Tra gli esclusi anziani, giovani, disoccupati, esodati e precari che vanno a mangiare alla Caritas
In tutta Italia, le famiglie povere sono un milione e 156 mila. Ma il numero di quelle a rischio povertà sale a ben 2 milioni e 734mila. Secondo i dati raccolti dai Centri di ascolto delle Caritas Diocesane, la categoria dei nuovi poveri è aumentata del 13,8%, tra il 2007 e il 2010. Nel Sud l’aumento è stato addirittura del 74%. In quattro anni si è registrato un aumento dell’80,8% di richieste di aiuto economico. I più vulnerabili sono sempre gli stranieri, che rappresentano il 70% delle persone che chiedono aiuto; il disagio maggiore è fra gli immigrati che vivono da soli in Italia, uomini, di età compresa fra i 25 e 44 anni. Ma c’è un forte e preoccupante aumento della quota di giovani che si rivolgono ai Centri, cresciuta del 59,6% in 5 anni. Il 76,1% non studia e non lavora, percentuale che nel 2005 era del 70%. Il 20% delle persone che si rivolgono ai Centri di ascolto in Italia ha meno di 35 anni.
Come detto quindi, nel 2010 un milione e 156mila famiglie erano in condizioni di «povertà assoluta» (il 4,6% di quelle residenti), per un totale di 3 milioni e 129mila persone (il 5,2% della popolazione residente). Si tratta di nuclei che non possono permettersi di «accedere a beni e servizi essenziali con cui ottenere uno standard di vita minimamente accettabile». I più poveri tra i poveri. Sempre l’anno scorso sono stati invece circa 8,3 milioni i cittadini costretti a vivere in condizioni di «povertà relativa», pari al 13,8% della popolazione: corrispondono a 2 milioni e 734mila famiglie (l’11% di quelle residenti). Rientrano in questa soglia i nuclei familiari composti da due persone che non riescono a spendere più di 992,46 euro al mese. Se nel 2004 il 75% dei problemi si riferiva ai bisogni di carattere primario (casa, cibo, sanità), nel 2010 questo valore ha raggiunto l’81,9%.
Com’è ovvio, le famiglie numerose, con un solo genitore e in particolar modo quelle del Sud sono le più colpite dalla crisi. Il reddito disponibile delle famiglie ha avuto una crescita inferiore all’1% tra il 2005 e il 2007 ed è diminuito negli anni successivi. «Il problema è sempre lo stesso: la prevalente logica emergenziale in base alla quale è preferibile erogare contributi economici piuttosto che attivare servizi», spiegano la Caritas e la Fondazione Zancan. Questo deficit strategico «non incentiva l’uscita dal disagio ma, anzi, rischia di rendere cronico il problema. Lo dimostra il fatto che, a fronte dell’aumento di risorse, non si è registrato il corrispettivo calo del numero di italiani poveri. Eppure in Italia si continua a percorrere questa strada fallimentare».
Oggi tra i clochard aumenta l’età, che si attesta intorno ai 44 anni. Il 50% di loro dichiarano di vivere per strada da più di 4 anni e il 18,7% provengono da situazioni di disgregazione familiare. Oltre il 20% sono alcolisti, il 15% tossicodipendenti e un altro 15% ha problemi psichici. Tra costoro vi sono, ovviamente, vagabondi, immigrati ma anche nuove realtà, come quelle delle famiglie fortemente penalizzate dalla crisi economica (esodati, cassintegrati, disoccupati, precari, ecc.) o, semplicemente, disorientate da un divorzio. Negli ultimi anni, con i repentini cambiamenti della società, sono mutate anche le forme di povertà. Gli studiosi ed i giornalisti che seguono più da vicino questi aspetti sociali hanno anche coniato un sillogismo che li descrive: sono le “nuove povertà”. In realtà, più che nuove forme di disagio le povertà sono oggi aspetti di un problema più ampio, quello dell’esclusione sociale. È meglio impiegare questo termine anziché parlare di nuove povertà, per non dare l’impressione che le vecchie povertà, quelle basate sulla mancanza di reddito, sulla precarietà e sull’indigenza siano scomparse: non è così, non sono sparite affatto, sono sempre tra noi ed hanno sempre le stesse espressioni di un tempo. Tuttavia, la povertà è cambiata nel senso che oggi il rischio di cadere in povertà non è più un qualcosa che proviene dall’esterno, dalle epidemie, dalle carestie, dalle calamità naturali o da un destino scritto sin dalla nascita nella vita delle persone. Oggi questo rischio proviene soprattutto dall’interno, dalla società stessa, dal funzionamento del sistema economico. Sono aumentate le disuguaglianze di reddito, sono cresciuti i lavori precari, sono diminuiti tutti quegli ammortizzatori sociali che mettevano un freno alle degenerazioni sociali, soprattutto però è andata sempre più perdendo il suo ruolo di “protezione e crescita sociale” la famiglia.
