E’ sempre più diffusa a livello mediatico e politico, soprattutto nei Paesi occidentali, la vulgata del “no-differences”. Ma davvero tra i figli cresciuti in una normale famiglia con genitori di sesso diverso e quelli allevati da coppie omosessuali non si riscontra nessuna differenza? Studi recenti dimostrano l’inconsistenza di questa tesi, fondata su basi empiriche piuttosto fragili.
Se si ritorna sull’argomento è perché il dibattito sull’omogenitorialità non accenna a placarsi, specialmente dopo i pronunciamenti degli ultimi anni di alcune associazioni scientifiche americane (l’American Psychiatric Association, l’American Psychoanalitic Association, l’American Academy of Pediatrics, l’American Academy of Child and Adolescent Psychiatry e da ultimo il Canadian Psychological Association), le quali ci assicurano che, sulla base degli studi condotti negli ultimi 25 anni, non è possibile affermare che vi siano significative differenze sotto il profilo dello sviluppo cognitivo, emozionale, sociale e sessuale tra i bambini cresciuti da genitori gay o lesbiche e quelli cresciuti da genitori di sesso diverso. Pronunciamenti che hanno costituito la base “scientifica” per l’approvazione nell’ultimo decennio in alcuni Paesi europei ed americani di leggi che consentono l’adozione da parte di coppie omosessuali. In argomento ho già avuto modo, in un vecchio articolo, di evidenziare come i risultati di tali ricerche, anche a volerli accettare senza obiezioni (ma di riserve gli studiosi ne hanno sollevato più d’una), non conducono necessariamente, sul piano politico-legislativo, ad ammettere le adozioni gay o altre politiche di sostegno della famiglia “omogenitoriale”. Infatti, se pure fosse vero che le famiglie omogenitoriali non ostacolano in maniera significativa lo sviluppo psicosociale della prole, rimarrebbe comunque fermo il diritto dei bambini (questo sì inviolabile, a differenza del desiderio dei grandi a diventar genitori, che è una semplice aspirazione) ad avere un padre e una madre. Né pare serio sostenere che per un bambino sia la stessa cosa poter contare sull’affetto e sulla presenza di una mamma e di un papà o, al contrario, sulla presenza di un solo genitore o di due “genitori” dello stesso genere. O quantomeno, in una prospettiva che intenda assicurare il “meglio” ai bambini dovrebbe essere così: se invece si cercano soluzioni di compromesso tra quel che sarebbe il meglio per il minore e i “desiderata” dei grandi il discorso cambia radicalmente.
Tanto premesso, vediamo più da vicino se i risultati degli studi condotti finora sullo spinoso tema della omogenitorialità giustifichino realmente quella vulgata del “no-differences” (cioè l’idea che per un bambino sia indifferente crescere all’interno di una famiglia con genitori di sesso diverso o di una coppia omosessuale) che ormai da tempo i militanti gay portano avanti con ostinazione e che di recente comincia a far breccia presso il mondo scientifico e le istituzioni statali. Innanzitutto, sotto il profilo della metodologia seguita, da più parti è stato messo in risalto come, soprattutto nei primi studi, i campioni di soggetti esaminati non siano stati adeguatamente selezionati: in particolare, si è osservato che, essendo per molte ricerche volontaria l’adesione delle madri, difficilmente quelle con figli che abbiano dei problemi avrebbero potuto presentarsi spontaneamente. Inoltre, molto spesso per la selezione dei “casi” da esaminare si è fatto ricorso all’intermediazione di movimenti e associazioni gay piuttosto che a campioni casuali: il che ha inciso non poco sulla significatività statistica dei risultati ottenuti. Per di più, una nuova elaborazione dei dati raccolti da alcuni dei primi studi ha portato a risultati sensibilmente diversi, il che fa nascere quantomeno il sospetto di alterazioni volontarie da parte dei primi ricercatori.
