Per le Ong ambientaliste si è visto solo uno sforzo della diplomazia troppo generico, privo d’impegni precisi e vincolanti: la conferenza di Rio de Janeiro non ha prodotto alcun risultato
Si è svolta dal 20 al 22 giugno a Rio de Janeiro la conferenza internazionale per lo sviluppo sostenibile e per la riduzione della povertà, chiamata Rio+20. Lo scopo è stato quello di dare un seguito alle serie di summit ambientali che periodicamente si susseguono dal 1992: la conferenza è avvenuta esattamente 20 anni dopo la prima. Il tema dell’ambiente ha avuto da allora un grande peso nelle politiche mondiali: ne sono prova l’adozione di importanti provvedimenti come la sottoscrizione del protocollo di Kyoto del 1997. Tra gli uomini politici che mostrarono molta attenzione a questi temi sicuramente ricordiamo Al Gore, che nel 2007 ebbe il premio Nobel per aver realizzato il documentario “Una scomoda verità”. Un altro uomo molto attento agli ammonimenti della comunità scientifica sul clima e sullo sviluppo sostenibile era Obama; ne è stato a sua volta forte propugnatore. Tuttavia oggi il presidente USA è stato solo uno dei ‘grandi assenti’ che hanno omesso la propria firma sul documento finale chiamato “Il futuro che vogliamo”: non era presente nemmeno il cancelliere tedesco Angela Merkel, né il primo ministro britannico David Cameron, né il presidente francese Hollande, così pure il presidente cinese Hu Jintao ed il nostro Presidente del Consiglio.
Nel documento finale, complici le assenze dei leader delle grandi potenze economiche mondiali, è prevalso il linguaggio dell’inazione: alle enunciazioni di principio non sono seguiti atti concreti. Le Ong ambientaliste hanno reagito sottoscrivendo un documento congiunto molto critico, in cui hanno detto che “il futuro che vogliamo non è quello sottoscritto dai leader mondiali, bensì è fatto di impegni concreti e azione, non di sole promesse; ha l’urgenza necessaria per risolvere, non posporre, la crisi sociale, ambientale ed economica: è fatto di cooperazione ed è in linea con la società civile e le sue aspirazioni, non solo con le posizioni comode dei governi”.
Per capire le motivazioni del disaccordo bisogna tornare un po’ indietro: con l’inizio della globalizzazione e la conseguente esponenziale liberalizzazione dello scambio mondiale di merci, i paesi più poveri sono diventati paesi ‘emergenti’ ed hanno registrato inattesi guadagni con PIL a 2 cifre. Allucinati dai forti profitti, hanno messo da parte l’ecologia favorendo l’inquinamento ed i rischi connessi. Non hanno saputo rinunciare ad una tanto attesa emancipazione dalla condizione di paesi ‘sottosviluppati’. Cogliendo a volo l’occasione, i paesi più sviluppati gli hanno fatto ‘sponda’, ben felici di poter trovare il capro espiatorio per ‘ rimandare’ o ammorbidire le loro politiche ambientali. Infine è arrivata la crisi finanziaria mondiale e tutti sappiamo come sta andando: l’opinione prevalente è che le priorità non sono le politiche ambientali ma quelle per lo sviluppo.
Eppure c’è poco da scherzare, perché prima di quella finanziaria si rischia la bancarotta ambientale: le emissioni di anidride carbonica sono aumentate del 40% e la perdita di biodiversità è aumentata del 30% negli ultimi due decenni, mentre una persona su sei sulla terra resta sottonutrita. Se si prosegue in questa direzione entro 40 anni ci vorranno due pianeti per sostenerci, e chi soffrirà di più saranno i più poveri.
Come si può dire che questi argomenti sono rinviabili e se ne può parlare… ma solo quando tutto va bene? Se lo è chiesto il direttore generale del WWF , Jim Leape, che ha detto: "Nonostante una sessione negoziale a tarda notte, il testo riveduto è un colossale fallimento di leadership e di visione politica. I leader dovrebbero essere in imbarazzo per la loro incapacità di trovare un terreno comune su un tema così cruciale”. Gli fa eco su twitter il commissario dell'UE per il clima Connie Hedegaard che scrive: "Nessuno in quella stanza era felice dell’adozione del testo, perché è molto debole”. L’Europa – ha detto Mariagrazia Midulla, responsabile del WWF Italia – si é presentata a Rio con proposte relativamente ambiziose, pure ben poche di queste proposte sono sopravvissute nel testo finale. Sarcastica Elisa Bacciotti, direttrice delle campagne di Oxfam Italia, che ha detto: “I governi a Rio stanno risistemando le sedie a sdraio sul Titanic mentre 1,4 miliardi di persone vivono ancora in povertà, in una lotta quotidiana per cibo, acqua ed energia”. Drastica la dichiarazione di The Climate Action Network (CAN): “Il documento finale intitolato 'Il futuro che vogliamo' testimonia che i leader mondiali hanno perso completamente il contatto con la realtà. Esso non riflette in alcun modo la nostra aspirazione”.
L’assenza dei capi di stato delle più grandi potenze mondiali non si è verificata per mancanza di tempo ma perché nelle riunioni preliminari delle commissioni preparatorie era chiaro che non sarebbero riusciti a mettersi d’accordo. L’impressione è che lo sforzo della diplomazia, vista l’insostenibilità della crisi mondiale e delle nuove tensioni internazionali, è stato concentrato a togliersi d’impaccio, con la conseguenza che il documento finale comune è più una dichiarazione d’intenti che una ‘road map’ di cose concrete da fare. A questo punto viene però da pensare che in realtà la crisi, oltre che finanziaria, è anche una crisi della governance mondiale: occuparsi della crisi finanziaria e non dell’ambiente vuol dire che non si riesce a capire che i due temi sono strettamente collegati e che entrambi riguardano da vicino l’uomo.
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