martedì, aprile 03, 2012
Le primavere arabe, che tanta speranza avevano creato, sono appassite in una "normalizzazione" islamica o vengono soffocate nel sangue, confuse da ribellioni etniche e da vendette confessionali.

GreenReport - Ma secondo quanto scrive su SciDev Najib Saab, uno dei più conosciuti ambientalisti arabi, segretario generale del Forum for environment and development (Afed) e redattore della rivista Al-Bia Wal-Tanmia (Ambiente e Sviluppo), «le riforme nella regione araba dovrebbero concentrarsi sulla transizione verso una green economy», altrimenti la mancata sostenibilità economica ed ambientale soffocherà nella culla le nuove democrazie arabe. «Al momento le prospettive non sono buone - ammette Saab - ma se si potessero fare le riforme per reprimere la corruzione amministrativa e la cattiva gestione delle risorse naturali, i Paesi arabi potrebbero averne enormi vantaggi economici. Una migliore governance avrà ripercussioni anche in materia di governo dell'ambiente, dato che le persone le cui vite sono più colpite dalle problematiche ambientali avranno più voce nelle decisioni politiche».

Se vorrà davvero affrontare il tema della green economy e dello sviluppo sostenibile, a giugno il summit Rio+20 dell'Onu non potrà nuovamente disinteressarsi di quel che accade nel mondo arabo e musulmano, e della necessità di riforme che rivedano un modello di sviluppo che sta facendo drammaticamente i conti con gli effetti del global warming e con un utilizzo iniquo delle risorse naturali, acqua ed idrocarburi in testa a tutte.

«Le economie arabe rimangono non diversificate - spiega Saab - dipendono in larga misura dal petrolio e da prodotti come alluminio, cemento, fertilizzanti e fosfati che producono la crescita del Pil, ma non riescono a creare posti di lavoro sufficienti. La disoccupazione nella regione araba è del 10%, ma per i giovani è del 25%, il doppio della media mondiale, e in alcuni Paesi raggiunge il 40%. I giovani rappresentano oltre il 70% dei disoccupati in Egitto, Giordania e Yemen».

A questo bisogna aggiungere l'inarrestabile crescita demografica che renderà ancora più giovani questi Paesi di giovani: la popolazione dei Paesi arabi è aumentata dai 100 milioni nel 1962 a circa 400 milioni nel 2012, con un impatto sull'ambiente e le risorse che nessuno riesce a calcolare davvero.

Ed anche i dati sulla disoccupazione (simili in modo preoccupante a quelli italiani) nascondono una situazione peggiore: una delle cose che ha spinto la gente a scendere nelle piazze ed a sfidare regimi feroci e armati dai governi occidentali (e non solo) è stata la necessità di un lavoro dignitoso che non sia la situazione di semi-schiavitù e di salari da fame che vivono ancora troppi giovani, o le occupazioni informali che permettono la mera sopravvivenza. Saab afferma che «circa 60 milioni di nuovi posti di lavoro devono essere creati entro il 2020, proteggendo le risorse naturali».

Una delle principali conclusioni del rapporto "Arab Environment 4 - Green Economy. Sustainable transition in a changing Arab World", pubblicato nel 2011 dall'Afed è quella che «la transizione verso una green economy contribuirà a produrre opportunità di lavoro decente e duraturo». Per l'Afed i Paesi arabi dovranno investire ogni anno un ulteriore 1,5% del loro Pil nelle infrastrutture idriche, nell'efficienza energetica e nelle tecnologie del riciclaggio. Il passaggio a pratiche agricole sostenibili potrebbe far risparmiare ai Paesi arabi perdite del Pil fino al 6% attraverso l'uso più efficiente delle risorse idriche, mentre con la tutela delle risorse ambientali il risparmio potrebbe raggiungere i 114 miliardi di dollari all'anno e creare milioni di posti di lavoro nelle zone rurali, dove vivono i tre quarti dei poveri.

Secondo il rapporto, «la riduzione del consumo di energia elettrica di ogni persona, attraverso misure di efficienza energetica, permetterebbe di risparmiare fino a 73 miliardi di dollari all'anno». Tutti i Paesi arabi attualmente sovvenzionano il costo del carburante e dell'elettricità a diversi livelli, ed il taglio delle sovvenzioni del 25% porterebbe nelle casse degli Stati più di 100 miliardi di dollari in 3 anni, che potrebbero poi essere investiti nelle tecnologie verdi e nelle energie rinnovabili. Le stime dell'Afed sono sorprendenti: «Spendendo 100 miliardi di dollari per "inverdire" solo un quinto del patrimonio edilizio esistente negli stati arabi nel corso dei prossimi 10 anni, ci si attende di creare 4 milioni di posti di lavoro. E se i governi arabi si impegnano a rendere ecologico il settore delle costruzioni, investimenti supplementari creeranno il 10% in più posti di lavoro».

Se si guarda dietro la cortina insanguinata della guerra civile siriana e si ripercorrono le strade che hanno portato alle rivoluzioni tunisina ed egiziana, si scopre che costruire una green economy nei Paesi arabi vuol dire esattamente proseguire quelle rivolte democratiche, nate dall'esigenza di trasformare l'attuale "economia virtuale" - basata soprattutto sulla vendita di materie prime estrattive e sulle speculazioni in un settore immobiliare obsoleto - per realizzare una "economia reale" che si concentri sulla produzione sostenibile, sulla tutela del capitale naturale e sulla produzione di opportunità di occupazione a lungo termine. Una "rivoluzione" della quale ci sarebbe molto bisogno anche nella sponda nord del Mediterraneo ed in tutta la vecchia Europa.



Saab scrive: «E' fondamentale che la scienza e l'educazione costituiscano la base del successo della transizione verso la green economy, entrambe attualmente mancano nei Paesi arabi. Anche se le istituzioni dei più alti livelli di istruzione stanno proliferando, la qualità dell'istruzione che offrono è inferiore alla media. E il tasso della spesa per la ricerca scientifica in percentuale del Pil è di circa lo 0,2%, a fronte di una media mondiale dell'1,2%. Il contributo del mondo arabo alla ricerca (misurato in articoli pubblicati) è basso, e nei brevetti è trascurabile. Queste differenze dovrebbero essere affrontate come parte del percorso per la green economy».



Ma non è solo l'atteggiamento dei Paesi arabi a preoccupare Saab, il quale racconta che a febbraio, mentre era a Nairobi, in Kenya, come relatore al Global ministerial environment forum ospitato dall'Unep, è rimasto sorpreso nello scoprire che diversi Paesi in via di sviluppo non condividono l'idea di una transizione verso la green economy: «Alcuni Paesi hanno timori legittimi che la green economy potrebbe essere utilizzata per imporre barriere commerciali, ad esempio facendo rispettare le norme che richiedono un grande investimento iniziale, in particolare nelle tecnologie verdi. Ma i ministri arabi che hanno partecipato alla riunione hanno approvato la transizione verso un'economia verde dopo essere stati convinti che avrebbe portato profitti netti alla regione. Piuttosto che ricorrere all'isolazionismo, hanno accettato la necessità di stabilire una solida piattaforma di conoscenze per la crescita verde, avanzata dall'Unep e sostenuta dal trasferimento tecnologico, per consentire una concorrenza leale e l'accesso al mercato».

Ma l'ambientalista arabo avverte che «non bisogna ripetere gli errori commessi nei negoziati sul clima, utilizzando una serie di pretesti per ritardare l'azione reale. Con la costruzione di una solida base di conoscenze scientifiche e di lavoratori qualificati, insieme i Paesi arabi possono fare una transizione morbida verso un futuro sostenibile».

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