Esistono prove della derivazione dell’essere umano dalle scimmie? Davvero Darwin lo credeva? Cosa pensa la Chiesa dell’evoluzionismo scientifico? La teoria dell’evoluzione umana tra scienza e fede.
Da quando Charles Darwin formulò la teoria dell’evoluzione (è del 1859 la sua celeberrima opera “L’origine delle specie”), si avviò un profondo dibattito circa l’origine dell’uomo e la sua posizione all’interno del mondo naturale, tale da rimettere in discussione non solo la tradizionale visione fissista indotta dal creazionismo classico (in virtù della quale le specie animali e vegetali sono immutabili e quindi incapaci di evolvere nel tempo), ma pure gli stessi testi sacri, da cui quella visione sembrava inequivocabilmente fondarsi. L’evoluzionismo biologico, nel proporre una visione dinamica dell’esistente alla stregua della quale le specie viventi variano nel tempo per effetto dell’adattamento degli individui alle caratteristiche ambientali e di una selezione naturale sostanzialmente guidata dal caso, rischiava tuttavia di esulare dall’ambito di una teoria puramente scientifica per porsi quale chiave di lettura universale della realtà, invadendo campi legittimamente occupati da altre discipline, quali la filosofia, la morale e la stessa teologia. Si comprende bene allora la circospezione e la cautela che nel contesto della cultura cattolica hanno per lungo tempo circondato la nuova teoria. Ad ogni modo, la Chiesa cattolica fin dall’inizio pensò bene di non inserirsi nel dibattito accademico originato dall’intuizione del naturalista inglese, astenendosi dall’emettere pronunciamenti ufficiali a favore o contro l’evoluzionismo scientifico. Il che – va riconosciuto – favorì non poco lo sviluppo di un dibattito seriamente scientifico, non viziato da pregiudiziali di tipo dogmatico.
Diverso, invece, l’atteggiamento di parecchie chiese protestanti, le quali, in ragione di una interpretazione rigorosamente letterale del testo biblico (figlia del principio protestantico del “Sola Scriptura”) condannarono apertamente la teoria darwiniana come contraria alle Sacre Scritture. Eppure, secondo una certa vulgata, di stampo laicista, la Chiesa cattolica sarebbe per principio nemica del progresso tecnico e scientifico, a differenza del protestantesimo, portatore sempre e comunque di modernità.
A distanza di più di un secolo, la teologia cattolica (in ciò sostenuta da alcuni documenti del Magistero pontificio, soprattutto di Giovanni Paolo II), superati gli iniziali sospetti, arriva comunque a riconoscere la validità della teoria evoluzionistica, di cui ammette senza problemi la conciliabilità con il creazionismo biblico (al riguardo si osserva che l’evoluzione delle specie comunque presuppone un iniziale atto creatore). Sono infatti innegabili le molteplici conferme che la teoria in questione ha ricevuto nel secolo appena trascorso sia dalla genetica che dalla paleontologia. Quello che la teologia cattolica contesta piuttosto è la pretesa di quanti vorrebbero fare dell’evoluzionismo una regola universale da applicare anche al campo della filosofia e della morale. Non di rado, infatti, l’evoluzionismo scientifico viene richiamato da taluni ideologi al fine di giustificare una visione antropologica che, trascurando del tutto la dimensione spirituale in antitesi con la visione cristiana, intende privare l’uomo della sua posizione di prim’ordine sugli altri esseri creati. In fondo è sulla base dell’evoluzionismo scientifico che molti animalisti fondano la loro concezione dell’uomo quale animale fra gli altri, seppur più evoluto all’interno della scala naturale, giungendo così a due posizioni estreme: o negare all’uomo la sua specifica e superiore dignità o, al contrario, estendere a tutte le forme animali quella dignità che dovrebbe spettare all’uomo soltanto.
