Sono venti anni, domani, dalla strage di Capaci, quando la mafia uccise il giudice Giovanni Falcone, la moglie Francesca Morvillo e i tre uomini della scorta: Vito Schifani, Rocco Dicillo e Antonio Montinaro. Ad oggi, si conoscono solo gli esecutori materiali, mancano i nomi dei mandanti e per questo sono ancora in corso le inchieste.
Radio Vaticana - L’attentato di Capaci il 23 maggio del 1992, che fu seguito due mesi dopo dall’attentato di via D’Amelio in cui morì il giudice Paolo Borsellino, segnò una reazione popolare senza precedenti e una svolta nella lotta alla mafia. Alle cosche si assestarono colpi durissimi, con arresti eccellenti e condanne, grazie soprattutto a quegli strumenti per i quali i giudici Falcone e Borsellino avevano lottato e perso la vita. Subito dopo le loro uccisioni, arrivò alla Procura di Palermo, Gian Carlo Caselli, oggi procuratore di Torino. Francesca Sabatinelli lo ha intervistato. ascolta
R. - Vent’anni fa, dopo le stragi di Capaci e di Via d’Amelio, il nostro Paese era letteralmente in ginocchio: aspettava di essere "fatto fuori" definitivamente con il “colpo alla nuca”. Non dimentichiamo le parole del grande e del coraggiosissimo Nino Caponnetto (cosiddetto ‘padre del pool antimafia’ ndr), pronunziate subito dopo il funerale di Paolo Borsellino: “E’ tutto finito! Non c’è più niente da fare!”. Caponnetto interpretava il sentimento - se vogliamo lo sconcerto, lo sgomento - di tutti quanti gli italiani.
D. - Dottor Caselli, cosa è successo poi a Palermo dopo questo momento di disorientamento? Lei nel ’93 divenne procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Palermo…
R. - Passato questo primo momento pesante, Caponnetto in testa, ci siamo tirati su le maniche. Un biennio - come dire - "magico" di unità nazionale, per quanto riguarda le istituzioni innanzitutto. Praticamente all’unanimità vengono approvate - soltanto dopo le stragi, ma tuttavia approvate - leggi fondamentali per la lotta al crimine organizzato mafioso come quella sui pentiti e quella sul trattamento carcerario di giusto rigore per i mafiosi detenuti, quello che diventerà poi l’articolo 41bis dell’Ordinamento penitenziario. Le nuove leggi conferiscono alle forze dell’ordine e alla magistratura una maggiore efficacia e quindi restituiscono entusiasmo. Al contempo c’è una mobilitazione di popolo per le strade di Palermo, e non solo, che scendendo in piazza - tra le tante, tantissime cose - vuole dire una cosa fondamentale: “Questo nostro è uno Stato democratico, con i suoi limiti e con i suoi difetti. Non vogliamo quel ‘narcoStato’, quello ‘Stato mafia’, in cui lo stragismo di Cosa Nostra vuole farci precipitare”. Invece, di precipitare chissà dove, lentamente, ma significativamente, sempre di più, ci solleviamo e invertiamo la tendenza. Dopo le stragi, abbiamo saputo resistere e resistere nel ricordo, quasi obbligati da un vincolo morale, che Falcone, Borsellino e gli uomini della scorta che erano con loro a Capaci e in via d’Amelio, ci hanno impresso dentro.
D. – Venti anni fa, all’inizio anni degli Novanta, la Sicilia, Palermo, contavano morti ogni giorno, si sparava per le strade, c’erano le guerre tra i clan, i Corleonesi dettavano legge. Lei ci ha raccontato la ripresa... e oggi?
