venerdì, aprile 27, 2012
«Non dobbiamo negare o dimenticarci di questo nuovo conflitto». Christine du Coudray Wiehe, responsabile internazionale della sezione Africa di Aiuto alla Chiesa che Soffre, invita a non distogliere lo sguardo dal confine tra Sudan e Sud Sudan e a pregare affinché le violenze volgano al termine e non si diffondano altrove.

«Il rischio di una nuova guerra è alto – afferma – perché è nelle volontà dello stesso presidente sudanese Omar Hassan al Bashir». A quasi dieci mesi dall’indipendenza del Sud Sudan, Juba e Khartoum non si sono ancora accordate sulla linea di demarcazione che separa i due stati. Tra le aree contese c’è soprattutto quella di Heglig, ricca di pozzi petroliferi, recentemente riconquistata dall’esercito sudanese. E secondo gli esperti uno scontro bellico tra i due Paesi porterebbe a conseguenze ben più gravi della guerra civile che, dal 1985 al 2005, ha causato oltre due milioni di morti.

Intanto la popolazione vive nel terrore. «Sulle montagne Nuba i bambini corrono a ripararsi nelle grotte non appena sentono il rumore di un aereo». La du Coudray - tra gli ideatori del Simposio dei vescovi africani ed europei – riferisce che gli abitanti delle regioni frontaliere sono stati bombardati, uccisi e hanno dovuto abbandonare le proprie case. A causa delle esplosioni, in molti hanno subito mutilazioni e riportato gravi ustioni, mentre la fame dilaga e tanti bambini sono in pericolo di vita. «Chi ascolta il grido di queste persone innocenti?». Informata da fonti locali, la responsabile ACS rende noto che il governo del Sudan non permette alle organizzazioni non governative di distribuire viveri o allestire campi profughi, e che in Darfur sono stati arrestati alcuni membri del clero e dell’associazione umanitaria cattolica SudanAid. «La Chiesa gioca un ruolo fondamentale nel sostenere la popolazione, ma non può farcela da sola. Bisogna intervenire il prima possibile».

Lunedì scorso Aiuto alla Chiesa che Soffre ha ricevuto l’appello del vescovo episcopale di Khartoum, il reverendo Ezekiel Kondo, che racconta alla Fondazione pontificia le gravi difficoltà della Chiesa sudanese in seguito all’indipendenza del Sud Sudan. Già prima della secessione, numerosi fedeli avevano abbandonato il Nord a maggioranza musulmana, per paura che il presidente al-Bashir – incriminato dal Tribunale dell’Aia per crimini contro l’umanità, per il genocidio in Darfur – potesse attuare un’ancor più radicale islamizzazione. «Ora sembra sia in atto un piano per eliminare del tutto la nostra presenza dalle regioni settentrionali». Il presule riporta la terribile situazione in stati come Kordofan meridionale e Nilo azzurro, dove i cristiani sono discriminati e perfino «chiamati insetti». «In questo momento la nostra unica certezza è che la Chiesa rimarrà in Sudan e continuerà ad operare, a dispetto delle enormi sfide che incontrerà sul suo cammino».

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