lunedì, giugno 18, 2012
Nel Dio unico si riconoscono tre religioni (Ebraismo, Islam, e Cristianesimo), ma il nostro Dio è Uno e Trino e ciò lo rende diverso

di Alberto Giannino

Il patrimonio dei testi rivelati della Bibbia parla con voce unanime dell’unicità di Dio. Gesù stesso la ribadisce, facendo sua la professione di Israele: “Il Signore Dio nostro è l’unico Signore” (Mc 12,29; cfr Dt 6,4-5). È l’unicità affermata anche in queste parole di lode che sgorgano dal cuore dell'apostolo Paolo: “Al Re dei secoli incorruttibile, invisibile e unico Dio, onore e gloria nei secoli dei secoli. Amen”. Sappiamo che alla luce della piena rivelazione in Cristo, tale unicità misteriosa non è riducibile ad un'unità numerica. Il mistero cristiano - come rileva papa Benedetto VI - ci fa contemplare nell'unità sostanziale di Dio le persone del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo: ciascuna in possesso dell’intera e indivisibile sostanza divina, ma una distinta dall'altra in forza della reciproca relazione.

Le relazioni non attenuano minimamente l'unità divina, come spiega il Concilio Lateranense IV (1215): “Ciascuna delle tre Persone è quella Realtà, cioè sostanza, essenza o natura divina ... Essa non genera, non è generata e non procede...” (DS, 804). La dottrina cristiana sulla Trinità, sancita dai Concili, è esplicita nel rigetto di ogni “triteismo” o “politeismo”. In questo senso, ossia in riferimento all'unica sostanza divina, qualcuno vede una corrispondenza tra Cristianesimo e Islam. Tale corrispondenza, però, non deve far dimenticare le notevoli diversità tra le due religioni: sappiamo, infatti, che l’unità di Dio si esprime nel mistero delle tre divine Persone. Essendo Amore (cfr 1 Gv 4,8), Dio è da sempre Padre che si dona interamente generando il Figlio, entrambi uniti in una comunione d’amore che è lo Spirito Santo. Questa distinzione e compenetrazione delle tre Persone divine non si aggiunge alla loro unità ma ne è l'espressione più profonda e caratterizzante. D’altra parte, non va dimenticato che il monoteismo trinitario tipico del cristianesimo resta un mistero inaccessibile all’umana ragione, che tuttavia è chiamata ad accettare la rivelazione dell’intima natura di Dio. Nel Simbolo apostolico professiamo: “Io credo in Dio, Padre onnipotente . . . e in Gesù Cristo, suo unico Figlio (unigenito)”. Solo successivamente il Simbolo apostolico mette in rilievo il fatto che il Figlio unigenito del Padre è lo stesso Gesù Cristo come Figlio dell’uomo, “il quale fu concepito di Spirito Santo, nacque da Maria Vergine”.

Il Simbolo niceno-costantinopolitano esprime la stessa cosa con parole un po’ diverse: “Per noi uomini e per la nostra salvezza discese dal cielo, e per opera dello Spirito Santo si è incarnato nel seno della Vergine Maria e si è fatto uomo”. Ancor prima, però, lo stesso Simbolo presenta in modo molto più ampio la verità della figliolanza divina di Gesù Cristo, Figlio dell’uomo: “Credo in un solo Dio, Padre onnipotente... Credo in un solo Signore, Gesù Cristo, unigenito Figlio di Dio, nato dal Padre prima di tutti i secoli: Dio da Dio, Luce da Luce, Dio vero da Dio vero, generato, non creato, della stessa sostanza del Padre; per mezzo di lui tutte le cose sono state create”. Queste ultime parole mettono ancor più in rilievo l’unità nella divinità, del Figlio col Padre, che è “creatore del cielo e della terra, di tutte le cose visibili e invisibili”.

I Simboli esprimono la fede della Chiesa in modo conciso, ma proprio grazie alla loro concisione scolpiscono le verità più essenziali: quelle che costituiscono quasi il “midollo” stesso della fede cristiana, la pienezza e il vertice dell’autorivelazione di Dio. Ebbene secondo l’espressione dell’autore della Lettera agli Ebrei, Dio “aveva già parlato... molte volte e in diversi modi” e alla fine “ha parlato” all’umanità “per mezzo del Figlio”. Difficile non riconoscere indicata qui l’autentica pienezza della Rivelazione. Dio non solo parla di sé per mezzo degli uomini chiamati a parlare a nome suo, ma in Gesù Cristo Dio stesso, parlando “per mezzo del Figlio”, diventa il soggetto della parola che rivela. Egli stesso parla di se stesso. La sua parola contiene in sé l’autorivelazione di Dio - l’autorivelazione nel senso stretto e immediato. Tale autorivelazione di Dio costituisce la grande novità e “originalità” del Vangelo: professando la fede con le parole dei Simboli, sia apostolico che niceno-costantinopolitano, la Chiesa attinge in pienezza dalla testimonianza evangelica e ne raggiunge la essenziale profondità. Alla luce di questa testimonianza, essa professa e rende testimonianza su Gesù Cristo come Figlio, che è “della stessa sostanza del Padre”.