R. - Innanzitutto c’è da dire che quando io arrivo a Palermo, la situazione è ancora pesantissima: i “corvi” svolazzano ancora, i veleni permeano ancora il Palazzo di Giustizia. La prima cosa che ho cercato di fare, col concorso di tutti i colleghi, è stata quella di dire ai magistrati della Procura: “Basta con le divisioni. Guardiamo avanti e facciamo squadra”. I risultati che abbiamo ottenuto - e non sono pochi - nascono anche da qua. Sono risultati che hanno dato inizio a una linea di continuità, per quanto riguarda il contrasto all’ala militare di Cosa Nostra, che si è sviluppata ininterrottamente fino ad oggi. Senza dimenticare, però, che le mafie - oltre al profilo gangsteristico - sono anche relazioni esterne e cioè intrecci torbidi con pezzi della politica, dell’economia, della finanza, del mondo degli affari, delle istituzioni. Questa è la spina dorsale del potere mafioso. Quando però fai il tuo dovere – la legge è uguale per tutti e la mafia va affrontata a 360 gradi e non soltanto un pezzo – e ti muovi anche sul versante degli imputati eccellenti, dei livelli che contano, succede sempre qualcosa. E’ successo a Falcone e Borsellino, che sono stati - professionalmente parlando - spazzati via, il pool cancellato e il loro metodo di lavoro vincente azzerato. Questo è puntualmente avvenuto e spiega perché ancora oggi le mafie sono potenti: perché questo versante nevralgico, questo nodo strategico del loro potere, non viene ancora affrontato con la stessa energia, determinazione e continuità, con cui si contrasta l’ala militare.
D. – Quale aspetto di Giovanni Falcone le viene da ricordare in questo anniversario?
R. - I ricordi di Falcone e di Borsellino, come uomini e non soltanto come magistrati, si legano soprattutto al periodo in cui ho fatto parte del Consiglio Superiore della Magistratura, dal 1986 al 1990. Il mio ricordo riguarda la dignità, la compostezza, pur nella fermezza delle proprie tesi, con cui Falcone e Borsellino seppero sopportare la frontiera di incomprensione contro le loro buone ragioni che la maggioranza del Csm elevò. Di fronte a questa frontiera d’incomprensione, Falcone e Borsellino seppero reagire sempre con grande compostezza istituzionale, preoccupati soltanto di far valere le loro buone ragioni, che non erano però ragioni personali, corporative, legate ad interessi di bottega: erano le ragioni della democrazia, perché con un’efficiente e efficace lotta antimafia è la democrazia che si difende.
Radio Vaticana - L’attentato di Capaci il 23 maggio del 1992, che fu seguito due mesi dopo dall’attentato di via D’Amelio in cui morì il giudice Paolo Borsellino, segnò una reazione popolare senza precedenti e una svolta nella lotta alla mafia. Alle cosche si assestarono colpi durissimi, con arresti eccellenti e condanne, grazie soprattutto a quegli strumenti per i quali i giudici Falcone e Borsellino avevano lottato e perso la vita. Subito dopo le loro uccisioni, arrivò alla Procura di Palermo, Gian Carlo Caselli, oggi procuratore di Torino. Francesca Sabatinelli lo ha intervistato. ascolta
R. - Vent’anni fa, dopo le stragi di Capaci e di Via d’Amelio, il nostro Paese era letteralmente in ginocchio: aspettava di essere "fatto fuori" definitivamente con il “colpo alla nuca”. Non dimentichiamo le parole del grande e del coraggiosissimo Nino Caponnetto (cosiddetto ‘padre del pool antimafia’ ndr), pronunziate subito dopo il funerale di Paolo Borsellino: “E’ tutto finito! Non c’è più niente da fare!”. Caponnetto interpretava il sentimento - se vogliamo lo sconcerto, lo sgomento - di tutti quanti gli italiani.
