non è più sufficiente. Così come appare illusorio pensare che i ragazzi “si integrino” automaticamente nelle parrocchie locali.
È necessario un rinnovato annuncio del Vangelo, una formazione cristiana che permetta sia ai giovani di origine straniera che a quelli locali di mettere le loro radici nel cuore della fede, nel mistero pasquale di Cristo, che rivela nell’amore, nel dono di sé, la piena realizzazione di ogni vita umana. Alla fine dell’incontro a Bruxelles, si è fatta largo la constatazione di quanto preziosi siano tutti i tentativi e le forme tradizionali o nuove di annuncio del Vangelo e di formazione cristiana presenti nei contesti multiculturali delle città, dove le strutture pastorali sono chiamate a evolversi verso reti di comunità, diverse ma in comunione tra loro, tutte al servizio della nuova evangelizzazione. Per questo risulta anche importante lo scambio di esperienze e di modelli in una dimensione più ampia ed internazionale, di cui l’incontro annuale della Pastorale dei Migranti nelle Grandi Città d’Europa è un esempio.
Bruxelles centro politico di un’Europa secolarizzata e, al tempo stesso, multireligiosa: proprio qui si è svolto in marzo l’incontro annuale per i responsabili e gli operatori della Pastorale dei Migranti nelle Grandi Città d’Europa con rappresentanti provenienti da Milano, Torino, Barcellona, Valencia, Madrid (Getafe), Friburgo (Svizzera), Basilea, Vienna e Bruxelles. Quest’anno il convegno aveva come tema: “La religiosità dei migranti in una società secolarizzata” e comprendeva le relazioni di due professori dell’Università Cattolica di Lovanio, alcune testimonianze di comunità cattoliche immigrate nella capitale belga, la presentazione da parte dei rappresentanti delle città di brevi relazioni sulle loro realtà locali e lavori di gruppo.
Da un primo scambio di esperienze è emerso che nei vari paesi europei le comunità di immigrati cattolici portano con sé forme tradizionali o nuove di religiosità popolare che, in alcuni casi, acquistano anche una dimensione pubblica: processioni, feste comunitarie in onore di patroni nazionali, pellegrinaggi… Ciò è in contrasto con la tendenza, più evidente nelle grandi città, ad una progressiva scomparsa della religione cristiana dallo spazio pubblico e alla riduzione della pratica religiosa per quanto riguarda le comunità locali.
Le due relazioni dei prof. Philippe Weber e Arnaud Join-Lambert hanno permesso di considerare in modo più approfondito il ruolo che tali forme di religiosità hanno nel mantenimento e nella crescita della fede in emigrazione e l’apporto che esse possono dare alla chiesa locale.
Gli immigrati cattolici che arrivano da altri continenti o si spostano da paesi dell’Europa meridionale e orientale verso aree dove il processo di secolarizzazione è più avanzato sperimentano, dal punto di vista religioso, un doppio sradicamento. In primo luogo si trovano a vivere la loro fede in un nuovo contesto ecclesiale, caratterizzato da una lingua e da una mentalità diverse. Il secondo shock culturale a cui vanno incontro riguarda, però, un altro aspetto: ovvero l’evoluzione che sta avvenendo nel rapporto tra cristianesimo e società europea. È finita l’epoca dell’identificazione tra società e religione cristiana che ha caratterizzato l’Europa per secoli. In buona parte si va interrompendo la linea di trasmissione tradizionale della fede da una generazione all’altra e che dava origine ad un cristianesimo etnico ricevuto come eredità e per il quale essere europeo voleva dire essere cristiano. La religione diviene una scelta libera e non mancano persone che abbracciano con rinnovata consapevolezza la fede cristiana. D’altra parte, però, aumenta il pluralismo religioso o la non appartenenza ad alcuna religione. A soffrirne di più dal punto di vista numerico e strutturale sono proprio le chiese storiche del continente: quella cattolica, quelle protestanti e ortodosse che sono chiamate a ridefinire il loro rapporto con una società globale pluralista post-cristiana e a ripensare alle loro forme di presenza e di testimonianza sul territorio.
I migranti che arrivano e vivono già di per sé una crisi di identità anche religiosa, legata all’esperienza migratoria, si trovano di fronte a comunità cristiane locali, che a loro volta sono in un travaglio di trasformazione non di poco conto.
È comprensibile che i fedeli immigrati cerchino di recuperare anche forme di religiosità popolare che li facciano sentire a casa lontano dal proprio paese. Ciò li aiuta a dare continuità alla loro esperienza religiosa anche in emigrazione, contribuendo alla ricostruzione della loro identità nel nuovo contesto e all’esperienza di comunità, di cui sentono un forte bisogno. Il mantenimento delle tradizioni religiose – così come l'utilizzo della lingua di origine d'altra parte – non è fine a se stesso e dovrebbe avere come obbiettivo la crescita della fede in Gesù Cristo e della vita cristiana dei migranti nel nuovo ambiente in cui si trovano a vivere. Per tanto sono necessari l’accompagnamento e la formazione da parte dei responsabili della pastorale. Se ciò avviene, questo patrimonio spirituale diventa una grande risorsa per i migranti stessi, ma anche per la chiesa locale, la quale viene arricchita dalla presenza di cristiani maturi e autentici, capaci di diventare a loro volta testimoni e annunciatori del Vangelo. Se, invece, si tagliano o si mortificano anzitempo queste radici, si corre il pericolo di impedire ai migranti questo processo di sintesi e di maturazione, che richiede anche la rielaborazione dell’esperienza migratoria.
D’altra parte, come hanno sottolineato gli esperti e i responsabili della pastorale migratoria intervenuti a Bruxelles, anche queste comunità “oasi”, sono chiamate prima o poi a fare i conti con i processi di trasformazione religiosa che avvengono nella società in cui sono inserite. Al più tardi ciò avviene nel momento in cui si pone la questione della trasmissione della fede ai figli degli immigrati, che crescono immersi nel nuovo contesto e portano in sé diverse appartenenze culturali e anche religiose: quelle della famiglia di origine e quelle della società secolarizzata in cui vivono.
A quel punto conservare o riadattare al nuovo ambiente le tradizioni religiose famigliari ed etniche, sebbene rimanga importante, non è più sufficiente. Così come appare illusorio pensare che i ragazzi “si integrino” automaticamente nelle parrocchie locali.
È necessario un rinnovato annuncio del Vangelo, una formazione cristiana che permetta sia ai giovani di origine straniera che a quelli locali di mettere le loro radici nel cuore della fede, nel mistero pasquale di Cristo, che rivela nell’amore, nel dono di sé, la piena realizzazione di ogni vita umana. Alla fine dell’incontro a Bruxelles, si è fatta largo la constatazione di quanto preziosi siano tutti i tentativi e le forme tradizionali o nuove di annuncio del Vangelo e di formazione cristiana presenti nei contesti multiculturali delle città, dove le strutture pastorali sono chiamate a evolversi verso reti di comunità, diverse ma in comunione tra loro, tutte al servizio della nuova evangelizzazione. Per questo risulta anche importante lo scambio di esperienze e di modelli in una dimensione più ampia ed internazionale, di cui l’incontro annuale della Pastorale dei Migranti nelle Grandi Città d’Europa è un esempio.
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