Ma chi sono i nuovi esclusi? L’esclusione da alcuni servizi sanitari è certamente una forma di povertà, come lo è la solitudine degli anziani che vivono abbandonati nelle proprie case e come lo sono tutte quelle “devianze” che avvengono in famiglie cosiddette normali: disgregamento degli affetti, abbandono scolastico dei figli, difficoltà di integrazione e convivenza con altre culture, microusura, alcolismo e altre dipendenze. Povertà sono anche quelle dei malati di Aids che grazie alle nuove cure hanno allungato la propria speranza di vita, al momento però solo per rimanere emarginati più a lungo. Povertà è anche un sistema carcerario che non riesce a costruire un futuro per i detenuti, e che quando li “rilascia” dona loro solo un sacco nero per l’immondizia dove mettere i vestiti. Tutte forme di disagio a cui non si pensa perché siamo impegnati nei nostri stili di vita e con la scala di valori che ci siamo dati.
Questi mutamenti richiamano noi cristiani a riflettere sul termine di carità. In particolare a soffermarci sul suo significato. «Nella preghiera eucaristica – diceva il Vescovo di Molfetta mons. Tonino Bello (morto nel 1993) – ricorre una frase che sembra mettere in crisi certi moduli di linguaggio entrati ormai nell’uso corrente, come ad esempio l’espressione ‘nuove povertà’. La frase è questa: “Signore, donaci occhi per vedere le necessità e le sofferenze dei fratelli” ». Essa ci suggerisce tre cose, diceva mons. Bello: anzitutto che, ad essere un problema, più che le “nuove povertà” sono gli “occhi nuovi” che ci mancano, spesso troppo antichi, resi strabici dall’egoismo, fatti miopi dal tornaconto. Si sono ormai abituati a scorrere indifferenti sui problemi della gente. Sono avvezzi a catturare più che a donare. Sono troppo lusingati da ciò che “rende” in termini di produttività. Di qui, la necessità – secondo mons. Tonino Bello – di implorare “occhi nuovi”.
Se il Signore ci favorirà questo “trapianto”, il malinconico elenco delle povertà si decurterà all’improvviso, e ci accorgeremo che, a rimanere in lista d’attesa, saranno quasi solo le povertà di sempre. Ed ecco la seconda cosa che ci viene suggerita dalla preghiera della Messa secondo don Tonino: oltre alle miserie nuove “provocate” dagli occhi antichi, ce ne sono delle altre che dagli occhi sono “tollerate”. Miserie, cioè, che è arduo sconfiggere alla radice, ma che sono egualmente imputabili al nostro egoismo, se non ci si adopera perché vengano almeno tamponate lungo il loro percorso degenerativo. Sono nuove anch’esse, nel senso che oggi i mezzi di comunicazione ce le sbattono in prima pagina con una immediatezza crudele che prima non si sospettava neppure. Basterà pensare alle vittime dei cataclismi della storia e della geografia. Ai popoli che abitano in zone colpite sistematicamente dalla siccità. Agli scampati da quelle bibliche maledizioni della terra che ogni tanto si rivolta contro l’uomo. Alle turbe dei bambini denutriti. Ai cortei di gente mutilata per mancanza di medicine e di assistenza. Anche per queste povertà ci vogliono occhi nuovi. Che non spingano cioè la mano a voltar pagina o a cambiare canale, quando lo spettacolo inquietante di certe situazioni viene a rovinare il sonno o a disturbare la digestione.
E, infine, concludeva don Tonino, ci sono le nuove povertà che dai nostri occhi, pur lucidi di pianto, per pigrizia o per paura vengono “rimosse”. Ci provocano a nobili sentimenti di commossa solidarietà, ma nella allucinante ed iniqua matrice che le partorisce non sappiamo ancora penetrare. La preghiera della Messa sembra pertanto voler implorare: “Donaci, Signore, occhi nuovi per vedere le cause ultime delle sofferenze di tanti nostri fratelli, perché possiamo esser capaci di ‘aggredirle’”. Si tratta di quelle nuove povertà che sono frutto di combinazioni incrociate tra le leggi perverse del mercato, gli impianti idolatrici di certe rivoluzioni tecnologiche e l’olocausto dei valori ambientali, sull’altare sacrilego della produzione. Ecco allora la folla dei nuovi poveri, dagli accenti casalinghi e planetari. Sono, da una parte, i terzomondiali estromessi dalla loro terra. I popoli della fame uccisi dai detentori dell’opulenza. Le tribù decimate dai calcoli economici delle superpotenze. Le genti angariate dal debito estero. Ma sono anche i fratelli destinati a rimanere per sempre privi dell’essenziale: la salute, la casa, il lavoro, la partecipazione. Sono i pensionati con redditi bassissimi. Sono i lavoratori che, pur ammazzandosi di fatica, sono condannati a vivere sott’acqua e a non emergere mai a livelli di dignità. Di fronte a questa gente non basta più commuoversi. Non basta medicare le ustioni a chi ha gli abiti in fiamme. I soli sentimenti assistenziali potrebbero perfino ritardare la soluzione del problema.
Occorre chiedere ‘occhi nuovi’. “Donaci occhi per vedere le necessità e le sofferenze dei fratelli. Occhi nuovi, Signore. Non cataloghi esaustivi di miserie, per così dire, alla moda. Perché, fino a quando aggiorneremo i prontuari allestiti dalle nostre superficiali esuberanze elemosiniere e non aggiorneremo gli occhi, si troveranno sempre pretestuosi motivi per dare assoluzioni sommarie alla nostra imperdonabile inerzia. Donaci occhi nuovi, Signore”.
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