Se gli indicati difetti metodologici sono stati in qualche misura evitati negli studi successivi, rimane il fatto che anche nelle indagini più recenti i campioni di riferimento sono stati troppo limitati per ottenere risultati probanti e significativi (il numero medio dei figli di omosessuali esaminati nei vari studi, secondo Rosenfeld, è stato infatti di appena 39). Inoltre, gli studi di Golombok del 2004 e del 2009, i quali avrebbero riscontrato nei figli adulti ed adolescenti di madri lesbiche un benessere psicosociale addirittura migliore rispetto a quello dei figli di coppie eterosessuali, si sono svolti rispettivamente su di un campione di 25 casi, il primo, e di 20 casi, il secondo (sembra, insomma, che più ristretto è il campione di riferimento più le ricerche conducono ad avvalorare la tesi del “no differences”). Infine, si è rilevato come la quasi totalità degli studi riguarda famiglie omosessuali femminili per molte delle quali il figlio è cresciuto con una figura paterna in una normale famiglia eterosessuale, fino al divorzio dei genitori. Gli studi su famiglie gay con bambini cresciuti fin dall’infanzia senza la figura materna sono invece rarissimi (Tasker nel 2005 registrava al riguardo solo 2 ricerche su 45); e per di più, Cameron, nel 2009, passando in rassegna 9 studi di figli di coppie gay, identifica a loro riguardo diversi tipi di deficit.
Ma davvero gli studi che si inscrivono nella corrente del “no-differences” non hanno rilevato nessuna differenza tra i figli di coppie omosessuali e quelli delle famiglie eterosessuali? Non è del tutto esatto, perché ad essere precisi delle differenze in valore assoluto sono state riscontrate (è risultato ad esempio che, a parità di condizioni socio-demografiche, i figli di coppie omosessuali presentano un minor livello di rendimento scolastico e maggiori disturbi psicologici in termini di ansia e depressione), solo che gli studiosi che hanno condotto quelle ricerche semplicemente non hanno ritenuto le riscontrate differenze statisticamente rilevanti. Ad ogni modo, le differenze non sarebbero “significative” solo sotto taluni aspetti (caratteristiche psico-sociali, rendimento scolastico e comportamenti devianti), mentre si fanno decisamente marcate sotto altri profili, in primo luogo sul modo di vivere la sessualità: al riguardo Cameron, esaminando 77 figli adulti di coppie lesbiche e gay, ha riscontrato un orientamento omosessuale in 23 di loro, cioè nel 30% dei casi; e un più recente studio condotto nel 2010 da Gartrell, Bos e Goldberg ha riscontrato che le ragazze cresciute in famiglie omosessuali mostrano una maggiore predisposizione (circa il 200% in più) ad intrattenere rapporti omosessuali e i ragazzi, per converso, sono meno propensi a sperimentare relazioni eterosessuali (circa il 35% in meno). Il che dovrebbe indurre a riconsiderare l’idea secondo cui la crescita all’interno di nuclei familiari omogenitoriali non incide minimamente sul futuro orientamento sessuale della prole.
Invece, non sono stati riscontrati maggiori tassi di abusi su minore nelle famiglie lesbiche, ma questo è probabilmente dovuto al fatto che la pedofilia è un fenomeno prevalentemente maschile (così ancora Gartrell, Bos e Goldberg). D’altro canto, però, numerosi sono gli studi che dimostrano che il tasso di abusi pedofelici omosessuali è decisamente superiore rispetto al tasso di omosessualità nella popolazione. Infine, emerge inquietante un altro dato: le coppie omosessuali, nel complesso, presentano una minore stabilità rispetto alle coppie eterosessuali e per di più mostrano un elevato tasso di attività sessuale al di fuori della coppia. Ci si chiede allora – per quanto possa apparire retorica la domanda – come tutto questo possa contribuire ad una crescita sana ed equilibrata dei figli.
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È presente 1 commento
Che disastro rimescolarela natura! Penso che ,al dilà delle ricerche , i veri risultati di queste storture ci saranno tra qualche anno e chissà cosa vedremo!!
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