Viaggio nelle case-famiglie dove i minori diventano i balocchi di una giostra speculativa
di Paola Bisconti
Con la legge del 2001 sono stati soppressi gli orfanotrofi, sostituiti dalle case-famiglia. Il nobile tentativo del decreto consiste nell’offrire ai minori che sono ospiti nelle strutture un ambiente più familiare, come lascia intendere la denominazione. Malgrado i buoni propositi però molti centri si contendono i bambini come se fossero della merce preziosa, trasformando il sistema in una gigantesca speculazione che prevede un costo di 70/140 euro al giorno per ogni ospite accolto nelle strutture. Ricordiamo che tutte le case-famiglia, anche quelle religiose, sono sovvenzionate dai comuni che ricevono la segnalazione dei casi tramite l’assistente sociale.
In Italia si contano 1800 centri dove sono alloggiati oltre 20.000 minori. Si tratta di un giro di affari da 1 miliardo di euro all’anno, che comprende ovviamente gli stipendi delle assistenti sociali dei comuni o delle Asl, degli psicologi, degli educatori e delle cooperative di servizio (cuochi, accompagnatori, personale di pulizia). Ma in Italia ci sono 10.000 famiglie che richiedono l’adozione o l’affidamento di un fanciullo e non riescono quasi mai ad ottenere né l’uno né l’altro, con un tempo minimo di permanenza del bambino all’interno del centro di circa 3 anni: si tratta di un periodo interminabile sia per le coppie che attendono l’iter burocratico e giudiziario sia per il soggetto che nel frattempo è sballottato da una struttura all’altra.
Il bersaglio di questo sistema sono le famiglie più disordinate, indifese ma a volte anche quelle più normali e attrezzate. Tra i motivi accolti dai Tribunali per allontanare i bambini dai propri genitori non c’è solo la violenza fisica ma anche l’”incapacità genitoriale”. Si tratta di una valutazione del tutto ambigua e spesso ingiusta. Si è assistito, infatti, ad alcuni casi che avevano il retrogusto dell’assurdo, come accaduto ad una madre separata dalla figlia solo perché vegetariana, quindi accusata di non alimentare nel modo corretto la bambina, o ancora ci sono storie di bambini strappati dalle braccia del padre perché disoccupato e senza una stabilità economica. Tutto questo affossa anche il sistema giudiziario: per esempio nel tribunale di Milano ogni anno si accumulano 5000 fascicoli relativi a famiglie disagiate, che così diventano a loro volta vittime della mala-amministrazione.
Ma come si può concepire un sistema che allontana il bambino da una famiglia colpevole di abusi e violenza per poi alloggiarlo in un altro inferno? Aumentano, infatti, i casi in cui gli ospiti delle case-famiglia sono maltrattati, tuttavia è quasi impossibile ribellarsi al sistema perché non esiste un vero e proprio ente in grado di vigilare sull’operato svolto dal personale o in grado di effettuare delle visite ispettive improvvise. E alle strutture stesse non è richiesta alcuna relazione periodica in grado di verbalizzare il lavoro svolto. Inoltre i professionisti che operano presso i centri non sempre sono tali: purtroppo non esiste un concorso in grado di selezionare in modo rigoroso gli addetti a queste mansioni molto delicate, ed ecco perché spesso si ritrovano finti psicologi, finti assistenti-sociali, finte infermiere.
Un altro paradosso alimenta i dubbi e le perplessità: il numero dei ragazzi adolescenti è notevolmente inferiore rispetto ai bambini più piccoli. Forse perché i primi avrebbero la capacità di ribellarsi alle ingiustizie e difficilmente si farebbero impaurire da un rimprovero?
Un’altra mancanza di questo servizio sociale è l’assenza di un censimento, di una banca dati in grado di stabilire con esattezza quante coppie di genitori fanno richiesta di adozione e/o affidamento nonostante questo elenco sia previsto dalla legge 149/2001. La stessa chiarezza dovrebbe esserci sul denaro che le case-famiglia ricevono. Chi è che monitora le spese?