D. - Dottor Caselli, cosa è successo poi a Palermo dopo questo momento di disorientamento? Lei nel ’93 divenne procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Palermo…
R. - Passato questo primo momento pesante, Caponnetto in testa, ci siamo tirati su le maniche. Un biennio - come dire - "magico" di unità nazionale, per quanto riguarda le istituzioni innanzitutto. Praticamente all’unanimità vengono approvate - soltanto dopo le stragi, ma tuttavia approvate - leggi fondamentali per la lotta al crimine organizzato mafioso come quella sui pentiti e quella sul trattamento carcerario di giusto rigore per i mafiosi detenuti, quello che diventerà poi l’articolo 41bis dell’Ordinamento penitenziario. Le nuove leggi conferiscono alle forze dell’ordine e alla magistratura una maggiore efficacia e quindi restituiscono entusiasmo. Al contempo c’è una mobilitazione di popolo per le strade di Palermo, e non solo, che scendendo in piazza - tra le tante, tantissime cose - vuole dire una cosa fondamentale: “Questo nostro è uno Stato democratico, con i suoi limiti e con i suoi difetti. Non vogliamo quel ‘narcoStato’, quello ‘Stato mafia’, in cui lo stragismo di Cosa Nostra vuole farci precipitare”. Invece, di precipitare chissà dove, lentamente, ma significativamente, sempre di più, ci solleviamo e invertiamo la tendenza. Dopo le stragi, abbiamo saputo resistere e resistere nel ricordo, quasi obbligati da un vincolo morale, che Falcone, Borsellino e gli uomini della scorta che erano con loro a Capaci e in via d’Amelio, ci hanno impresso dentro.
D. – Venti anni fa, all’inizio anni degli Novanta, la Sicilia, Palermo, contavano morti ogni giorno, si sparava per le strade, c’erano le guerre tra i clan, i Corleonesi dettavano legge. Lei ci ha raccontato la ripresa... e oggi?
R. - Innanzitutto c’è da dire che quando io arrivo a Palermo, la situazione è ancora pesantissima: i “corvi” svolazzano ancora, i veleni permeano ancora il Palazzo di Giustizia. La prima cosa che ho cercato di fare, col concorso di tutti i colleghi, è stata quella di dire ai magistrati della Procura: “Basta con le divisioni. Guardiamo avanti e facciamo squadra”. I risultati che abbiamo ottenuto - e non sono pochi - nascono anche da qua. Sono risultati che hanno dato inizio a una linea di continuità, per quanto riguarda il contrasto all’ala militare di Cosa Nostra, che si è sviluppata ininterrottamente fino ad oggi. Senza dimenticare, però, che le mafie - oltre al profilo gangsteristico - sono anche relazioni esterne e cioè intrecci torbidi con pezzi della politica, dell’economia, della finanza, del mondo degli affari, delle istituzioni. Questa è la spina dorsale del potere mafioso. Quando però fai il tuo dovere – la legge è uguale per tutti e la mafia va affrontata a 360 gradi e non soltanto un pezzo – e ti muovi anche sul versante degli imputati eccellenti, dei livelli che contano, succede sempre qualcosa. E’ successo a Falcone e Borsellino, che sono stati - professionalmente parlando - spazzati via, il pool cancellato e il loro metodo di lavoro vincente azzerato. Questo è puntualmente avvenuto e spiega perché ancora oggi le mafie sono potenti: perché questo versante nevralgico, questo nodo strategico del loro potere, non viene ancora affrontato con la stessa energia, determinazione e continuità, con cui si contrasta l’ala militare.
D. – Quale aspetto di Giovanni Falcone le viene da ricordare in questo anniversario?
R. - I ricordi di Falcone e di Borsellino, come uomini e non soltanto come magistrati, si legano soprattutto al periodo in cui ho fatto parte del Consiglio Superiore della Magistratura, dal 1986 al 1990. Il mio ricordo riguarda la dignità, la compostezza, pur nella fermezza delle proprie tesi, con cui Falcone e Borsellino seppero sopportare la frontiera di incomprensione contro le loro buone ragioni che la maggioranza del Csm elevò. Di fronte a questa frontiera d’incomprensione, Falcone e Borsellino seppero reagire sempre con grande compostezza istituzionale, preoccupati soltanto di far valere le loro buone ragioni, che non erano però ragioni personali, corporative, legate ad interessi di bottega: erano le ragioni della democrazia, perché con un’efficiente e efficace lotta antimafia è la democrazia che si difende.
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