Il nome “Figlio di Dio” poteva essere - ed è stato - usato anche in senso largo, come si rileva in alcuni testi dell’Antico Testamento. Il Nuovo Testamento, e i Vangeli in particolare, parlano di Gesù Cristo come del Figlio di Dio in senso stretto e pieno: ce lo ricorda spesso papa Benedetto XVI. Egli è “generato, non creato”, è “della stessa sostanza del Padre”. Prestiamo ora attenzione a questa verità centrale della fede cristiana analizzando la testimonianza del Vangelo: essa è anzitutto la testimonianza del Figlio sul Padre e, in particolare, la testimonianza di una relazione filiale che è propria di lui e solo di lui (peccato che questa verità di fede venga sovente messa in discussione). Infatti le parole di Gesù sono molte significative: “Nessuno conosce il Padre se non il Figlio e colui al quale il Figlio lo voglia rivelare … Nessuno conosce il Figlio se non il Padre” (Mt 11, 27). Difatti è il Padre che rivela il Figlio. Merita osservare che nello stesso contesto vengono riportate le parole di Gesù: “Ti benedico, o Padre, Signore del cielo e della terra, perché hai tenuto nascoste queste cose ai sapienti e agli intelligenti e le hai rivelate ai piccoli”. Sono parole che Gesù pronuncia - come annota l’evangelista Luca - con una particolare letizia del cuore, “esultando nello Spirito Santo”. La verità su Gesù Cristo, Figlio di Dio - prosegue Benedetto XVI nel suo magistero - appartiene dunque all’essenza stessa della rivelazione trinitaria. In essa e mediante essa Dio rivela se stesso come unità dell’inscrutabile Trinità: del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo. Così dunque la definitiva fonte della testimonianza che i Vangeli (e tutto il Nuovo Testamento) danno di Gesù Cristo come Figlio di Dio è il Padre stesso: il Padre che conosce il Figlio, e se stesso nel Figlio. Gesù, rivelando il Padre, condivide in certo modo con noi la conoscenza che il Padre ha di se stesso nel suo eterno unigenito Figlio. Mediante questa eterna figliolanza Dio è eternamente Padre. Veramente con spirito di fede e di gioia, ammirati e commossi, facciamo nostra la confessione di Gesù: “Ogni cosa è stata affidata a te dal Padre, o Gesù Figlio di Dio, e nessuno sa chi è il Figlio se non il Padre, né chi è il Padre se non il Figlio e colui al quale tu, o Figlio, lo voglia rivelare”.

Molti teologi sottolineano che la Chiesa Cattolica riconosce la fede in un unico Dio, vivente, sussistente, misericordioso e onnipotente, Creatore del cielo e della terra: ciò la accomuna all’Islam, rappresenta un legame che unisce Cristiani e Musulmani (ma va sempre fatto un distinguo per non generare confusione e disorientamento fra i fedeli). Fra gli altri elementi che ha in comune con l’Islam c’è l’onore attribuito a Gesù Cristo e alla sua vergine Madre. Non solo: anche i musulmani, come gli ebrei e i cristiani, guardano alla figura di Abramo come a un modello di incondizionata sottomissione ai decreti di Dio. Sull’esempio di Abramo, i fedeli si sforzano di riconoscere nella loro vita il posto che spetta a Dio, origine, maestro, guida e fine ultimo di tutti gli esseri. “Un solo Dio Padre di tutti, che è al di sopra di tutti, agisce per mezzo di tutti ed è presente in tutti”. Alla luce di queste parole della Lettera dell’Apostolo Paolo ai cristiani di Efeso, nella Sacra Scrittura troviamo la riproposizione del tema dell’unico Dio, ma non dimentichiamo mai che il nostro è un monoteismo trinitario, che è profondamente diverso dal monoteismo unico e, soprattutto, nulla ha a che vedere con Allah, come vogliono farci credere teologi “dissidenti” che si stracciano le vesti quando sentono parlare di scontro fra civiltà cristiana e Islam, ma parlano del relativismo come cultura della diversità. Allora, perché Papa Benedetto XVI parla di dittatura del relativismo? Perché le verità religiose per il relativismo sono tutte relative, esiste il dubbio sistematico, ontologico, pur di negare i dogmi cattolici. Quindi, con buona pace dei cattolici adulti o progressisti, il relativismo mette in discussione verità, dogmi, fede avvolgendo di nebbia e di opacità la dottrina. Noi, invece, abbiamo bisogno di certezze solide in un'epoca di indifferenza religiosa e di ateismo in cui la "società liquida" preconizzata da Zygmunt Bauman è molto diffusa.

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