Sono molti quelli che, in un modo o nell’altro, chiedevano la svolta nella crisi siriana. Al punto che tutta una serie di questioni diventano secondarie. Anche quelle che non lo sono, come porsi la domanda se l’insurrezione in Siria si eterodiretta o un fenomeno interno sostenuto dall’esterno. Non è domanda da poco, ma al punto in cui si è arrivati, con migliaia di morti, una svolta è auspicabile.
E-ilmensile - Potrebbe essere l’intervento della Nato, come è stato in Libia. E’ ormai evidente che il regime di Bashar al-Assad, appoggiato da Russia e Iran, e gli insorti, appoggiati da Usa e paesi del Golfo Persico, non prevarranno sul nemico stante l’attuale situazione militare sul campo. Il governo, con la violenza, non riprenderà il controllo del Paese, i ribelli con la guerriglia non rovesceranno il regime. Ecco che si apre lo spazio per il deus ex machina delle tragedie greche. Ha provato l’Onu, che deve provare, per contratto, con gli osservatori. Mediare, trattare. Un pugno di caschi blu, con la faccia di chi è mandato a svuotare l’oceano con un bicchiere. Andava fatto, anche se tutti sapevano che non poteva servire a nulla, per poi dire che è stato fatto.
Nelle ultime ore pare aprirsi una nuova fase, quella dell’intervento armato. Passando per Pearl Harbour la storia della guerra si avvita attorno a casus belli. Con le dovute proporzioni, l’abbattimento del caccia turco avvenuto venerdì 22 giugno da parte della contraerea siriana può essere il momento di svolta di questa crisi. In tre giorni sono esplorabili due vie: l’aggressione a uno stato membro della Nato (la Turchia) che ‘obbliga’ gli altri membri a intervenire e l’aggressione di uno stato a un altro che permette al Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite di attivare l’opzione armata.
Le dichiarazioni del governo turco, conoscendo bene sia il premier Erdogan che il presidente Gul, fanno paura. Perché sono fin troppo calme. Il duo islamista ha abituato il mondo (ricordate la Freedom Flotilla?) ha tenere un profilo molto spigoloso in politica estera. L’esecutivo siriano ha ammesso subito l’abbattimento da parte della sua contraerea, ma quello turco ha risposto in modo soft, a caldo. Damasco sostiene che il caccia volava, a bassa quota, nello spazio aereo siriano senza autorizzazione. I vertici militari turchi, oggi, 24 giugno, dicono che il caccia invece “si trovava nello spazio aereo internazionale”. Casus belli, appunto.
“La Turchia è pronta a intraprendere i passi necessari una volta accertate tutte le prove”, ha detto Erdogan. Il presidente Abdullah Gul ha affermato “che non si può ignorare la vicenda”. Rombo di cannoni, in sottofondo. Proprio nelle ore successive all’inchiesta del New York Times che denuncia quello che sanno tutti (almeno coloro che non vogliono far finta di non vedere): le armi ai ribelli, tentando di selezionarli, le passano turchi e americani, con sauditi e qatarioti. Imbarazzante, ma l’abbattimento dell’aereo turco è arrivato al momento giusto per parlare d’altro. Di guerra, nello specifico.
E-ilmensile - Potrebbe essere l’intervento della Nato, come è stato in Libia. E’ ormai evidente che il regime di Bashar al-Assad, appoggiato da Russia e Iran, e gli insorti, appoggiati da Usa e paesi del Golfo Persico, non prevarranno sul nemico stante l’attuale situazione militare sul campo. Il governo, con la violenza, non riprenderà il controllo del Paese, i ribelli con la guerriglia non rovesceranno il regime. Ecco che si apre lo spazio per il deus ex machina delle tragedie greche. Ha provato l’Onu, che deve provare, per contratto, con gli osservatori. Mediare, trattare. Un pugno di caschi blu, con la faccia di chi è mandato a svuotare l’oceano con un bicchiere. Andava fatto, anche se tutti sapevano che non poteva servire a nulla, per poi dire che è stato fatto.
Nelle ultime ore pare aprirsi una nuova fase, quella dell’intervento armato. Passando per Pearl Harbour la storia della guerra si avvita attorno a casus belli. Con le dovute proporzioni, l’abbattimento del caccia turco avvenuto venerdì 22 giugno da parte della contraerea siriana può essere il momento di svolta di questa crisi. In tre giorni sono esplorabili due vie: l’aggressione a uno stato membro della Nato (la Turchia) che ‘obbliga’ gli altri membri a intervenire e l’aggressione di uno stato a un altro che permette al Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite di attivare l’opzione armata.
Le dichiarazioni del governo turco, conoscendo bene sia il premier Erdogan che il presidente Gul, fanno paura. Perché sono fin troppo calme. Il duo islamista ha abituato il mondo (ricordate la Freedom Flotilla?) ha tenere un profilo molto spigoloso in politica estera. L’esecutivo siriano ha ammesso subito l’abbattimento da parte della sua contraerea, ma quello turco ha risposto in modo soft, a caldo. Damasco sostiene che il caccia volava, a bassa quota, nello spazio aereo siriano senza autorizzazione. I vertici militari turchi, oggi, 24 giugno, dicono che il caccia invece “si trovava nello spazio aereo internazionale”. Casus belli, appunto.
“La Turchia è pronta a intraprendere i passi necessari una volta accertate tutte le prove”, ha detto Erdogan. Il presidente Abdullah Gul ha affermato “che non si può ignorare la vicenda”. Rombo di cannoni, in sottofondo. Proprio nelle ore successive all’inchiesta del New York Times che denuncia quello che sanno tutti (almeno coloro che non vogliono far finta di non vedere): le armi ai ribelli, tentando di selezionarli, le passano turchi e americani, con sauditi e qatarioti. Imbarazzante, ma l’abbattimento dell’aereo turco è arrivato al momento giusto per parlare d’altro. Di guerra, nello specifico.
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