Tutto ciò non intende gettare ombra su un servizio sociale che di certo ha una funzione indispensabile, ma vuole solo stimolare alla riflessione su vicende giudiziarie che spesso provocando dei danni irrecuperabili su bambini e famiglie. A tal proposito abbiamo deciso di intervistare il dottor Vito Luna, direttore di una casa-famiglia sita ad Ugento, in provincia di Lecce: le sue dichiarazioni saranno una testimonianza importante per conoscere più da vicino un settore che richiede tanta professionalità da parte degli addetti ai lavori, ma anche e soprattutto comprensione, pazienza, umanità ed etica personale, come conferma proprio il dottor Luna.
di Paola Bisconti
Con la legge del 2001 sono stati soppressi gli orfanotrofi, sostituiti dalle case-famiglia. Il nobile tentativo del decreto consiste nell’offrire ai minori che sono ospiti nelle strutture un ambiente più familiare, come lascia intendere la denominazione. Malgrado i buoni propositi però molti centri si contendono i bambini come se fossero della merce preziosa, trasformando il sistema in una gigantesca speculazione che prevede un costo di 70/140 euro al giorno per ogni ospite accolto nelle strutture. Ricordiamo che tutte le case-famiglia, anche quelle religiose, sono sovvenzionate dai comuni che ricevono la segnalazione dei casi tramite l’assistente sociale.
In Italia si contano 1800 centri dove sono alloggiati oltre 20.000 minori. Si tratta di un giro di affari da 1 miliardo di euro all’anno, che comprende ovviamente gli stipendi delle assistenti sociali dei comuni o delle Asl, degli psicologi, degli educatori e delle cooperative di servizio (cuochi, accompagnatori, personale di pulizia). Ma in Italia ci sono 10.000 famiglie che richiedono l’adozione o l’affidamento di un fanciullo e non riescono quasi mai ad ottenere né l’uno né l’altro, con un tempo minimo di permanenza del bambino all’interno del centro di circa 3 anni: si tratta di un periodo interminabile sia per le coppie che attendono l’iter burocratico e giudiziario sia per il soggetto che nel frattempo è sballottato da una struttura all’altra.
Il bersaglio di questo sistema sono le famiglie più disordinate, indifese ma a volte anche quelle più normali e attrezzate. Tra i motivi accolti dai Tribunali per allontanare i bambini dai propri genitori non c’è solo la violenza fisica ma anche l’”incapacità genitoriale”. Si tratta di una valutazione del tutto ambigua e spesso ingiusta. Si è assistito, infatti, ad alcuni casi che avevano il retrogusto dell’assurdo, come accaduto ad una madre separata dalla figlia solo perché vegetariana, quindi accusata di non alimentare nel modo corretto la bambina, o ancora ci sono storie di bambini strappati dalle braccia del padre perché disoccupato e senza una stabilità economica. Tutto questo affossa anche il sistema giudiziario: per esempio nel tribunale di Milano ogni anno si accumulano 5000 fascicoli relativi a famiglie disagiate, che così diventano a loro volta vittime della mala-amministrazione.
Ma come si può concepire un sistema che allontana il bambino da una famiglia colpevole di abusi e violenza per poi alloggiarlo in un altro inferno? Aumentano, infatti, i casi in cui gli ospiti delle case-famiglia sono maltrattati, tuttavia è quasi impossibile ribellarsi al sistema perché non esiste un vero e proprio ente in grado di vigilare sull’operato svolto dal personale o in grado di effettuare delle visite ispettive improvvise. E alle strutture stesse non è richiesta alcuna relazione periodica in grado di verbalizzare il lavoro svolto. Inoltre i professionisti che operano presso i centri non sempre sono tali: purtroppo non esiste un concorso in grado di selezionare in modo rigoroso gli addetti a queste mansioni molto delicate, ed ecco perché spesso si ritrovano finti psicologi, finti assistenti-sociali, finte infermiere.
Un altro paradosso alimenta i dubbi e le perplessità: il numero dei ragazzi adolescenti è notevolmente inferiore rispetto ai bambini più piccoli. Forse perché i primi avrebbero la capacità di ribellarsi alle ingiustizie e difficilmente si farebbero impaurire da un rimprovero?
Un’altra mancanza di questo servizio sociale è l’assenza di un censimento, di una banca dati in grado di stabilire con esattezza quante coppie di genitori fanno richiesta di adozione e/o affidamento nonostante questo elenco sia previsto dalla legge 149/2001. La stessa chiarezza dovrebbe esserci sul denaro che le case-famiglia ricevono. Chi è che monitora le spese?
Tutto ciò non intende gettare ombra su un servizio sociale che di certo ha una funzione indispensabile, ma vuole solo stimolare alla riflessione su vicende giudiziarie che spesso provocando dei danni irrecuperabili su bambini e famiglie. A tal proposito abbiamo deciso di intervistare il dottor Vito Luna, direttore di una casa-famiglia sita ad Ugento, in provincia di Lecce: le sue dichiarazioni saranno una testimonianza importante per conoscere più da vicino un settore che richiede tanta professionalità da parte degli addetti ai lavori, ma anche e soprattutto comprensione, pazienza, umanità ed etica personale, come conferma proprio il dottor Luna.
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