venerdì, luglio 13, 2012
Chiusasi con le due sentenze del TAR del Veneto e del Consiglio di Stato (di cui si è detto nel primo articolo di questa mini-serie) la fase “nazionale” del processo al crocifisso intentato da Soile Lautsi, la vertenza viene portata all’attenzione della Corte europea dei diritti dell’uomo (Corte EDU). Dopo una prima “condanna”, il Crocifisso viene “assolto” in via definitiva dalla Grande Camera.

di Bartolo Salone

A formare oggetto di discussione dinanzi alla Corte è la questione relativa alla presunta violazione di due diritti umani fondamentali riconosciuti dalla Convenzione europea dei diritti dell’uomo (CEDU): il diritto dei genitori ad educare i figli secondo le proprie convinzioni religiose e filosofiche e il diritto degli stessi bambini alla libertà di pensiero, coscienza e religione. Investita della questione, la Corte in primo grado, con sentenza del 3 novembre 2009, constatava una violazione della CEDU, concludendo che l’esposizione obbligatoria di un simbolo di una data confessione nell’esercizio di una funzione pubblica, e in particolare nelle aule scolastiche, viola il diritto dei genitori di educare i loro figli secondo le loro convinzioni e il diritto dei bambini scolarizzati di credere o di non credere. In particolare, la Corte osservava come la presenza del crocifisso possa facilmente essere interpretata da studenti di qualsiasi età come un segno religioso, il che, se può essere incoraggiante per alcuni studenti religiosi, “può essere emotivamente perturbante per studenti di altre religioni o per coloro che non professano nessuna religione”. Inoltre, partendo dal presupposto (tutt’altro che pacifico a dire il vero) che la CEDU obblighi gli Stati alla neutralità confessionale nel contesto dell’educazione pubblica, la Corte si chiedeva in che modo un simbolo che è ragionevole associare al cattolicesimo (religione maggioritaria in Italia) “possa servire al pluralismo educativo che è essenziale per la preservazione di una società democratica come concepita dalla Convenzione”.

Contro la sentenza del 3 novembre 2009 (pronunciata all’unanimità da un collegio formato da 7 giudici europei), il Governo italiano si appellava alla Grande Camera, che con 15 voti a favore e due contrari ribaltava il precedente verdetto, negando che vi fosse stata qualsivoglia violazione della Convenzione. La sentenza della Grande Camera del 18 marzo 2011, che chiude anche a livello europeo la vicenda, “assolvendo” il crocifisso dai capi di imputazione, si lascia apprezzare per la cura nella ricostruzione dell’intero “caso” oltre che per l’ampiezza dell’apparato motivazionale, arricchito delle opinioni separate (ma concordanti) dei giudici Rozakis, Power e Bonello e della sola opinione dissenziente dei due giudici che hanno votato contro. E’ quindi piuttosto singolare che i media nazionali non abbiano avvertito la necessità di mettere nel dovuto risalto la pronuncia della Grande Camera, specie dopo il gran parlare che si era fatto della precedente sentenza del 2009 (va segnalato, peraltro, che nel web risulta tuttora pressoché impossibile trovare la traduzione italiana della sentenza definitiva della Corte EDU al di fuori del sito istituzionale del Ministero della Giustizia).

