sabato, luglio 21, 2012
Le cosiddette “leggi eversive dell’asse ecclesiastico” costituiscono un passaggio fondamentale nella storia dell’Italia unita, benché siano sovente ignorate, con qualche imbarazzo, dalla manualistica scolastica perché in contrasto con la retorica “risorgimentale”, di cui è tuttora impregnata gran parte della moderna storiografia.

di Bartolo Salone

Tra le tante ricette suggerite dal governo tecnico per far fronte al debito pubblico, sembra ormai di prossima attuazione quell’alienazione di beni pubblici prevista dalla legge di stabilità per il 2012 che dovrebbe comportare l’immissione sul mercato degli immobili non utilizzati di proprietà dello Stato, delle regioni e degli enti locali. Quella programmata è una massiccia operazione di dismissione del patrimonio pubblico da condurre con la massima oculatezza: il rischio da scongiurare è quello della vendita di beni pubblici “sotto-costo” a privati, che finirebbe – come già avvenuto in passato – con l’avvantaggiare pochi, senza peraltro un apprezzabile beneficio per le casse dello Stato. Tutto dipenderà quindi dal modo in cui la dismissione verrà concretamente attuata. In ogni caso rimane l’anomalia, tipicamente italiana, di uno Stato che possiede un patrimonio immobiliare smisurato in larga parte inutilizzato o non adeguatamente valorizzato, un patrimonio immenso che pare oggi costituire più un freno che una risorsa per l’economia nazionale.

Per una strana ironia della sorte, quando si parla di manomorta si pensa subito alla manomorta ecclesiastica, espressione che designa la situazione di privilegio di cui godeva la Chiesa, che per diritto feudale ha accumulato nel corso dei secoli un ingente patrimonio, mobiliare e soprattutto immobiliare, per effetto di lasciti testamentari e di donazioni pubbliche e private; si tratta di un patrimonio non alienabile, non assoggettabile ad imposta di successione e per di più divenuto col tempo improduttivo. Ma forse oggi non è azzardato impiegare la medesima espressione per indicare la condizione di privilegio di quei beni pubblici da cui lo Stato e l’economia non traggono concretamente alcuna utilità. Anzi, tra le cause, a dire il vero non troppo remote, di questa nuova forma di “manomorta” vi è anche, a ben vedere, il modo del tutto inadeguato con cui lo Stato italiano, subito dopo l’unificazione, ha inteso rimediare al problema della manomorta ecclesiastica. Questa costituì infatti una delle premesse ideologiche di quella che gli storici non a sproposito definiscono come “politica eversiva dell’asse ecclesiastico”: vale a dire, una politica diretta a depredare il patrimonio della Chiesa con il proposito, da un lato, di rimpinguare le casse dello Stato (in fortissimo deficit a causa delle numerose guerre e rivolte che la monarchia sabauda dovette intraprendere e finanziare per realizzare il “sogno” dell’unità nazionale) e, dall’altro, di infliggere un duro colpo agli ordini religiosi, che, privati dei mezzi finanziari, si riteneva – ma la storia avrebbe contraddetto questa previsione – sarebbero presto morti.