Talvolta si giunge perfino ad attribuire a Darwin affermazioni del tutto estranee alla sua teoria. Una di queste è che l’uomo discenderebbe dalle scimmie: si tratta di idea non solo estranea al famoso naturalista inglese, ma per di più priva di ogni riscontro scientifico. Solo che, mentre in passato quest’idea dell’uomo quale discendente delle scimmie era evocata dagli oppositori di Darwin per ridicolizzarlo, adesso la medesima “suggestione” viene evocata da quanti pretendono di essere fedeli discepoli del padre dell’evoluzionismo scientifico. Vediamo allora più da vicino come stanno le cose, cercando di sfatare quello che oramai pare essere divenuto un mito “metropolitano”. Ebbene, una delle maggiori critiche rivolte alla teoria evoluzionistica prendeva le mosse dalla considerazione di parecchi “anelli mancanti”, vale a dire dalla mancanza di resti fossili in grado di dimostrare che l’uomo moderno discendesse dalla stessa linea evolutiva delle scimmie. Al che Darwin era solito replicare che la sua teoria non imponeva di pensare l’uomo come derivante in linea “retta” dalle scimmie, ma conduceva piuttosto ad ipotizzare l’esistenza di un antenato comune tanto agli uomini quanto alle scimmie. Sicché non aveva senso ricercare l’anello mancante tra l’uomo e le scimmie, poiché un tale anello poteva benissimo non essere mai esistito. Né gli sviluppi successivi della ricerca paleontologica hanno portato alla luce il fantomatico anello mancante. Anzi, nel periodo in cui gli studiosi presumono che si sia verificato il “distacco” della linea evolutiva dell’uomo da quella delle scimmie (cioè il periodo compreso tra 9 e 5 milioni di anni fa) si assiste ad un vero e proprio “buco nero”, non essendo stati rinvenuti resti di ominidi. Il primo ominide sembrerebbe essere ad oggi l’Ardipithecus ramidus, risalente a 4,5 milioni di anni fa. Poi fanno la loro comparsa gli Australopitechi in un periodo compreso tra 3,5 e 2 milioni di anni fa, ma in ogni caso si tratta di ominidi non appartenenti al genere Homo. Il primo ominide appartenente al genere Homo è invece l’homo habilis, il quale fa la sua prima misteriosa comparsa circa 2 milioni di anni fa e può essere considerato come il nostro più antico antenato. Tuttavia, la derivazione “lineare” dell’homo habilis dagli australopitechi è un fatto tuttora molto controverso tra gli studiosi. Dunque, come vediamo, gli anelli mancanti sono più d’uno: non solo non vi è prova che gli australopitechi (ominidi non umani) derivino in linea retta dalle scimmie antropomorfe (gibboni, orangutan, scimpanzé e gorilla), ma non vi è neppure prova certa che il primo ominide appartenente al genere Homo (ossia l’homo habilis, dalla cui linea evolutiva discende l’uomo moderno, il sapiens sapiens) discenda in linea retta dagli australopitechi.
Certo, secondo la teoria darwiniana l’anello mancante, pur non essendo con sicurezza rinvenibile tra la linea delle scimmie e quella dell’uomo, dovrebbe essere comunque rinvenibile tra la linea “Homo” e l’antenato che si presume essere comune all’uomo e alle scimmie. Un tale anello però non è stato ancora rinvenuto, non essendoci prove fossili di un antenato comune. Con ciò non si vuole dubitare su un piano generale della validità scientifica della teoria evoluzionistica, ma rimane il fatto che l’esistenza di un antenato comune tra l’uomo e le scimmie è ad oggi una ipotesi che attende ancora una verifica sperimentale. Il che dovrebbe, da un lato, indurre certuni a maggiore prudenza allorché affermano come cosa certa che l’uomo derivi dalle scimmie o da un antenato comune e, dall’altro, dimostra come anche la scienza non possa fare a meno, come la religione, di veri e propri atti di fede.
Fede e ragione convivono quindi nella scienza così come nella religione. Se le due cose fossero tra loro incompatibili, come ritiene certo scientismo e anche certo laicismo, non solo non esisterebbe religione, ma non ci sarebbe neppure possibilità di ricerca scientifica. Che sia questa una conferma indiretta della giustezza dell’insegnamento dei Padri della Chiesa sui rapporti tra fede e ragione, insegnamento con forza ribadito da Benedetto XVI?
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Sono presenti 3 commenti
Non è essenziale trovare l'anello mancante, basta prendere atto che l'uomo e ogni altro essere vivente appartengono al medesimo Albero delle Vita.
L'esistenza di un anello mancante, tuttora non identificato, è la deduzione logica di una inevitabile "interpolazione", non un atto di fede.
La scienza, caso mai, formula delle ipotesi di lavoro. Un cordiale saluto.
Nell'articolo si legge: " dimostra come anche la scienza non possa fare a meno, come la religione, di veri e propri atti di fede".
Balle, tutt'alpiù la Scienza dimostra che vive nel dubbio perché ricerca. Altro che atti di fede.
E' la fede che crede al di là delle prove: vedi Galileo.
Fede e ragione sono sempre, seppur in varia misura, coinvolti nel processo conoscitivo, ossia nel processo di ricerca della verità. Ne erano ben consapevoli i Padri della Chiesa: famosa la citazione di S. Agostino "Crede ut intelligas, intellige ut credas" (credi per capire e capisci per credere). Non solo per accettare come vera una proposizione di fede, ma anche per accettare come vera una proposizione scientifica occorre compiere, in un certo senso, un atto di fede (specialmente se abbiamo a che fare con teorie, come quella darwiniana, ancora lacunose o con ipotesi non pienamente verificate). La ragione aiuta solo fino ad un certo punto, poi bisogna affidarsi necessariamente alla fede. Nel caso delle verità religiose il salto di fede che la ragione deve compiere è senz'altro maggiore, poiché non è possibile una verifica sperimentale delle relative proposizioni. Sarebbe però sbagliato ritenere che aver fede significhi accettare una data verità senza prove o senza ragionare. Se così fosse, non sarebbe possibile neppure la teologia, come "discorso razionale su Dio". Questo è il significato dell'inciso finale, che giustamente non è passato inosservato agli attenti lettori di cui sopra, che ringrazio per la puntualizzazione.
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