Fatta questa premessa e andando ai contenuti, la Grande Camera per prima cosa constata come la ricorrente (Soile Lautsi) non abbia fornito alla Corte elementi che attestino l’eventuale influenza “perturbante” che l’esposizione di un simbolo religioso sui muri potrebbe avere sugli alunni: in realtà, sostiene la Corte, il crocifisso appeso al muro va considerato come un simbolo essenzialmente passivo a cui non si può attribuire un’influenza sugli allievi paragonabile ad un discorso didattico o alla partecipazione ad attività religiose, e quindi risulta di per sé solo inidoneo a ledere la loro libertà di coscienza e di religione. Quanto poi alla pretesa violazione del diritto che i genitori hanno di educare i figli secondo le loro convinzioni religiose o filosofiche – diritto che, stando alla CEDU, lo Stato ha il dovere di rispettare nell’esercizio delle funzioni che assume nel campo dell’educazione e dell’insegnamento – la Grande Camera, richiamando la sua pregressa giurisprudenza, osserva come tale diritto non impedisce allo Stato di diffondere attraverso la scuola pubblica informazioni o conoscenze di carattere religioso o filosofico (ancorché difformi da quelle professate dai genitori degli alunni), purché ciò venga fatto in un’atmosfera serena, scevra da ogni forma di proselitismo. In altri termini, il rispetto dovuto alle convinzioni religiose e filosofiche dei genitori non impone allo Stato di adeguare i programmi (o gli arredi) scolastici alle convinzioni (per loro natura varie e mutevoli) dei singoli genitori, impedendogli soltanto di perseguire, attraverso l’insegnamento, forme di indottrinamento. E’ vero che la presenza del crocifisso nelle aule scolastiche conferisce alla religione maggioritaria del Paese una visibilità preponderante nell’ambiente scolastico, ma ciò non è di per sé sufficiente a denotare un processo di indottrinamento da parte dello Stato e quindi a far ritenere violata la Convenzione. Osserva altresì al riguardo il giudice Bonello nella sua opinione separata che, ammesso e non concesso che la CEDU riconosca ai genitori il diritto di pretendere dalle istituzioni scolastiche un insegnamento in tutto conforme alle loro convinzioni religiose o filosofiche, siffatto diritto andrebbe riconosciuto in egual misura a tutti i genitori degli alunni frequentanti la classe. Per cui, se i genitori di un solo alunno, come nel caso di specie, vogliono una istruzione “senza crocifisso” e i genitori degli altri ventinove, esercitando la medesima libertà fondamentale, vogliono al contrario un’istruzione “con crocifisso”, non si capisce in base a quale logica debba essere la volontà di questi ultimi a dover capitolare di fronte alla diversa volontà di uno solo.

Ad ogni modo – continua la Grande Camera – gli effetti della accresciuta visibilità che la presenza del crocifisso conferisce al cristianesimo nello spazio scolastico va relativizzata alla luce dei seguenti elementi. Da una parte, questa presenza non è associata ad un insegnamento obbligatorio del cristianesimo, e dall’altra l’Italia apre parallelamente lo spazio scolastico ad altre religioni: agli alunni non è vietato portare il velo islamico e altri simboli e indumenti aventi una connotazione religiosa; sono previste soluzioni alternative per facilitare la conciliazione della frequenza scolastica con le pratiche religiose minoritarie; l’inizio e la fine del Ramadan sono spesso festeggiati nelle scuole e negli istituti può essere istituito un insegnamento religioso facoltativo per ogni confessione religiosa riconosciuta; infine, nulla indica che le autorità si mostrino intolleranti verso gli alunni di altre religioni o non credenti. In questo contesto di pluralismo e di tolleranza religiosa – afferma inoltre il giudice Power nella sua opinione separata – la presenza del simbolo cristiano, esprimendo un diverso punto di vista (quello caratterizzante la storia e il sistema di valori della comunità “ospitante”) non può che stimolare il dialogo e favorire ulteriormente lo sviluppo del pensiero critico. Al contrario, l’educazione sarebbe ridotta se i ragazzi non fossero messi a confronto coi diversi punti di vista sulla vita e non avessero, attraverso questo processo, la possibilità di apprendere l’importanza del rispetto della diversità.

Queste parole costituiscono una chiara manifestazione di apprezzamento della Grande Camera rispetto al modello di integrazione seguito dal nostro Paese: un modello volto a valorizzare le diversità nel contesto di una laicità inclusiva, rispettosa sia del pluralismo culturale e religioso di cui gli alunni e le loro famiglie sono portatori sia della storia e dell’identità del Paese. Un modello per certi aspetti antitetico rispetto a quello seguito in altri paesi europei, come l’Inghilterra o la Francia, in cui tende a prevalere una concezione “astratta” della laicità che, in ossequio ad un principio di eguaglianza puramente formale, troppo spesso oblitera le tradizioni e non valorizza adeguatamente le diversità. Questo moderno processo al Crocifisso, in conclusione, lungi dal conseguire l’effetto sperato, ha messo in luce l’opportunità di riconsiderare in termini critici la nozione stessa di laicità, riconoscendo come all’interno di una comune etichetta possano essere ricondotte concezioni affatto diverse della vita e del mondo, che richiedono analisi prudente e attenta opera di discernimento.

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