La prima legge “eversiva” venne approvata in Piemonte nel 1855 e prevedeva la privazione della personalità giuridica degli enti religiosi ritenuti dallo Stato “inutili” per il soddisfacimento delle esigenze materiali e spirituali della popolazione (sostanzialmente si trattava degli ordini monastici e di vita contemplativa, votati esclusivamente alla preghiera), con conseguente assegnazione dei loro beni alla Cassa ecclesiastica dello Stato. In sostanza, lo Stato si appropriava degli edifici e delle proprietà fondiarie degli Ordini religiosi, costringendo i religiosi a lasciare i loro conventi in cambio di un vitalizio. La condizione dei monaci e delle monache, una volta “sfrattati” dai loro conventi, era la seguente: o ritornare al secolo o aggregarsi ad altre famiglie religiose accettando gli “ordini di concentramento” spiccati dal Governo. In un caso come nell’altro di fatto i religiosi venivano costretti a violare i loro voti religiosi: questo era quel che accadeva nel Piemonte “liberale” e quel che sarebbe di lì a poco accaduto con virulenza crescente nel resto d’Italia (una volta attuata l’unificazione) con l’emanazione delle “leggi eversive” del 1866 e del 1867. La legislazione eversiva, benché tante volte venga giustificata dalla storiografia liberale sulla base di esigenze di crescita dell’economia e di equità sociale, si inseriva in realtà in una politica di persecuzione sistematica e deliberata contro la Chiesa cattolica, condotta da una classe dirigente fortemente impregnata di sentimenti di anticlericalismo giacobino e massonico. Lo stesso Cavour, ideatore e sostenitore della legge eversiva del 1855, non ne faceva del resto mistero, come risulta dal resoconto della discussione parlamentare sul disegno di legge di soppressione dei conventi da lui sostenuto. Ebbene – come ci ricorda un contemporaneo, Giacomo Margotti, nelle sue pregevoli “Memorie per la storia dei nostri tempi” – alle perplessità sollevate dal deputato Revel nella seduta del 22 febbraio 1855 circa la convenienza economica della soppressione degli enti ecclesiastici, il conte di Cavour, con il suo usuale cinismo, rispose che di certo un qualche vantaggio sul piano economico si sarebbe avuto, aggiungendo però che questa era questione secondaria, la principale consistendo “nell’effetto finanziario della soppressione di alcune corporazioni”: infatti, continua Cavour, “sopprimendo il 30% in numero [ossia il 30% degli Ordini religiosi, tale essendo l’effetto che il conte attribuiva alla sua legge, N. d. A.], forse noi sopprimeremo il 60-70% in ricchezze”. Il fine principale delle “leggi eversive”, per stessa ammissione di Cavour, non era allora di tipo “solidaristico”, ma rispondeva ad un intento vessatorio, quello cioè di mettere in ginocchio sul piano finanziario gli ordini e le congregazioni religiose. Le leggi eversive dell’asse ecclesiastico si inseriscono quindi a pieno titolo all’interno di una politica di persecuzione religiosa portata avanti con convinzione e con cinismo da un Governo che pure aveva fatto del liberalismo e del costituzionalismo il suo vessillo ideologico. Il paradosso è che lo Statuto del Regno dichiarava il cattolicesimo religione dello Stato, eppure, tra tutte le religioni, quella più perseguitata e vessata nel periodo liberale fu proprio la religione cattolica! E mentre lo Stato toglieva alla Chiesa di Roma, dava in compenso alle chiese protestanti presenti sul suo territorio (lo stesso Margotti ricorderà ad esempio nelle sue “Memorie” l’assegnamento che il Governo propose nel bilancio del 1856 in favore dei Valdesi).

Queste, dunque, le conseguenze sul piano religioso: indebolimento e mortificazione della religione maggioritaria nel Paese, formalmente religione dello Stato, e rafforzamento delle confessioni di minoranza. Ma sul piano economico-sociale gli effetti della politica eversiva dell’asse ecclesiastico non furono meno devastanti. Infatti, l’ingente quantità di beni immessi sul mercato mediante vendita all’asta provocò un ribasso generalizzato dei prezzi del mercato immobiliare. Ancora, i beni rimasti nella disponibilità del demanio e destinati a caserme, scuole, uffici pubblici, manicomi, furono di utilità limitata, in quanto edifici concepiti originariamente come conventi, di così grandi dimensioni e siti in luoghi isolati, si rivelavano spesso inadeguati alle nuove destinazioni. I terreni agricoli sottratti alla manomorta ecclesiastica non vennero assegnati ai piccoli agricoltori nell’ottica di un’equa riforma agraria, ma andarono alla già ricca borghesia rurale, rimpinguando ulteriormente i latifondi. Le terre, passate dal demanio e dai possedimenti ecclesiastici ai privati proprietari, vennero altresì recintate e i contadini persero i benefici derivanti dai soppressi usi civici, come i diritti di pascolo, di raccoglier legna o erba, assicurati dall’ordinamento feudale. Erano poste così le premesse della “questione meridionale”. Risolto il problema della manomorta ecclesiastica, si aprivano altre e non meno gravi questioni. E alla vecchia manomorta ne subentravano di nuove, con conseguenze che ci portiamo appresso fino ai giorni nostri.

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