“L’unica soluzione è la pace” dice alla MISNA Paulino Lukudu Loro, arcivescovo di Juba e presidente della Conferenza episcopale del Sudan. Lunedì si festeggia il primo anniversario dell’indipendenza del Sud, ma questo missionario comboniano non è solo o soltanto “felice”. Ha servito la sua gente nella anni della guerra civile (1983-2005) e ora non dimentica le sofferenze di chi, anche dall’altro lato del nuovo confine, aspetta ancora giustizia.
Misna - Monsignore, come ha vissuto questo primo anno di indipendenza?
“Sono felice. Finalmente mi sento un cittadino, con un mio paese. Credo che tutti i sud-sudanesi si sentano allo stesso modo. Anche se ci rendiamo conto, tutti, che per molti aspetti è stato un anno difficile. Ma questo non oscura né diminuisce l’importanza, storica, dell’indipendenza”.
In Sud Sudan, però, è già emergenza. Lo scontro con Khartoum sul petrolio ha finito per privare lo Stato di gran parte delle sue entrate. Dopo 22 anni di guerra civile, come si costruisce il futuro?
“Il petrolio è una delle grandi sfide da affrontare. Deve farlo il Sud Sudan e deve farlo il Sudan, entrambi paesi appena nati. Il blocco delle esportazioni causato dai contrasti con Khartoum sulle tariffe per il transito del greggio è un fatto molto negativo, che nessuno voleva. Ad avere le responsabilità maggiori è però il Sudan, che non ha mai provato a negoziare su basi di uguaglianza. La conseguenza è che adesso mancano i fondi non solo per le scuole ma anche per garantire la sopravvivenza stessa delle persone”.
A Juba si festeggia mentre in diverse regioni del Sudan, dai Monti Nuba al Nilo Blu, si continua a combattere…
“Sono in molti a soffrire. Ci sono migliaia di sud-sudanesi trattati duramente dal governo di Khartoum e ci sono, certamente, i Nuba. Questo popolo vive in Sudan, intendo dire dall’altra parte del confine, dove hanno sempre avuto la loro terra. È un popolo che sta subendo restrizioni, violenze e abusi e questo è inaccettabile. L’unica soluzione è la pace. Per prima cosa il Sudan deve accettare di parlare di pace”.
Misna - Monsignore, come ha vissuto questo primo anno di indipendenza?
“Sono felice. Finalmente mi sento un cittadino, con un mio paese. Credo che tutti i sud-sudanesi si sentano allo stesso modo. Anche se ci rendiamo conto, tutti, che per molti aspetti è stato un anno difficile. Ma questo non oscura né diminuisce l’importanza, storica, dell’indipendenza”.
In Sud Sudan, però, è già emergenza. Lo scontro con Khartoum sul petrolio ha finito per privare lo Stato di gran parte delle sue entrate. Dopo 22 anni di guerra civile, come si costruisce il futuro?
“Il petrolio è una delle grandi sfide da affrontare. Deve farlo il Sud Sudan e deve farlo il Sudan, entrambi paesi appena nati. Il blocco delle esportazioni causato dai contrasti con Khartoum sulle tariffe per il transito del greggio è un fatto molto negativo, che nessuno voleva. Ad avere le responsabilità maggiori è però il Sudan, che non ha mai provato a negoziare su basi di uguaglianza. La conseguenza è che adesso mancano i fondi non solo per le scuole ma anche per garantire la sopravvivenza stessa delle persone”.
A Juba si festeggia mentre in diverse regioni del Sudan, dai Monti Nuba al Nilo Blu, si continua a combattere…
“Sono in molti a soffrire. Ci sono migliaia di sud-sudanesi trattati duramente dal governo di Khartoum e ci sono, certamente, i Nuba. Questo popolo vive in Sudan, intendo dire dall’altra parte del confine, dove hanno sempre avuto la loro terra. È un popolo che sta subendo restrizioni, violenze e abusi e questo è inaccettabile. L’unica soluzione è la pace. Per prima cosa il Sudan deve accettare di parlare di pace”.
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